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Charles Daly King : L’episodio del chiodo e del requiem (The Episode of the Nail and the Requiem, 1935) – trad. Dario Pratesi – in “I delitti della camera chiusa”, I Bassotti, Polillo, 2007

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Circa un anno fa ancora girava ancora la voce, di cui aveva dato per la prima volta notizia lo stesso Boncompagni sul Blog del Giallo Mondadori, che si sarebbero potuti pubblicare tutti i racconti di Mr. Tarrant di C.Daly King, in uno Speciale apposito. In passato, anni fa, si era fatto per Lovesey, per Carr, per Queen, nei Supergialli; così come talora ancora escono dei numeri speciali del Giallo Mondadori. Quindi sulla possibilità che potesse accadere, nulla quaestio. Poi, però la cosa non ha avuto seguito. Visto che da una parte la sensibilità c’era a tradurre in Italia un must, e visto che poi non se n’è fatto nulla, è chiaro che chi doveva decidere, ha deciso di soprassedere. Ora che a Forte il romanzo mystery degli anni ’30-’40  non piaccia, si è capito chiaramente, e che prediliga piuttosto quello contemporaneo, altrettanto chiaramente lo si è compreso. Oddio, non ci sarebbe nulla di male. Ognuno la pensa come crede. E la produzione contemporanea potrebbe essere anche interessante, se rispondesse sempre ad un canone di qualità pari a quella di quegli anni che furono. Cioè in parole povere, se avessimo romanzi di Lovesey, Colin Cexter, Cook, Martin Edwards, Paul Doherty, Paul Halter, Lehane,Bazell, Lansdale, nessuno umanamente potrebbe dire alcunchè.

Ma il bello è che abbiamo altri romanzi, di altri autori, o meglio autrici. Non sono sessista, affatto. Ma oramai Anne Perry ha fatto il suo corso. E lo dice uno che ha i primi suoi venti romanzi. Ma, chi anche è innamorato della Perry, non potrà non riconoscere che le trame sono sempre quelle, e si ripete in continuazione, un po’ come i romanzi di Amelia Peabody.

Ora al di là del gusto, forse, dico forse, nella decisione di Forte hanno pesato anche i diritti. Forse. Nonostante ciò al di là delle considerazioni personali, se ci si fosse basati su quelle dei “professionisti storici del Mystery”, i racconti di Mr Tarrant di Daly King,  sarebbero dovuti essere pubblicati non fosse anche perchè celebrati  nientepopodimeno che da Ellery Queen.

Fatto sta che i racconti di Mr Tarrant non si faranno più. E allora è necessario cercare di raccogliere quelli che sono almeno stati pubblicati in Italia: i due pubblicati almeno fino a questo momento da Polillo ed uno virtualmente introvabile, legato agli albi della Garzanti degli anni ’50.

Originalmente,i racconti di Daly King pubblicati nel 1935 erano otto:

1 – The Episode of the Codex’ Curse

2 – The Episode of the Tangible Illusion

3 – The Episode of the Nail and the Requiem

4 – The Episode of the ‘Torment IV

5 – The Episode of the Headless Horrors 

6 – The Episode of the Vanishing Harp 

7 – The Episode of the Man with Three Eyes 

8 –The Episode of the Final Bargain

Tuttavia alcuni anni più tardi, nel 1944 Daly King fu persuaso da Frederic Dannay (uno dei due cugini Queen, editor del EQMM) a scrivere altre 2 storie per l’Ellery Queen Mystery Magazine: una del settembre 1944 e un’altra del dicembre 1946. A queste due si aggiunse una pubblicata sul mensile Fantasy and Science Fiction nel febbraio 1951 (con lo pseudonimo di Jeremiah Phelan), ed una pubblicata postuma nell’ aprile 1979 in quanto scoperta dopo la morte dell’autore, avvenuta nel 1963.

The Episode of the Little Girl Who Wasn’t There 

The Episode of the Sinister Invention 

The Episode of the Absent Fish

The Episode of the Perilous Talisman 

Queste ulteriori quattro storie, mantengono molto alti i range narrativi di King; purtuttavia differiscono in modo marcato, in quanto il maggiordomo-dottore Kaoth viene rimpiazzato da un altro maggiordomo sempre orientale ma  filippino.

Perchè Daly King scrisse solo sei romanzi e solo otto storie prima della guerra, e dopo non ne scrisse  più (un settimo romanzo è attestato essere stato scritto ma il manoscritto ad oggi è da ritenere perduto), tranne appunto le quattro storie di cui si è parlato? Edward D. Hoch lo spiega nella sua introduzione dell’antologia di tutte le storie di Mr. Tarrant pubblicate da Crippen & Landru nel 2003: The Complete Curious Mr. Tarrant. A suo parere, la disaffezione a scrivere storie poliziesche nacque nello scrittore dal poco calore con cui vennero accolte in patria. Per Hoch questa disaffezione potrebbe essere spiegata con quella sorta di bizzarria di situazioni, che se incontrò il favore del pubblico britannico, tanto da meritare la pubblicazioine di tutti e sei romanzi presso Collins, non altrimenti fu accettata sempre calorosamente in America: per definire il tipo di storie, del resto Hoch usa il termine “too landlish” (=troppo strane).

I due racconti pubblicati da Polillo sono tratti dalle prime otto storie, mentre quello pubblicato sugli albi della Garzanti, è tratto dalle addizionali quattro storie.

Dei due pubblicati da Polillo, il più interessante e il più famoso è quello “del chiodo e del requiem”, che è una Camera Chiusa che più chiusa non si può. Per certi versi è una delle camere chiuse più chiuse che vi siano mai state, e questo è il suo limite, sia in un senso che nell’altro. Cosa significa? Beh, forse è meglio dire quale sia la trama.

Mr. Travis Tarrant, e il suo amico e narratore Mr. Jerry Phelan, sono alle prese con un caso impossibile. Nell’attico di un palazzo, dove si trovano a parlare con l’amministratore, un antennista ha avvertito che c’è della musica che esce ad alto volume da una casa in cui sembra non esserci nessuno: il bello è che dovrebbe esserci invece, almeno una ragazza che è stata accompagnata sopra, e che non è stata vista allontanarsi. La musica che si ode, è quasi il presagio che qualcosa di luttuoso è avvenuto: è infatti un requiem, il Requiem di Palestrina.

L’attico è un guscio di cemento e vetri, in cui tutte le uscite, finestre e lucernario sono chiuse dall’interno; e così lo è anche la porta di entrata, con un catenaccio. Il passepartout dell’amministratore non funziona  essendo chiusa la porta dall’interno col catenaccio. Ma, per quanto strano, il padrone potrebbe essersi addormentato: è un pittore, Michael Salti, che non ha mai dato problemi agli altri condomini da quando un anno prima è venuto ad abitare. Così Tarrant si arrampica e cerca di guardare dal lucernario, che da luce al grande studio del pittore. Quello che vede però lo costringe a intimare all’amministratore dello stabile, di chiamare la polizia al più presto. Infatti, quando assieme ad un agente dipolizia, sfondano la porta, trovano una donna completamente nuda, oscenamente esposta su un divano e uccisa per mezzo di  pugnale che l’ha trafitta al petto, e che ancora è conficcato sotto il seno sinistro.Ai quattro lati del divano, quattro candele accese, completano la scena macabra.

La donna, nota negli ambienti cittadini, come una ragazza disinibita di facoltosa famiglia, ha portato alla rovina più di un uomo, da quando si è presentata un anno prima alla società perbene della città. Quindi, che prima o poi potesse finire male, non è un dato sul quale interrogarsi. Ci si interroga invece su uno più stringente: è un fatto che qualcuno la donna deve pur averla uccisa. Non solo: l’ha anche dipinta, nella posa straziante. E ha piantato un chiodo, laddove nel cadavere è infisso il pugnale. E per di più ha pure ritratto il sangue uscito copiosamente dalla ferita. L’opera di un pazzo, certamente pensa Tarrant. Ma un pazzo che deve aver escogitato un piano perfetto ed un trucco di altissimo ingegno se gli è riuscito di scappare da una stanza da dove non sarebbe potuto uscire neanche uno spillo. E volatilizzarsi, giacchè nessuno per di più l’ha visto uscire.

Tarrant tuttavia nota dei particolari di cui non riesce a capacitarsi: la presenza di un buco in un asso del pavimento, che corrisponderebbe al foro di un chiodo, come quello usato per forare la tela sul cavalletto, e il fatto che il cavalletto non dovrebbe stare dove è lecito che sia, cioè di fronte al divano, su cui giace il cadavere, ma è girato, dove non c’è ragione che stia, anche perchè il lucernario, anche questo sbarrato dall’interno, la funzione la possiede in qaunto la luce che da esso penetra, dovrebbe illuminare proprio il posto dove il cavalletto è presumibile che in un primo tempo fosse, da cui poi invece è stato spostato.

Tarrant si chiede questo, ma non riesce a venirne a capo. Potrebbe supporre che l’assassino si sia nascosto da qualche parte, per esempio sotto il pavimento, ma oltre quello che trovano nel bagno, non c’è nulla di simile nel resto dell’appartamento: sotto la vasca, sono state tolte delle assi de pavimento cosicchè c’è un buco, che si apre su una intercapedine che c’è tra il soffitto dell’ultimo piano dello stabile e l’attico propriamente detto. In uno spazio di settanta centimetri, un uomo potrebbe starvi nascosto: ma lì trovano solo polvere e sudiciume.

Tuttavia cosa stanno a farci un buco sotto la vasca, un asse del pavimento in cui è stato infisso un chiodo che poi presumibilmnente è stato infisso nella tela, e perchè il cavalletto è fuori posto?

Sono domande che sono senza risposta. Tuttavia il buon senso vorrebbe che se nessuno è uscito da quell’attico, l’assassino stia ancora lì, come sentenzia Katoh,il domestico dottore di Tarrant. E perciò Tarrant vorrebbe che montassero la guardia davanti alla porta dell’attico, due poliziotti e non uno che invece è messo dall’autorità di polizia. Lui ha provato ad utilizzare il grosso chiodo per cercare di svellere l’asse o per pigiarla, utilizzandolo cioè come un pomello, pensando ad una botola nascosta

Fatto sta che la mattina dopo, il poliziotto sembra svanito, anzi qualcuno testimonia di averlo visto uscire alle 3 e mezzo del mattino, e dirigersi verso una tavola calda. E qualcosa è avvenuto di strano: qualcuno ha tolto il chiodo dal quadro, per rimetterlo dopo al suo posto. Lo testimonierebbe il fatto che il foro nella tela sia più largo di prima.

Come ha fatto l’assassino a fuggire dall’attico ? E perchè il poliziotto è andato via violando la consegna?

Tarrant risponderà al quesito, scoprendo un secondo cadavere occultato e rivelando il modo come l’assassino si è nascosto.

E’ evidente che un nascondiglio dovesse esservi. E siccome, nelle pareti è impossibile perchè sono in cemento, è altresì evidente che un nascondiglio deve essere stato in qualche modo ricavato proprio nel pavimento. Tuttavia il trucco di Daly King è direttamente connesso al perchè sotto la vasca del bagno vi sia un buco e manchino lì delle assi. Il trucco è particolarmente ingegnoso, ed è da mettere in relazione alla presenza di un foro di chiodo in un asse vicino in sostanza al muro dello studio in prossimità del bagno.

Al di là del trucco, che è poi l’anima del racconto, e che spiega anche il perchè il chiodo sia stato tolto e poi rimesso ( e già in questo viene messo ancor più alla prova il ragionamento: come fa l’omicida ad usare il chiodo che è infisso nella tela se egli è nascosto?), è proprio la particolare posizione del cavalletto, girata rispetto a quella iniziale, a fornire la prova che qualcosa debba essere avventio a livello del pavimento. E questo è il solo elemento a cui l’assassino non ha pensato, e quindi è il neo di tutto il piano delittuoso.

E’ evidente che ci troviamo nel tipico caso di Camera Chiusa in cui l’assassino non è uscito, e aspetta che qualcuno gli dia la possibilità di uscire: il fatto come avvenga, lo mette in relazione con un altro celebre racconto di camera chiusa – in questo blog già analizzato –The Gemminy Cricket Case  di Christianna Brand, a questo successivo di oltre trent’anni. Probabilmente per come avviene, potrei anche ipotizzare una filiazione diretta del secondo dal primo. Un’altra filiazione da questo racconto potrebbe essere il romanzo di Charles Ashton (1948), Dance for a Dead Uncle, sempre in questo blog recensito:  lì intorno alla bara ci sono quattro candele accese; qui il divano con il cadavere fa pensare ad una bara.

Ma la filiazione principale è di questo racconto da altri soggetti precedenti. Come non parlare di The Big Bow Mystery (1892) di Israel Zangwill? Se questo romanzo cardine non ci fosse stato, altri costruiti sul medesimo espediente, magari variato, non li avremmo letti: da  Le mystère de la chambre jaune (1907) di Gaston Leroux a Whistle Up The Devil (1953) di Derek Smith, da Le petit onzième nègre (1977) di Jacquemard & Senecal a The Bone Collector (1996) di Jeffery Deaver.

Però l’esistenza di una botola, rappresenta il limite negativo del racconto, laddove il virtuosismo massimo di una camera chiusa sta proprio nel non contemplare botole, che quando presenti non sono funzionali alla  Camera, mentre qui una lo è.

Il racconto testimonia la sua discendenza vandiniana nelle figure dei due protagonisti: Travis Tarrant è nelle corde un’altra specie di Philo Vance, un uomo che pensa di vincere la noia solo risolvendo casi che metterebbero alla prova il cervello di ogni detective che si rispetti, mentre il Van Dine della stituazione è rappresentato da Mr. Jerry Phelan, il narratore, che parla sempre in prima persona, che entra nell’azione ma come soprammobile quasi, che partecipa all’azione in quanto solo testimone e narratore. 

Ovviamente vi è un servitore: questo è un maggiordomo orientale, Katoh, in sostanza una spia giapponese. Nel 1935, è un personaggio che si poteva accettare. Più tardi sarà rimpiazzato da un maggiordomo filippino con identiche caratteristiche: i giapponesi nel periodo bellico erano “i musi gialli”. Se pertanto Kaoth nel 1935 si poteva ancora accettare, nel 1944 sarebbe stato impensabile.


Pietro De Palma


Paul Halter: L’omicidio di Atlantide (Le Géant de Pierre, 1998) – trad. Igor Longo – I Classici del Giallo Mondadori, N° 1087 del 2005

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Le Géant de Pierre (L’omicidio di Atlantide), quando fu pubblicato, determinò un piccolo giallo. Diciamo un giallo in famiglia. Allora ero molto da vicino a Igor Longo, che in quel tempo era uno dei consulenti editoriali Mondadori più seguiti. Mi ricordo che Igor era rimasto contrariato dal fatto che il romanzo fosse uscito in autunno, mentre lui aveva caldeggiato che uscisse d’estate. Perché? Perché nella geografia del poliziesco, ci sono romanzi che è meglio escano d’estate ed altri in inverno: di solito i romanzi più complessi, più drammatici si inseriscono (o si inserivano) nella programmazione autunnale-invernale, mentre quelli più leggeri venivano pubblicati d’estate.

Tra i romanzi di Halter, questo è uno dei più leggeri (ma leggeri non significa che non siano drammatici. E questo è drammatico. Anzi è tragico. Al pari delle tragedie greche. In cui non c’è mai una possibilità di redenzione). E quindi Igor si aspettava che fosse proposto in estate, e come tale avrebbe potuto avere degli ottimi riscontri di vendita. Invece fu proposto in autunno inoltrato, e a sentire le notizie che arrivarono, ebbe un flop di vendite. La conseguenza fu che a partire da questo romanzo, la proposizione degli Halter in edicola, cominciò a latitare, con sommo rincrescimento innanzitutto di Igor  ( che su Halter, Doherty, Abbot e altri francesi aveva fondato in gran parte la propria fortuna  ), poi mio, e poi di tutti gli halteriani italiani.

La conseguenza ulteriore fu che dopo un po’ di tempo che non uscivano romanzi di Halter inviai due email alla redazione, lamentando una scarsa attenzione nei confronti dei mystery transalpini. A quei tempi, coloro che  scrivevano  alla redazione erano pochi, e quindi inevitabilmente una missiva di contestazione faceva un certo effetto. Io addirittura  ne inviai anche una seconda, dopo un po’. Figurarsi l’effetto che fece.

GAVDOS2012Tempo fa Paul mi inviò delle sue foto, ed una mi disse era stata scattata durante un suo viaggio in Egeo. Forse in occasione della scrittura di questo romanzo, forse in altra occasione. Fatto sta  che Paul è molto sensibile ai viaggi, e sovente proprio dalle località che visita trae spunti per i suoi lavori narrativi.

Il romanzo ha per oggetto Creta, e in genere i vulcani, e si sviluppa su due piani paralleli, come talora accade con le storie di Paul: una nel presente, un’altra nel passato. Che poi inevitabilmente si incrociano determinando varie situazioni.

Il protagonista, Patrick Marais, si è invaghito di Nanno, la bella figlia di un armatore, erede di una cospicua fortuna. Si sono conosciuti che lei era una ragazza e lui ancor giovane, e insieme hanno avuto esperienze sia piacevoli che meno, soprattutto Nanno. Poi si sono sposati; ora viaggiano per il mondo, protetti dai soldi che ha il padre. Cercano emozioni, non potendone avere di altre: Nanno non potrà avere figli.

Insieme stanno visitando le pendici di un vulcano attivo in America, quando un’improvvisa eruzione, mentre sono insieme accompagnati da una guida, fa sì che i due, nella pioggia di cenere e lapilli, pensando di correre assieme, prendano invece, ad un bivio, due strade diverse: lui e la guida da una parte, lei da un’altra. Se ne accorgono solo dopo aver corso un bel po’ per scampare agli affetti dell’eruzione, e quando ciò avviene è già troppo tardi perché l’ineluttabile non accada. Nella migliore delle ipotesi Nanno potrebbe essersi salvata, nella peggiore morta. La denuncia viene fatta alle autorità che cominciano a sospettare di Patrick, pensando ad un’ipotesi di uxoricidio. La presenza tuttavia della guida che afferma l’estraneità del marito nella sorte della moglie, fa sì che le indagini nei confronti dell’uomo non procedano anche quando viene trovato un corpo carbonizzato con addosso degli effetti personali che il marito riconosce essere quelli della moglie.

Patrick così si ritrova ad essere erede di una cospicua fortuna.

Comincia a fare una vita dispendiosa, tanto di soldi ora ne è pieno! Anni dopo la perdita della moglie, mentre un giorno è sulla riva del mare, vicino alla sua vecchia dimora di famiglia, incontra un gruppo di hippies, di cui attrae la sua attenzione un giovane, Guy, ed una donna Helène Garnier. E’ soprattutto lei ad interessarlo, e ben presto se ne innamora. La ragazza dovrebbe essere spensierata, ma invece nasconde momenti in cui intristisce palesemente: ben presto Patrick, anche informato da Guy in merito, capisce che in lei vivono due esperienze di vita diverse, anche appartenenti a due periodi temporali differenti: uno è nel presente, quello che vive anche Patrick, l’altro è nel passato. In quest’ altra dimensione temporale, lei è la figlia più giovane di Amintore, il re di un’isola felice, sui cui grava però imminente sempre la catastrofe: il Gigante di pietra, il vulcano che si erge nell’isola, potrebbe risvegliarsi, e quando ciò è accaduto nel passato, gli eventi sono stati luttuosi.

Passano i giorni, e il legame tra lui e Helène si rafforza: i due vanno a vivere assieme, in una villa che l’erede ha acquistato. E fanno numerosi viaggi. Helène è preda delle sue allucinazioni, e questo accade spesso quando assume droghe oppure beve cocktail;  quando è in questi stati quasi onirici, Patrick scopre che anche il riflesso del fuoco, o la visione di un’eruzione, possono accentuare in lei  lo stato catartico. E per questo fa in modo che lei cada spesso in questi stati allucinatori, in quanto sempre più pensa che lei possa aiutarlo nelle sue ricerche. Marais è preda delle sue ricerche ambiziose: sogna di trovare Atlantide, ed è sempre più convinto che l’Atlantide di Platone non si trovasse in Oceano Atlantico ma nel Mar Mediterraneo, e che l’eruzione che determinò l’affondamento del continente, sia quella avvenuta intorno al sedicesimo secolo avanti Cristo, che determinò l’affondamento di Thera e la fine di Creta.

Cosa c’entra Helène? Patrick è convinto che Helène sia la reincarnazione di Cleo, la figlia di un re di Thera, oppure che comunque riviva come un déjà-vu esperienze di vita passata che apparentemente non sono sue, e che possa aiutarlo ad individuare il punto dove si inabissò gran parte dell’isola. Egli pensa che successivamente all’affondamento, quella civiltà abbia continuato ad esistere ed abbia fondato un regno nelle profondità del mare. Per cui è molto interessato che lei ricordi. Anche se i ricordi le procurano crisi di pianto. Soprattutto quando ricorda Scilla.

Cleto era l’erede al trono, perché la sorella Pandea non aveva avuto figli: la nascita di una figlia dal matrimonio di Cleto con Melanto, ha acuito le tensioni con Maleus , il sacerdote dell’isola, che voleva sposarla. Ora egli ha rivolto le sue attenzioni all’altra figlia, ma per divenire re è necessario che la piccola Scilla, figlia di Cleto e di Melanto, muoia. E così lui fa in modo che l’oracolo che parla tramite lui stesso, scelga la vittima sacrificale per placare l’ira del Vulcano: la principessina. A nulla valgono le minacce-preghiere dello stesso re Amintore, e del resto Melanto è in missione lontano, per portare in patria un carico di lingotti di rame, e la sorte della principessina è segnata: con l’avallo della stessa altra principessa di sangue reale, amante del sacerdote, la piccola viene buttata nel cratere.

Il sacrificio è compiuto, la successione al trono è sancita, Melanto è arrestato: tocca al vecchio re accusare il sacerdote di aver strumentalizzato l’ira del vulcano per togliersi un ostacolo al trono, tanto più che essa non si placa. Si arriva così ad una singolare sfida: Maleus rimarrà chiuso nella sua stanza, e se Poseidone vorrà vendicare Amintore, egli morirà; ma se rimarràin vita, sarà Amintore ad abbandonare a Maleus e Pandea il trono. L’indomani, tuttavia, Maleus non apre la porta a chi viene a trovarlo, e viene ritrovato ucciso mediante un tritone di bronzo: le porte sono chiuse dall’interno, all’esterno le guardie non hanno notato alcuno avvicinarsi, e l’unica via attraverso la quale forse può esser stato ucciso è un rigagnolo d’acqua collegato ad una sorgente, che scorre nelle capanna di Maleus. Come, è tuttavia un problema.

L’assassinio ricordato da Helène nei suoi sogni, diventa un modo come un altro per individuare nella città riportata alla luce da una missione archeologica, sull’isola di Thera, proprio il luogo del sogno di Helène, e quindi attribuirgli la patria potestas di uno sconvolgimento epocale. Del resto, proprio un oggetto ritrovato nel corso degli scavi, che un membro della missione accetta di far vedere a Patrick Helene e Guy in cambio di una somma di danaro, sembra accreditare in maniera determinante tutto il racconto di Helène: quell’oggetto è estremamente simile ad un disco in terracotta che possedeva Maleus, e che nella rievocazione del suo assassinio, era stato ritrovato accanto  al suo cadavere , rotto in mille pezzi.

Helène e Guy per di più sembrano vedere nella porzione di mare vicino a Thera, delle luci. In un primo tempo Patrick pensa che siano pazzi, ma poi anche lui assiste a questo fenomeno, che attribuisce sempre più a quello di una base marina atlantidea. Un bel giorno decidono di fare delle immersioni, e accade che Guy, senza che qualcuno possa essersi avvicinato, e tanto più potesse sapere che proprio lì si era immerso, venga trafitto da un tritone di bronzo al petto: è Hèlene che accorsa vicino all’amico, ne riscontra le condizioni disperate. Di lì a poco Guy muore, e per prendere tempo e poter continuare le ricerche senza le indagini della polizia, il cadavere viene deposto in una grotta, su un letto di alghe e pesci putrescenti.

Ma quando l’indomani lì si recano per zavorrarlo in mare, no lo trovano più. Successivamente Heléne scompare e ricompare due giorni dopo solo per dire di averlo trovato in un’altra grotta, vivo e vegeto anche se dolorante al collo: nella grotta vi è una misteriosa porta antica di bronzo. Patrick eccitato si avventura nel mare accanto alla sua donna, fino a esplorare una serie di cunicoli tra le rocce sottomarine, che portano ad una grotta dove trovano sì Guy, ma morto da tre giorni.

Nel buio della grotta Patrick sarà vittima di un assassino, che lo lascerà con una prospettiva di vita assai ridotta, in quella grotta ricavata nelle rocce della costa. Si salverà?

Atipico romanzo giallo, non c’è una vera e propria indagine della polizia, perchè detective è lo stesso Patrick Marais, archeologo rampante: indaga sia sull’assassinio impossibile di Guy, avvenuto a pochi metri da lui, sia su un delitto in una Camera Chiusa avvenuto in una dimensione temporale lontana.

Lui è in un certo senso un detective. Poi ce n’è un altro più nascosto: un prete.

Dei due delitti, il primo è di Christiana memoria: chi dovesse leggerlo, e avesse letto tutti i romanzi della Christie, non esiterà a capire da quale romanzo, da quale capolavoro di Agatha,  Halter abbia tratto le basi per l’assassinio di Guy. Tuttavia il secondo delitto, che poi in termini di tempo, è il primo, quello avvenuto in un lontano tempo nell’isola di Thera, viene spiegato con un ragionamento e con una soluzione assolutamente originali, che testimoniano l’inventiva di Halter nel suo campo narrativo,e  spiegano al contempo come la stanza fosse chiusa dall’interno per mezzo di un chiavistello posto all’interno della pesante porta di cipresso, come per terra vi fossero i pezzi di un disco di terracotta e come sempre per terra vi fosse anche un pugnale di bronzo senza elsa non usato però per uccidere, dalla lama assolutamente pulita.

Vi sono, è bene dirlo altre tre morti: una casuale, utilizzata per uno scambio di identità, un’altra voluta, ma il cui peso morale è stato  volutamente ignorato da due degli attori del dramma, anche se proprio questa morte, che è la prima in ordine di tempo, sarà la molla di tutto il dramma, un castello di bugie, dalla prima all’ultima; e infine un suicidio. La vittima? Patrick, certamente, che però è a sua volta il mandante di un’altra morte, così come chi lo condanna ad una quasi morte, e ne è quindi il carnefice, è stato a sua volta una sua vittima nel passato.

E la morte nel passato, si collega stranamente a quella di Scilla, nel racconto di Helène.

Se Patrick fosse stato più intuitivo, avrebbe potuto trarre dal racconto di Helène utili spunti per sondare un’altra vicenda, e poi collegarla ad un’altra affondata nel passato. Il bello è che capisce finalmente la macchinazione di cui è stato oggetto, solo quando è nella grotta, in compagnia dei cadaveri di Guy (vecchio di qualche giorno) e di Helène (vecchio di qualche minuto).

Nel romanzo, parecchi sono gli spunti che lo collegano ad altri della produzione di Paul:

innanzitutto il tema onnipresente della pazzia, della lucida follia, della vendetta che va oltre il normale;

poi, quello della vittima che è a sua volta responsabile di un’altra morte nel passato: come Patrick (ma la morte non è quella di sua moglie Nanno), anche altri personaggi di altri romanzi: il protagonista di La Lettre qui tue, per esempio. Il soggetto vittima del Fato: tanto a dire che chi ha ucciso, non potrà mai immolarsi sull’altare in quanto vittima innocente: chi di spada ferisce, di spada perisce, sembra riecheggiare in Halter.

Il romanzo è innanzitutto un romanzo di avventura, che mischia il romanzo storico con il thriller e con il mystery. Per l’ambientazione, per gli spunti e il soggetto storico – archeologico, il teatro delle vicende nelle isole greche, sicuramente questo romanzo se fosse stato pubblicato in estate sarebbe stato un successo.

E’ piacevole da leggere, e proprio per il tema, sembra svolgersi come una favola, raccontando una storia che non si capisce fino a che punto sia un romanzo poliziesco; poi ad un certo punto, gli eventi sembrano accavallarsi, le morti fioccano e finalmente si capisce che tante piccole cose, raccontate innocentemente precedentemente, che non si sarebbe mai pensato avessero un significato per altre vicende, in realtà lo hanno. Eccome!

Chi ha visto molti anni fa il film, The House of Games,  di David Mamet, idealmente lo collegherà alla trama di questo fantastico romanzo di Paul Halter: una fiaba cattiva, ma di una cattiveria senza confini, in cui tutti gli attori, sembrano dire nel momento in cui si esprimono, cose che hanno una doppia valenza. Quello che dice per es. il prete missionario Pierre Roussel ha una valenza straordinaria: “Uccidere qualcuno per interesse, per migliorare la propria vita”. E rivolgendosi a Helène aggiunge: “Sono delitti veramente ignobili, signorina Garnier. E a volte la legge non riesce a punirli…”.Queste due frasi sono l’essenza del romanzo, perché rivelano la chiave che apre la serratura della macchinazione. Se Patrick nel momento in cui Roussel la afferma, prendesse quella verità e la comparasse con quanto accadutogli nel passato, potrebbe anche prendere in esame che Roussel abbia sondato il suo animo e abbia visto in fondo al cuore suo, e a quello anche di altre persone, un male antico. Lo stesso Roussel, dopo la morte di Guy, riferendosi a due persone del dramma, dirà: “Mi stupisco sempre come alcuni di noi siano in grado di passare sul cadavere di parenti e amici. Conosco persone piacevoli come lei e la sua amica, che si sono rivelati degli spregevoli assassini”.

Roussel è quindi la voce del Fato, che inchioda chiunque abbia fatto un’azione indegna alle proprie responsabilità, magari ripagandolo della stessa moneta, sotto altra forma. Roussel è il vero detective, che sulla base della propria esperienza di vita vissuta, sa andare in fondo al cuore degli uomini e vedere il male nascosto: egli prima che l’ultimo rigo dell’ultima pagina del romanzo sia stato scritto e le ultime verità siano state rivelate, vede e riconosce chi è assassino. In certo Roussel qui è quello che è Dieudonne in La nuit du loup, il racconto capolavoro di Halter.

E rivela anche lo spirito cattolico tradizionalista di Halter, che non riesce a dimenticare come anche la morte di un innocente, un bambino appena concepito, sia pur sempre un  assassinio anche se mascherato.

Pietro De Palma

Clifford Orr : La casa sulla scogliera (The Wailing Rock Murders, 1932) – trad. Dario Pratesi – I Bassotti, Polillo, 2017

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ORR 001Ricordo di averne parlato con Mauro Boncompagni forse due tre anni fa. In precedenza ne avevo accennato sul Blog Mondadori, ai tempi di Altieri: sto parlando del romanzo di Clifford Orr, The Rock Wailing Murders. Il romanzo fa parte di una nutrita schiera che Roland Lacourbe stilò a margine del suo Meeting del 2007. L’elenco è in rete, per opera di uno dei partecipanti a quel meeting, il mio buon conoscente John Pugmire: ricordo che ancora quando non lo conoscevo, mi servivo di quell’elenco come promemoria di tutto quello che avrei voluto leggere. Ecco perché a ogni occasione li rammentavo, quando parlavo sul Blog.

Quando due tre anni fa ne parlai con Mauro privatamente chiedendogli  perché mai Polillo non lo pubblicasse, Mauro mi rispose che il romanzo di Orr era un gran bel romanzo. Questo finchè circa nove mesi fa non mi ha rivelato “in camera caritatis” che Polillo avrebbe pubblicato il romanzo di Orr, cosa confermatami più tardi dallo stesso editore, con la preghiera tuttavia di non divulgare la notizia finchè non fosse stata sicura.

Clifford Orr: chi mai fu costui? Attingo dalla succinta biografia pubblicata in calce al volume da Polillo: “Clifford Orr (1899-1951), nato a Portland, nel Maine, manifestò una precoce vocazione per la scrittura e, mentre frequentava la Dartmouth University, firmò come librettista diversi musical messi in scena dagli studenti del corso di teatro. Dopo aver lasciato l’università (senza una laurea benché avesse completato i previsti 4 anni), continuò saltuariamente a scrivere testi di canzoni, una delle quali venne portata al successo da Doris Day. Per alcuni anni lavorò come giornalista presso il Boston Evening Transcript e in seguito andò a dirigere la libreria di Wall Street della casa editrice Doubleday, Doran. Nel 1929 esordì con il giallo The Dartmouth Murders, che conquistò vasta popolarità grazie all’ambientazione inconsueta, il campus di un celebre college dove tre studenti vengono ammazzati. A questo mystery piuttosto convenzionale seguì The Wailing Rock Murders (La casa sulla scogliera – I bassotti n. 185), un romanzo ben più originale che per molti versi rimanda all’opera del contemporaneo John Dickson Carr. Nonostante avesse annunciato un terzo libro, Orr abbandonò la carriera letteraria e per i successivi vent’anni fece l’editorialista per la rivista The New Yorker. Omosessuale e alcolista, ebbe una vita privata infelice e morì a Hanover, New Hampshire, sede della sua università, poco prima di compiere 52 anni.”

Aggiungo che sia The Rock Wailing Murders, sia il precedente The Dartmouth Murders, sono disponibili in lingua madre, su Amazon, segno che è un romanziere che ancora si legge.

Comincio col dire che “La casa sulla scogliera” è sicuramente un eccellente romanzo, che deve parte della sua notorietà all’atmosfera che lo pervade, in sintonia coi coevi romanzi di John Dickson Carr: vi è una scogliera che a causa di uno scherzo di natura geo morfologica, emette in particolari momenti un rumore che sembra un grido. Quando in passato è stato emesso questo grido, una morte è avvenuta: la conseguenza diretta è che gli hanno attribuito un nefasto presagio. L’ultima volta che ciò pare che si sia verificato, è stato undici anni prima, quando è morto un marinaio. Il fatto è che la scogliera emette di nuovo il lacerante grido poco prima che sia scoperta una nuova morte. Di chi? Di Garda Lawrence, pupilla e protetta di Spaton Meech, detto Spider per una sua mostruosa deformità : una testa sproporzionata, che pende incurvando la schiena in una gobba, e delle braccia tanto lunghe da arrivare alle ginocchia. Garda Lawrence era stata invitata dai coniugi Farnol, Creamer e Vera e dalla loro figlia Patricia: era un’amica della figlia che le aveva consentito di portare due amici, Philip Masterson e Victor Millard. Nella casa poi c’erano degli altri ospiti, amici dei Farnol: Richard ed Helen St.John. Garda aveva invitato anche il suo patrigno Spaton Meech, che è un famoso detective, che ha aiutato la polizia in casi intricati.

Tutto sembrava andare bene, finchè si verifica l’evento tragico: Spaton va a fare un giro in spiaggia (la casa torreggia sulla scogliera) e vede che la luce nella stanza di Garda, nella cupola posta nella parte più alta della casa, è spenta, mentre nell’altra casa gemella (la casa dei Farnol è separata da circa un chilometro di scogliera, da un’altra casa gemella in tutto e per tutto, pure di proprietà dei Farnol, disabitata da molti anni) vi è una luce accesa. Poi si accende la luce nella stanza di Garda e allora lui comincia a correre volendo parlare con la ragazza prima che essa venga di nuovo spenta: sale le scale, arriva alla porta, bussa ripetutamente, vede dalla toppa della serratura il buio per cui pensa che sia infilata dall’altra parte una chiave: chiama senza risposta. Chiama altri ospiti e decidono di abbattere la porta: la finestra è aperta e il forte vento dell’oceano fa vorticare carte in mezzo a loro. Accesa la luce gli si presenta una scena raccapricciante: qualcuno ha sgozzato la ragazza. E’ avvenuto già parecchio tempo primo come dimostra il sangue già coagulato: eppure qualcuno è ritornato sul luogo del delitto. Dall’altra parte della porta non è infilata alcuna chiave né è per terra.

Spaton viene incaricato delle indagini, in quanto detective esterno che ha collaborato parecchie volte con la polizia: già questo è una stranezza, che avrà delle ripercussione sul corso delle indagini, perché quando l’investigatore è direttamente coinvolto in indagini su questioni personali o familiari, perchè l’indagine sia il più imparziale possibile, viene svolta da altro soggetto. Qui invece è lui che assume direttamente le indagini, coadiuvato dallo sceriffo. Innanzitutto per avere un quadro della situazione interroga i presenti, tra i quali deve esservi per forza l’assassino, che ha operato sicuramente o prima o dopo che Vera Farnol le ha portato il vassoio della cena, giacchè aveva rinunciato a cenare con gli altri: il vassoio viene trovato ancora fuori della porta.

Per evitare che qualcuno possa andarsene Spider rinchiude i presenti nelle loro camere da letto, e così si accorge su un’altra camera che a detta del padrone di casa dovrebbe contenere masserizie e ciarpame e che invece nasconde un’altra bella stanza ammobiliata. Tuttavia in quel frangente è ancora chiusa.

Siccome ci sono anche lo sceriffo ed il vice sceriffo che presidiano la casa, Spider da la sua stanza allo Sceriffo mentre lui ottiene dopo varie insistenze che il padrone di casa gli consegni la chiave del portone di casa, della casa gemella. Che dovrebbe essere disabitata e dove invece ha visto un chiarore. Vi si reca e..trova Philip Masterson, uno degli amici della sua protetta, che dopo un colloquio, inaspettatamente, gli confessa di aver ucciso Garda. E gli da pure l’arma del delitto, un coltello affilatissimo in un astuccio d’argento. Spider vince la sua rabbia e la sua voglia di ucciderlo, ma il suo bastone da passeggio infrange il vetro della finestra della cupola e cade dabbasso. Spider, chiude il giovane nella stanza e va ad avvisare lo sceriffo, e anche a recuperare il bastone. Quando invece…qualcuno con lo stesso legno lo tramortisce. Si sveglia, assistito dallo sceriffo e viene a sapere che qualcuno mentre lui era svenuto, sicuramente il suo assalitore, ha ucciso Masterson. Il fatto è tuttavia che tutti avevano un alibi al momento della morte, in quanto erano nelle loro stanze e Masterson è scappato da una di esse per via di un terrazzino, che non hanno le altre. Sicuramente pensa Spaton Meech che qualcuno è riuscito a uscire con un artifizio dalla sua camera. Viene a sapere anche che c’è stata una sparatoria a casa Farnol, tra il vice sceriffo e qualcuno che si aggirava nei pressi della casa: questa persona è rimasta ferita, come testimoniano delle macchie di sangue. Quindi, siccome l’unico che può essere rimasto ferito, è chi lo ha aggredito e quindi ha ucciso Masterson, gli si mette alla ricerca. Individua del sangue sulla spalla della signora St.John, e partendo dal presupposto che solo il marito l’avrebbe toccata lì, ipotizza che l’assassino sia Richard St.John.  In questo caso si prospetterebbe un tipico caso della Camera Chiusa, per come egli avrebbe fatto ad uscire dalla sua camera al primo piano dei Farnol e poi rientrarvi lasciando inserita dall’esterno finanche la chiave. Ma poi, scoprendo in Sutton l’uomo che l’ha lasciata, si convince della sua colpevolezza.

A questo punto, ecco che l’attenzione viene spostata altrove. E se Masterson avesse mentito per proteggere qualcuno? Chi potrebbe essere?

Tuttavia Spider non trova la sua torcia tascabile, e Sutton giura che non è stato lui. A questo punto il delitto di Masterson diverrebbe un delitto impossibile perché nessuno dei presenti in casa Farnol avrebbe potuto ucciderlo in quanto rinchiusi nelle rispettive camere, e avendo giurato a Sutton a Spider di non essere stato lui ad ucciderlo, né ad aver preso la sua torcia, né il suo bastone da passeggio.

Che vi sia altra carne sul fuco è testimoniato dall’affare del campanello. Un campanello suona in casa Farnol mentre è in casa Spider, e siccome nessuno può aver usato un apparecchio in casa in quanto sorvegliati, è evidente che qualcun altro lo debba aver fatto. Dopo una certa indagine si scopre che nell’altra casa gemella in una camera è tenuta segregata un’autentico orrore di donna, un essere talmente brutto e deforme che solo con Spider potrebbe fare coppia: è la madre di Vera Farnol, Vera Darlow. Che accusa il genero di un delitto perpetrato undici anni prima: il marinaio, era invece  figlio di Vera Darlow, erede della fortuna, di cui si era impossessato Creamer Farnol.

Successivamente si viene a scoprire invece che ad uccidere l’uomo, non era stato Creamer ma la moglie. Ma che al contempo essa era non responsabile dell’atto compiuto in quanto “incapace di intendere e volere” normalmente, in quanto vittima di uno sdoppiamento di personalità: due diverse Vere, una mite, l’altra feroce e assassina, interprete dell’odio che la sorella covava verso il fratello ma teneva a freno.

A questa seconda possibile pista (una persona con sdoppiamento della personalità avrebbe potuto uccidere Garda, se una sua parte del subconscio l’avesse odiata? Tanto più che ella era andata su da Garda lasciando il vassoio. E se questo fosse stato solo una scusa per andare da lei ed ucciderla?),  Spider viene anche portato dalla confessione di Patricia Farnol, coinvolta nell’omicidio di Garda dal ritrovamento si sue impronte insanguinate sulla maniglia interna della porta: sarebbe stata lei ad accendere la luce nella stanza. Assassina o visitatrice? La confessione indirizza le indagini verso la seconda ipotesi, ma nel contempo la ragazza avvalora l’ipotesi che la madre possa essersi macchiata dell’omicidio anche di Garda.

In un crescendo di tensione, avverrà un suicidio non previsto ed una verità sconvolgente si affaccerà nel finale spettacolare che conclude il romanzo, in cui l’indizio della torcia tascabile di Spider illuminerà un assassino insospettabile, mentre con una piroetta degna di un grande virtuosista, ritornerà ad affermare una verità detta all’inizio del romanzo, sulla base del raffronto tra due esempi di scrittura attribuiti alla stessa mano.

Questo è un vero capolavoro da pochi conosciuto, e grande merito va ascritto alla collana fondata da Marco Poilillo nell’averlo proposto.

E’ un romanzo spettacolare per varie cose.

Innanzitutto  la narrazione in prima persona di Spider in quello che può esser considerato una specie di diario, una rendicontazione di qualcosa che si sia vissuto e che abbia lasciato degli strascichi, in una sorta di “delirio onirico” come si è espresso l’altro giorno Mauro Boncompagni parlando col sottoscritto. In cui, l’elemento fantastico, seppure in secondo piano, diventa il responsabile di una mente malata. Elemento fantastico che accomuna ovviamente Or r a Carr

Non è il solo elemento di interesse però, e anzi ve ne sono molteplici, perché questo romanzo non solo ha utilizzato materiale preesistente ma ha anche influenzato , mi parrebbe di dire, alcuni romanzi successivi: rappresenta cioè una sorta di anello di congiunzione tra alcuni romanzieri famosi ed altri.

Vediamoli approfonditamente.

Innanzitutto vi sono due case gemelle, che erano state date a detta di Creamer Farnol da un padre a due figli. Quale opera vi fa venire in mente? A me una, ovviamente: The Lamp of God di Ellery Queen, 1935. Può aver influenzato Ellery Queen, il romanzo di Orr che è del 1932? Secondo me sì, visto che questo romanzo americano ebbe una vasta eco: anche lì due case gemelle, distanziate da circa un chilometro, e donate da un padre a due figli.

Poi vi è una casa in cui accadono una serie di delitti: a quel tempo, l’opera che sicuramente ha influenzato Orr è stata The Greene Murder Case di S.S.Van Dine del 1928, un’opera che è da sempre uno dei pilasti del romanzo mystery. Dell’opera di van Dine, vari sono gli elementi che vengono ripetuti: il detective che si avvale come spalla di un elemento della polizia (lo sceriffo qui, il Vice Procuratore Distrettuale lì); l’assassino instabile di mente; la presenza di un saggio tedesco di psicologia applicata alla criminologia: lì l’ Handbuch fur Untersuchungsrichter di Hans Gross, qui Das Verbrechen und Die Geistesunterstromung del Dottor Bernd; l’assassino che si suicida.

Uno degli assassini ha una doppia identità, e lo sdoppiamento in due personalità distinte è una delle caratteristiche per es. del romanzo di Helen McCloy,  Through a Glass Darkly (1950). E la stessa atmosfera allucinatoria, può aver influenzato The Red Right Hand, del 1945 di Joel Townsley Rogers o anche The Deadly Percheron del 1946 di  John Franklin Bardin.

La rivelazione finale ha l’origine indubbiamente in uno dei capolavori di Agatha Christie; e verrà ripresa anche dallo stesso Joel Townsley Rogers. Anche se qui, il colpevole non sa di esserlo, perché è vittima di uno sdoppiamentro della personalità.

Potrebbe addirittura aver influenzato L’Albergo delle tre rose di Augusto De Angelis, del 1935. E l’ipotesi non mi sembra neanche tanto strampalata: lì una pensione, qui una casa, ma su un piano della quale si affacciano tante camere. E tra le tante, anche una che dovrebbe contenere masserizie e ciarpame, una sorta di ripostiglio. Se De Angelis conosceva The Devil Drives di Virgil Markham e Obelists Fly High, di Charles Daly King, perché non ipotizzare la conoscenza di altri capolavori americani di quel periodo?

Vi sono qua e là delle note un po’ stonate, tuttavia, accanto ad una profusione di indizi e di false piste: c’è un plot principale (la morte di Garda e la confessione di Masterson seguita dalla sua morte), e poi ci sono due subplot distinti: il sonnambulismo di Vera Farnol, che è spiegabile come uno stato di incoscienza in cui il soggetto viva un’esperienza parallela rispetto a quella che vive in ogni altro momento della giornata; e la mostruosità fisica della madre, Vera Darlow, spiegabile come una somatizzazione della pazzia. E accanto ad una soluzione certa, un’altra ipotizzabile ma falsa ed una infine non presa in esame ma esatta. La nota stonata, che è stata rimarcata anche dal mio conoscente Noah Stewart, e che rivela una cerca immaturità di Orr nella realizzazione di piantine in calce a romanzi, è l’assenza di un qualsivoglia bagno anche comune, su un piano su cui si affacciano le camere degli ospiti. Se ci pensate, l’osservazione è quantomai stringente.

A Roland Lacourbe questo romanzo piace e lo testimonia l’averlo inserito nella sua appendice di  99 Camere Chiuse e Delitti Impossibili, risultato del Meeting del 2007, nonostante in se stesso il crimine impossibile e una pretesa Camera Chiusa che non lo è, non siano il massimo; nondimeno ai suoi amici, gli esperti “tecnici”, Soupart, Bourgeoise e Fooz, lo stesso romanzo non è altrimenti molto piaciuto giacchè gli hanno assegnato il minimo di valutazione in 1001 Chambres Ecloses. La doppia opinione rispecshia l’ambivalenza del romanzo: se lo si vede come un’opera delirante, allucinatoria, piena di vere e false piste, dal fascino unico, ha ragione il primo; se lo si vede invece come un’opera rappresentativa del sottogenere di Locked Room and Other Impossible Crimes, parafrasando Bob Adey, allora il romanzo esce notevolmente ridimensionato.

A me il romanzo è piaciuto moltissimo. E lo testimonia la velocità con cui l’ho letto, segno anche di un livello emotivo e di tensione altissimo.

L’ultima volta che ho letto un libro con una tale velocità, è stato trentaquattro anni fa, quando lessi Il nome della rosa di Umberto Eco.

Pietro De Palma

Paul Halter : Il grido della sirena (Le Cri de la sirène, 1998) – trad. Angelo Petrella – Il Giallo Mondadori N° 3161 del Novembre 2017

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Un romanzo di Halter mancava da parecchio tempo in Italia: l’ultimo suo romanzo pubblicato fu Il Demone di Dartmoor, tre anni fa. Un’assenza incredibilmente lunga a fronte dei tanti aficionados italiani e della periodicità di uscita invece di altri romanzieri con meno credenziali. A fronte anche del fatto che in altri tempi i romanzi di Paul uscivano con ben altra cadenza: anche tre all’anno, nei tempi di Dazieri. E a fronte anche del fatto che manchino ben 21 inediti alla pubblicazione in Italia, 21 inediti che comprendono romanzi con Twist, con Burns (nessuno pubblicato in Italia), e romanzi senza personaggio fisso.

Le Cri de la sirène che è stato pubblicato a novembre 2017, fa parte della serie che ha come  personaggio fisso il criminologo Alan Twist.  Ecco a seguire le due  serie intere di romanzi e tutti i romanzi senza personaggio fisso fino ad oggi (romanzi pubblicati e inediti) :

Serie Alan Twist

La maledizione di Barbarossa (La malédiction de Barberousse, 1986), Mondadori, 2010

La quarta porta (La quatrième porte, 1987), Mondadori, 1995

Le mani bruciate (La mort vous invite, 1988), Mondadori, 1998

La morte dietro la tenda rossa (La mort derrière les rideaux, 1989), Mondadori, 2001

La camera del pazzo (La chambre du Fou, 1990), Mondadori, 2004

Testa di tigre (La tête du tigre, 1991), Mondadori, 1995

La settima ipotesi (La septième hypothèse, 1991), Mondadori, 2013

Il demone del Dartmoor Le diable de Dartmoor, 1993), Mondadori, 2014

A 139 passi dalla morte (A 139 pas de la mort, 1994), Mondadori, 1998

Cento anni prima (L’image trouble, 1995), Mondadori, 1997

L’albero del delitto (L’arbre aux doigts tordus, 1996), Mondadori, 2004

Il grido della sirena (Le cri de la sirène, 1998), Mondadori, 2017

Meurtre dans un manoir anglais, 1998

L’homme qui aimait les nuages, 1999

Fiamme di sangue (L’allumette sanglante, 2000), Mondadori, 2007

La tela di Penelope (La toile de Penelope, 2001), Mondadori, 2002

Les larmes de Sibyl, 2005

Les Meurtres de la Salamandre, 2009

La corde d’argent, 2010

Le Voyageur du passé, 2012

La Tombe indienne, 2013

Série Owen Burns

Le Roi du Désordre, 1994

Les Sept Merveilles du crime, 1997

Les Douze Crimes d’Hercule, 2001

La Ruelle fantôme, 2005

La Chambre d’Horus, 2007

Altri  romanzi

Nebbia rossa (Le Brouillard rouge, 1988), Mondadori , 1999

La lettera che uccide (La Lettre qui tue, 19929, Mondadori, 2003

Il cerchio invisibile (Le Cercle invisible, 1996), Mondadori, 1997

Il segreto del Minotauro (Le Crime de Dédale, 1997), Mondadori, 1999

L’omicidio di Atlantide (Le Géant de pierre, 1998), Mondadori,2005

Le Mystère de l’allée des Anges, 1999

Le Chemin de lumière, 2000

I fiori di Satana (Les Fleurs de Satan, 2002), Mondadori, 2006

Le Tigre borgne, 2004

Lunes assassines, 2006

La Nuit du Minotaure, 2008

Le Testament de Silas Lydecker, 2009

Spiral, 2012

Le Masque du vampyre, 2014

A parte tutti gli altri, senza personaggio fisso e della serie Owen Burns, ci sarebbero quindi ancora da pubblicare  7 romanzi con Alan Twist in Italia. In base a quanto Paul mi disse due anni fa, di Meurtre dans un manoir anglais, 1998 e L’homme qui aimait les nuages, 1999 erano stati acquisiti da Mondadori i diritti, e quindi mi aspettavo che uscisse uno di questi. La sorpresa è stata invece che ne è uscito un altro: Paul qualche giorno fa mi ha scritto dicendo che quando mi scrisse due anni fa a riguardo delle uscite italiane, non si ricordava anche questo titolo acquistato da Mondadori. In sostanza i due romanzi citati. Dovrebbero essere i prossimi ad essere pubblicati, ma non sappiamo quando.

Le Cri de la sirène è un romanzo del 1998. Come menziona il titolo, parla di una sirena, non la sirena beninteso con la coda di pesce, ma un essere demoniaco che suole rapire i marinai e attrarli in fondo al mare.

L’Alan Twist che troviamo qui, è un Alan Twist delle origini, tanto che qualcuno dotato di minor fantasia di Paul, avrebbe potuto intitolare il romanzo: Il primo caso di Alan Twist.

Il romanzo comincia in modo straordinario: una notte di neve. Due medici condoti che assistono due partorienti in due luoghi distinti: tuttavia le due bambine che nascono, dello stesso padre ma di madre diversa, sembrano gemelle. Una di esse, viene portata dal medico condotto a casa del padre e a lui affidata, nella stessa notte in cui sua moglie Hela muore di parto. Tuttavia le due bimbe all’età di quattro anni vengono separate: una vivrà nell’abbienza e porterà il cognome dei Cranston, l’altra sarà la figlia del pastore e vivrà tra le pecore. Lei sarà identificata dalle malelingue del villaggio nella sirena che con il suo pianto turba le coscienze degli abitanti del luogo.

Alan Twist è uno studioso dell’occulto, che si occupa soprattutto di smascherare i ciarlatani. E’ stato chiamato al castello di Jason Malleson, per risolvere il suo problema: c’è un ectoplasma, uno spirito, un fantasma che dir si voglia che lo terrorizza: da quando è tornato alla fine della guerra, quattro anni prima, prima in maniera lieve, poi sempre più marcatamente, ha sentito passi nella soffitta. Ma nella soffitta ovviamente non c’è nessuno. Non solo. C’è anche una stanza cosiddetta interdetta, nel castello, da quando si manifestò molti anni prima un evento attribuito al diavolo: il vecchio padrone di casa aveva sfidato il diavolo, e come risposta, un armadio, uno dei piedi del quale era sì roso ma non aveva mai dato problemi, nel mezzo della notte si ribaltò e cadde con tutto quello che conteneva, tra cui dei libri, da uno dei quali uscì una lettera molto compromettente, da cui si evinceva in maniera chiarissima il tradimento del marito nei confronti di Lottie, la moglie. Da quel momento la stanza era rimasta chiusa, e l’unica chiave era conservata in un posto determinato. Negli ultimi tempi, Malleson aveva riscontrato del chiarore proveniente da sotto,  e quindi temeva che una presenza demoniaca vi albergasse.

Twist, accolto al castello, verifica lo stato dei luoghi, e soprattutto la stanza rosa, che, aperta, dimostra di non essere affatto impolverata e piena di ragnatele come ci si aspetterebbe, ma linda e pulita, e anzi fresca e profumata, in tutto e per tutto una camera che avrebbe potuto accogliere tra le coltri del letto a baldacchino un ospite. Twist riscontra soprattutto una cosa: il padrone di casa è veramente spaventato e prostrato da queste “presenze”. Del resto il castello è stato da altri tempi luogo maledetto: infatti sia colui che aveva sfidato il diavolo, sia il figlio, sono stati oggetto delle attenzioni della Banshee, un essere demoniaco, che più volte ha fatto sentire la sua presenza a Moretonbury: appare con un pettine rotto tra le mani, e lancia un urlo straziante. Dice la leggenda che chi non lo sente è destinato a morire. Sia il vecchio Cranston che il figlio  non avevano sentito il pianto della Banshee, ed erano puntualmente morti.

Non sono tuttavia tali presenze demoniache solo a catalizzare l’attenzione di Twist, ma anche altro. Il giovane ispettore di Scotland Yard Hurst, incontrato per caso, con cui fa amicizia, gli parla di un altro sconcertante fatto, di cui si occupa: voci varie levatesi anche in occasione della venuta di Malleson, tendono a ipotizzare che il marito di Lydie Cranston non sia il vero Malleson ma un impostore, un commilitone, tale Patrick Degan, che lo abbia ucciso al fronte rubandogli l’identità e i ricordi e si sia fatto passare per il marito. Lo testimoniano vari indizi: il fatto che sia diventato un grande giocatore di scacchi mentre prima era una scartina, il fatto che si vesta con cura e soprattutto indossi bellissime cravatte, che usi seduzione e fascino per sedurre la bella moglie, che legga libri osceni, che si arricci i baffi con le dita,ma anche a scapito, che il suo cane non l’abbia riconosciuto. Pertanto sottopongono Malleson, con l’aiuto di suo cugino William Lucas, un commesso viaggiatore che vende calze da donna, e del dottor Jeremie Bell, lessicografo, un tipo supersimpatico che ha conosciuto tutti i ragazzi del luogo molti anni prima, ad una serie di test, dopo i quali Malleson si manifesta essere proprio quello che diceva di essere: il Malleson che Jeremie ha conosciuto molti anni prima.

Al castello intanto continuano ad accadere o sembrano accadere, fatti inspiegabili: Malleson sente passi, ha incubi spaventosi, e vede soprattutto ogni volta un modellino di una barca a veliero avvicinarsi o distanziarsi da un lume, sul bordo del camino, nonostante egli, pignolo qual è, lo riposizioni ogni volta. Gli incubi che lo ossessionano sono quelli che lo fanno ripiombare ogni volta nella spaventosa vita in trincea ogni giorno, oppure durante il naufragio dell’Argo, in cui erano morte più di duecento persone.

A turbare l’atmosfera è anche il rapporto non proprio idilliaco che Jason ha con un cugino di sua moglie, Edgar Rice, vissuto con lei dalla più tenera età, da quando Lydie rimasta orfana era stata affidata a zia Rebecca, la madre di suo cugino . Ora, è lui, senza più famiglia a dimorare a casa dei Malleson, non facendo nulla se non comporre versi poetici.

Per di più c’è anche un altro rapporto molto strano: quello delle due “sorelle gemelle non gemelle” Lydie e Ingrid, figlie di Ian Neilsen e di sua moglie Hela. Gemelle non gemelle, perché pur essendo molto simili, sono sorellastre in realtà: sono figlie di due rapporti diversi, che Ian ha avuto con due diverse donne. Quello con Hela ha generato Ingrid, quello con la moglie di Julian Cranston, Mary, invece Lydie.  Tuttavia Lydie apparentemente è stata adottata dai due Cranston, e così quella che è la sua madre naturale diventa la sua matrigna. Ma solo perché all’atto dell’adozione , si era presa la bambina più mansueta mentre quella più irascibile, Ingrid , era rimasta al palo. Un bel giorno accade, dopo aver trovato la bella Lydie svenuta nella Stanza Rosa, che Edgar si barrichi sulla torre del castello e dopo un urlo forsennato della Banshee che gli apapre, egli cada dal parapetto della torre e muoia. Poco tempo dopo stessa sorte accadrà a Malleson. Twist dopo aver acquisito altri indizi, darà la propria versione dei fatti, accreditando la pista del suicidio dei due. Ma poi molto tempo dopo, quando Hurst è già diventato un volto famoso di Scotland Yard, andando a trovare Lydie, vedova non risposata, rivelerà la vera dinamica dei fatti, e come una certa persona, fosse stata causa della morte di Edgar e di quella di Jason,  e come lui l’avesse protetta. Per questo motivo non si sente di accettare le attenzioni della bella vedova e decide di dedicarsi d’ora alla criminologia e alla cattura di assassini efferati e misteriosi.

Diciamo subito che il romanzo è uno dei più affascinanti che io abbia mai letto, uscito dalla penna di Paul, non tanto per gli enigmi in sé per sé, quanto per come le vicende vengono descritte, e per come egli riesca a spiegare nei minimi dettagli tutte le vicende narrate, anche le meno comprensibili : per es. la Stanza Rosa da chi veniva utilizzata? E’ evidente che l’utilizzasse qualcuno del castello che non fosse Malleson, e cioè o Lydie o Edgar. Ma tutto acquista un sapore diverso quando si scopre che la stanza non era usata o dall’uno o dall’altra, ma da entrambi, per incontri extraconiugali. Cioè in parole semplici, la moglie tradiva il marito in casa concedendosi all’amante che viveva sotto lo stesso tetto.  O per quale motivo Jason Malleson (Giasone) fosse tanto ossessionato dal naufragio maledetto dell’Argo ? Da ricordare è il mito degli Argonauti, di Giasone e della nave Argo, e di come Giasone fosse stato causa della morte dei suoi compagni: anche nella realtà letteraria questo risulta vero.

Insomma il romanzo affascina per la sua capacità di affabulazione, per come la narrazione in se stessa affascini. Mi ha ricordato quello che pensavo, prima di leggere questo romanzo, essere il miglior romanzo per la struttura narrativa, cioè Le Brouillard rouge: entrambi i romanzi hanno un’intensissima capacità di narrare ed  entrambi hanno un esplosivo inizio. Le Brouillòard rouge ha in più anche un finale assolutamente straordinario, tanto quanto l’inizio mentre Le cri de la syrene, per giustificare l’abbandono di Twist dell’occultismo e la sua dedicarsi solo al risolvimento di misteri inestricabili dal punto di vista criminale, devo dire che propone un finale alternativo che non mi sembra dello stesso peso del primo: in altre parole, se le due morti potevano essere spiegate col suicidio, o meglio con la caduta accidentale, tenuto conto della natura altamente impressionabile delle due vittime e della pericolosità del tetto e dell’assenza di parapetto della vecchia torre medievale, e della scogliera,  non altrimenti si può pensare del finale alternativo, con invece l’attribuzione di una paternità omicida seppure difficilmente giudicabile, ad una persona che simulando un grido avrebbe spaventato a morte i due e li avrebbe fatti precipitare uno dalla torre, l’altro dalla scogliera. Ancor più nel dettaglio, ancora ancora la prima morte potrebbe essere spiegabile così, ma la seconda mi risulta difficile che possa essere spiegata con l’apparizione dell’omicida travestito da Banshee che spaventi la vittima tanto dal farla suicidare dalla falesia. Talora Paul per giustificare qualcosa di altamente difficile da spiegare si arrampica sugli specchi: era capitato già nella spiegazione del delitto de Il Demone di Dartmoor, con la macchina fotografica scassata. Al di là di questo dettaglio ( a me è sembrato ma posso sbagliarmi, che il secondo finale sia stato aggiunto in seguito), il romanzo è magnifico e anzi, in certo senso, il doppio finale risponde alla necessità che l’assassino sia di altro sesso rispetto a quello che si credeva essere il responsabile.  Cosa voglio dire? Che leggendo il romanzo mi era parso, indipendentemente dall’individuazione precisa del responsabile, che il sesso dovesse essere uno ben preciso, e anzi mi ero stupito che la storia andasse in altro senso: invece il finale che stravolge la verità rivelata, ha a sua volta sancito che non mi ero sbagliato.

E’ però nel contempo un romanzo assai cerebrale: l’insistere sulla genealogia, sugli incroci familiari, sul tema del doppio, sciorinato sia al maschile che al femminile, sia nell’accezione del sosia (Patrick Degan /Jason Mallesot) sia in quella della “gemella non gemella”, con tutti gli annessi e connessi: cioè capire chi sia dei due sosia il vero “fetentone”, e delle due gemelle chi sia la “zozzona”. In questo indubbiamente riscontro un sapore decisamente francese: se infatti il tema del delitto impossibile su una torre era stato sciorinato già da Carr in due suoi romanzi (He  Who Whispers, The Case of the Constant Suicides) e nonostante il romanzo abbia atmosfere decisamente carriane, e anzi uno dei personaggi, Jeremie Bell sia tratteggiato alla stessa maniera di come la tradizione letteraria ci ricorda il personaggio di Gideon Fell (ampio mantello nero, occhialetti con pince nez, baffoni, gigantesco, gran bevitore di birra, e pronunciatore di celebri invettive che hanno soggetto storico oi mitologico: “per i sandali di Mercurio” per esempio), il soggetto del doppio girato e rigirato ci porta a Boileau e al suo magnifico La Pierre qui tremble, mentre l’amore clandestino di Edgar per la cugina Lydie, più grande di lui, moglie di un soldato partito in guerra e poi ritornato a me fa venire in mente in maniera chiarissima, Le diable au corps di Raymond Radiguet, un romanzo straordinariamente appassionato, portato sullo schermo altrettanto suggestivamente da Gérard Philipe nel film omonimo di Claude Autant-Lara.

Un altro motivo che caratterizza questo romanzo rispetto agli altri della stessa mano, è il fatto che presenti un andamento simile a The Greek Coffin Mystery di Ellery Queen. Infatti chi abbia a mente i romanzi dei due cugini, ricorderà come i caratteri di Ellery cambino sempre più man mano che ci si allontana dai primissimi, ma che diversamente da altri romanzieri, la prima avventura di Ellery Queen che ci aspetteremmo che fosse la prima ad essere pubblicata, cioè The Roman Hat Mystery, non è quella bensì proprio The Greek Coffin Mystery, che fu la quarta ad essere pubblicata, e che veniva presentata come il primo straordinario caso di Ellery Queen. Qui abbiamo il medesimo andamento: dopo vari romanzi precedenti, in cui già avevamo incontrato Alan Twist criminologo, ed in uno addirittura ex poliziotto (La malédiction de Barberousse), qui assistiamo alla sua genesi come detective impegnato a risolvere delitti (quindi ancor prima di La malédiction de Barberousse), al suo primo incontro con Archibald Hurst, e addirittura alla sua prima ed ultima avventura amorosa. Sarà proprio questa delusione (e i conseguenti sviluppi) ad incanalare in una ben precisa direzione la sua volontà di dedicarsi al crimine invece che all’occultismo.

Il romanzo vede l’esordio come traduttore, con risultati molto rimarchevoli, di Angelo Petrella (anche è anche scrittore), al posto di Igor Longo: Igor prese il posto di Marianna Basile perchè impossibilitata da ragioni di salute a continuare a tradurre. Non sappiamo per quale motivo Petrella abbia preso il posto di Igor Longo (anche qui ragioni di salute?), ma i risultati conseguiti dal traduttore fanno ben sperare per il futuro.

Pietro De Palma

Anthony Berkeley : Delitto a porte chiuse (The Layton Court Mystery, 1925) – trad. Mauro Boncompagni – I Classici del G.M. N° 950 del 2003 (pubblicato con stesso traduttore da Polillo, ne I Bassotti, nel 2012, con il titolo “Uno sparo in biblioteca”)

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L’ingresso trionfale di Anthony Berkeley sulla scena internazionale: questo è The Layton Court Mystery, un romanzo del 1926, in cui fa la propria comparsa quello che sarà uno dei più famosi detective della carta di tutti i tempi: Roger Sheringham.

Quando Berkeley lo creò, sicuramente guardò a Conan Doyle, il prototipo base, l’archetipo vorrei dire: Sheringham ha il tipico abbigliamento britannico, e immancabile una pipa, molto simile a quella di S.H. Inoltre per la sua prima avventura, pone vicino al suo personaggio principale, che fa nella vita il romanziere di libri polizieschi, genere che lui disdegna personalmente ma che in definitiva gli da da vivere (è un tipo snob sicuramente), un altro personaggio Alec Grierson, che gli fa da “dottor Watson”. Come dice Mauro, “il clichè era quello”. Però lui (Berkeley) va oltre: Grierson è impacciato, è goffo, irrinunciabilmente cavaliere, per lui le donne soprattutto se di una certa classe sociale non possono essere assassine semmai vittime. Insomma è la fotocopia del Cap. Hastings di Agatha Christie. Il connubio Berkeley – Christie è uno da osservare ben bene, perchè entrambi si stimavano reciprocamente: lui deve aver guardato ad Hastings, lei ammirava Berkeley e il suo Sheringham.

Questo loro reciproco apprezzamento vedremo nel prosieguo che produrrà un altro sostanziale prodotto in questo primo romanzo di Berkeley.

Roger Sheringham, scrittore di romanzi, e il suo amico Alec Grierson, sono ospiti da alcuni giorni di Victor Stanhope, un ricco possidente, benvoluto da tutti, che offre sigari di marca e vini prelibati ad ogni piè e si fa notare per la sua simpatia. Nonostante questo, è trovato morto nella biblioteca di casa sua, con porta e finestre chiuse dall’interno. Il messaggio lasciato è inequivocabile. Tutto farebbe pensare in effetti ad un suicidio. E a tutti, compresa la polizia. L’unico a non esser convinto della dinamica dei fatti è proprio Roger, che comincia ad investigare, in coppia con l’amico Alec Grierson, riluttante eppure convinto a fargli da spalla, come un Watson di un redivivo S.H.

Quello che non comprende è innanzitutto la modalità di suicidio: perchè spararsi in fronte quando è più semplice spararsi alla tempia? Inoltre nota sulla mensola del camino tutta una serie di impronte che fanno pensare che lì ci fosse dell’altro oltre un vaso, e dei frammenti lo fanno convincere saull’esistenza di un secondo vaso, i cui frammenti però (tranne uno) sono scomparsi. Inoltre molto sospetti sono sia le reazioni della Signora Plant, altra ospite e amica di lady Stanhope, aristocratica, cognata del possidente, della stessa Lady Stanhope e del Maggiore Jefferson, il segretario della vittima: se la cognata non sembra per nulla addolorata, gli altri due sono stati sorpresi da Roger a trafficare intorno ad una cassaforte nella biblioteca: la donna ha convinto temporaneamente gli astanti, che la ragione per cui era impaziente di aprire la cassaforte è che ci fossero là dentro i suoi gioielli. Le reazioni successive più distese, lo convincono che qualcuno – probabilmente l’assassino – dopo aver ucciso la vittima deve aver avvisato i due di quello che aveva trovato e fatto sparire. Sono pur sempre congetture, ma intanto Roger ha risolto come l’assassino è potuto uscire dalla sala: dopo aver verificato l’inesistenza di porte ed uscite segrete, capisce che si è servito di un trucchetto legato all’apertura della finestra che da sul giardino. Nell’aiuola sottostante nota delle impronte che sembrano dirigersi verso la stanza e non fuori. Anche questo viene risolto: con un’abile ragionamento sulla profondità delle orme dei tacchi e della suola, Roger inquadra la situazione com’è stata realizzata: l’assassino è saltato dal davanzale all’indietro, simulando un’andatura verso la finestra anzichè una fuga. Quando però in seguito tornano indietro, trovano le impronte cancellate.

Roger si convince della colpevolezza del magg. Jefferson e che la signora Plant gli ha nascosto parecchio, quando trova sul divano della biblioteca, tra i cuscini, un fazzoletto appallottolato umido, ma profumato di gelsomino – il profumo della signora Plant – e delle tracce di cipria sul bracciolo.

Dopo un interludio nel quale Roger è convinto a sospettare di un certo Prince, che Stanhope temeva e di cui era invero terrorizzato, ghiacchè ha trovato nella discarica dell’immondizia della villa un foglietto bagnato e puzzolente in cui legge di questo Prince. Le successive indagini loi porteranno ad un campo, dove pascola un bizzoso toro: è lui Prince. Dopo una tragicomica fuga, ecco ricominciare le indagini questa volta intorno alla figura della vittima, che riveleranno essere nient’affatto una brava persona come si pensava ma un losco ricattatore, che ricattava sia la signora Plant, sia il maggiore Jefferson suo segretario, persino il suo chaffeur, ex pugile, lady Stanhope e la signora Shannon, madre di un’altra ospite della villa andata via la mattina della tragedia. Tuti sono sospettabili a questo punto. e non solo il magg. Jefferson. Dopo tanti tentativi e infruttuose ricostruzioni, Sheringham rivelerà al suo poco convinto Watson, il nome dell’assassino, riservandosi purtuttavia di non denunciarne la colpevolezza alla polizia, dato che la morte del ricattatore si sarebbe rivelata come la liberazione per tutti gli altri coinvolti nella vicenda.

L’assassino non è estemporaneo, ma è sempre presente nella storia, dall’inizio alla fine: partecipa all’azione, cercando in tutti i modi non di depistare, ma di mettere in confusione le asserzioni di Sheringham. Il suo scopo non è quello tanto di stornare i sospetti da sé, quando di impedire a Sheringham di accusare altri, di accusare un innocente. Perché lui è quello: un innocente che è intervenuto per difendere una donna, per evitare che un ricatto si trasformasse in un dramma, e aggredendo Stanhope per sottrargli le prove, è stato sparato e per legittima difesa ha ucciso. E poi ha inscenato tutto, rientrando da una finestra. E’ solo per questo che Sheringham non lo denuncia. Anzi, quando quello tradendo la sua vera natura, vorrebbe consegnarsi alla polizia, è lui, Sheringham a rimproverargli  il fatto di essere troppo convenzionale.

Inizio col dire che questa è una pietra miliare della letteratura poliziesca: anche Berkeley si presenta quale sperimentatore, in un periodo, gli anni venti, in cui c’erano le premesse perchè il genere giallo che allora era in gran voga, fosse girato e rigirato e producesse i suoi migliori frutti, e in cui gli sperimentatori (Agatha Christie, Philip MacDonald) sperimentassero una serie di contorsioni del genere poliziesco, sfatando dei miti. Berkeley invero, si presenterà proprio come sperimentatore nella sua prefazione a The Second Shot, del 1930, quando inquadrerà il futuro del genere giallo in una evoluzione da whodunnit puro a howdunnit in sostanza, puntando l’attenzione sul genere sofisticato: spostando cioè l’attenzione dalla trama ai singoli personaggi, abbandonando il puzzle di tipo matematico e lavorando ad un tipo di romanzo più di tipo psicologico. Non chi ha ucciso X nel bagno ma come è accaduto che X fosse ucciso  nel bagno.

Ma se Berkeley si presenta quale sperimentatore, facendo riferimento al romanzo che gli aveva dato il successo, cioè The Poisoned Chocolates Case,  in realtà, la sperimentazione è già attuata ed è al massimo grado, in questo suo primo esordio: per certi versi, l’idea base della soluzione, che è inaspettata e lascia di stucco – semmai qualche idea peregrina era pure venuta, ma no, non poteva essere! E invece sìstravolse uno degli ultimi capisaldi del romanzo poliziesco: Zangwill nel 1896 aveva distrutto la fiducia del lettore nell’imparzialità della polizia, Agatha Christie e Berkeley nel 1926 distrussero gli altri due possibili capisaldi: il narratore, che dovrebbe essere anche lui imparziale; e un altro soggetto inquirente, quando presente. Invero già qualche avvisaglia si potrebbe averla leggendo le prime pagine, quando Sheringham si dilunga nel rapporto delle figure che intervengono in un romanzo poliziesco. Però, devo dire che mai prima d’ora, avrei pensato di imbattermi in una situazione del genere, tanto più che l’assassino è un soggetto che normalmente, nei romanzi del periodo, e talora anche dopo, mai sarebbe dovuto esserlo.

Ecco il motivo per cui questo romanzo è un gioiello, e bene ha fatto Polillo, qualche anno fa, a riproporre la traduzione di Mauro in un volume della sua beneamata collana de I Bassotti.

E’ tanto interessante anche perchè il personaggio è scanzonato. Talora i ragionamenti possono essere anche ingenui o comunque sorpassati dai romanzi posteriori: dibattere sul perchè la vittima presenti un foro sulla fronte e non sulla tempia è paradossale in un contesto in cui l’ispettore di polizia l’accetti placidamente e non si ponga il quesito che ognuno di noi si porrebbe. Oppure rammento dei particolari troppo evidenti per non esser stati esaminato da Berkeley: come fa nessuno ad aver sentito, non uno ma due spari di un revolver (una pistola a tamburo) nel bel mezzo di una notte? Il bello è che questo bug non viene neanche accennato nel corso del romanzo. Nessuno ci pensa. Nemmeno Berkeley stesso. Io sì però (Berkeley non me ne voglia!)

C’è un’atmosfera spiritosa e mai pesante. C’è ironia, sarcasmo, talora anche un accenno patetico, quando Sheringham viene a sapere di come la signora Plant per ricavare i soldi per il ricatto non avendoli, sia stata consigliata in sostanza dal ricattatore, di prostituirsi: lui le avrebbe presentato chi avrebbe ricompensato i suoi favori. In un periodo in cui la donna è ancora una vittima, e non un assassino.  Del resto questo è il convincimento di Alec Grierson, il Watson di Sheringham, che laddove lui additi come possibile complice una donna, Grierson immediatamente la salva, non ammettendo che una povera innocente esponente del gentil sesso possa essere un’assassina.

Il tono diventa anche farsesco, e ricorda molto ( a me ha ricordato almeno) il Fra Diavolo con Oliver Hardy e Stan Laurel, quando i due malcapitati vengono rincorsi da un toro: così Alec e Sheringham rincorsi, anzi caricati da Prince (e Berkeley calcola anche l’arrivo alla staccionata e l’ordine di arrivo: primo Alec, secondo Roger, terzo il toro, cioè dicendo che il sedere di Roger Sheringham aveva corso il pericolo di essere incornato). Però tutto questo insieme di atmosfere, di indizi, di situazioni paradossali (i due immersi in un immondezzaio a cercare le carte dei cestini della casa), non inficia la bontà delle idee, delle soluzioni: a parte quella finale che sconvolge il lettore, che mai si sarebbe aspettato (o quasi) quella fine (e Sheringham dimostra come sia un investigatore dilettante, innamorato nello scoprire l’assassino, e non invece nel consegnarlo alla polizia: il divertimento della logica opposto al rigore etico del male che pur sempre debba essere perseguito, anche quando sia stato rivolto a sopprimere un delinquente).

Anche la soluzione della Camera Chiusa è altamente originale. Tanto originale da aver a parere mio influenzato pesantemente l’escamotage inserito da Agatha Christie in Dead Man’s Mirror, racconto che è del 1936: quando metti in tensione il sistema di bloccaggio di una finestra,  quando il fermo trova il suo alloggio, la finestra si blocca e la maniglia ruota. Più o meno questo. Ma strano è che la stessa idea si trovi prima in Berkeley, poi in Christie.

Martin Edwards ha commentato quando gliel’ho accennato: Very interesting as always.

Ancora, c’è anche qui, ed è la prima volta, prima che de “Il caso dei cioccolatini avvelenati”, anche una specie di soluzione multipla: Berkeley sperimenta la possibilità, cioè, di partire dalla medesima base indiziaria, ed arrivare a persone completamente differenti: prima prende a colpevole il maggiore Jefferson, poi, applicando la stessa metodologia, individua il vero assassino.

E individuandolo, distrugge il mito dell’investigatore di Conan Doyle, utilizzando un suo celebre aforisma, in sostanza: “Una volta eliminato l’impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità”. Perchè in questo caso l’improbabile concorda con l’individuazione dell’assassino. Solo che così facendo Barkeley, distrugge una delle facce leggendarie del mito di S.H. E così facendo, non potendo distruggere il detective, ne distrugge l’umanizzazione, creando il superdetective, che sarà il protagonista dei successivi anni.

Se non avete capito chi possa essere l’assassino, non dovete fare altro che leggere il romanzo ed inchinarvi al cospetto di uno dei più grandi: Anthony Berkeley Cox.

Pietro De Palma

Ngaio Marsh : Scaglie di giustizia (Scales of Justice, 1955) – trad. Pietro Ferrari – I Classici del G.M. N°735 del 1995

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Nella mia attività di critico a tempo perso e di blogger ho conosciuto parecchia gente: alcuni sono diventati amici, altri li ho persi strada facendo. Di questi, qualcuno l‘ho ritrovato ogni tanto, per es. Bernardo Cicchetti, Luca Conti, Giuseppina La Ciura; altri li ho irrimediabilmente persi. Però siccome il mondo è fatto a scale, se ne ho persi taluni, talaltri li ho acquistati. Mi è capitato, per es. di conoscere tempo fa, un ragazzo diciottenne che ha cominciato a seguirmi, soprattutto su Anobii, e poi anche sui miei blog, appassionato del mio stesso “pallino”, le Camere Chiuse, ma  anche di tutto il genere poliziesco. Un  ragazzo che sta aprendosi e quindi ha bisogno di una guida. Un bel giorno, parlando del più e del meno, gli ho rivelato una mia insoddisfazione: non aver potuto mai leggere un certo romanzo di Ngaio Marsh, il mio autore preferito, assieme a Carr ed Ellery Queen. Lui, in men che non si dica, più esperto del sottoscritto nel cercare articoli da comprare su internet, l’ha acquistato e poi me l’ha regalato. Io non ho potuto che ricambiare questo suo atto, regalandogli a mia volta sei romanzi che non possedeva.

Il romanzo in questione è Scales of Justice di Ngaio Marsh. Romanzo del 1955, è il diciottetimo con Roderick  Alleyn, figlio di una lady, fratello di un baronetto, un nobile che alla carriera diplomatica ha preferito  la scalata lenta di una professione maltrattata ma di grande presa: quella del poliziotto. Un poliziotto nobile. Ce n’è stato un altro, “figlio” di un’altra delle 4 Crime Queen, Dorothy Sayers: Lord Peter Whimsey. Ma quello è un nobile che si improvvisa detective, un po’ per snobismo un po’ per passione; qui invece abbiamo un nobile che ha scelto, come lavoro, fare il poliziotto: partendo dalla gavetta, da semplice Ispettore. In questo romanzo lo troviamo Ispettore Capo, seguito come un’ombra dal suo “aiuto” l’Ispettore Brer Fox.

La nota interessante è che lo troviamo ad operare in un panorama fiabesco, in una angolo del vecchio mondo feudale britannico, in cui quattro famiglie, i Cartarette, i Syce, i Lacklander e in Danberry-Phinn, da secoli eredi dei propri tradizionali blasoni, sono unite, più o meno saldamente. L’evento che le fa irrimediabilmente venire a contatto, è la morte del vecchio Sir Harold Lacklander, ambasciatore molto attivo e di grande prestigio durante la seconda guerra mondiale. Prima di morire ha lasciato l’incombenza gravosa di pubblicare le sue memorie, al suo amico, il Colonnello Cartarette: gravosa soprattutto perché sicuramente verrà affrontato il tema della morte del rampollo  di una delle quattro famiglie nobili, il giovane Ludovic Danberry-Phinn, che aveva lavorato con Sir Harold durante la guerra, venendo coinvolto in una fuga di notizie che aveva portato i nazisti a vincere la concorrenza inglese, cioè di una potenza ostile, nella gestione  di un certo affare di un paese neutrale: ne era seguito il suo suicidio. Ora Sir Harold probabilmente voleva in maniera postuma riabilitarne la memoria. Ma come?

Tutti temono questa estrema volontà del vecchio. Principalmente i familiari stretti di Sir Harold che temono il peggio, cioè di essere coinvolti direttamente e di pagare il disonore della morte del giovane Ludovic con il disonore di qualcun altro.

E’ evidente che cerchino di convincere il vecchio Cartarette a non pronunciarsi e a non pubblicare il controverso settimo capitolo; ma il colonnello è tutto d’un pezzo, e anche se gli viene minacciata la rottura del fidanzamento tra sua figlia Rose e Mark Lacklander, il figlio di George Lacklander, figlio primogenito di Harold e ora divenuto baronetto, non si scompone e tiene duro.

Tuttavia vuole prima parlarne a Octavius Danberry-Phinn, il padre di Ludovic, che dopo la tragedia del figlio ha smarrito se stesso, perdendo anche la moglie e vivendo con una miriade di gatti: ha la passione della pesca delle trote come pure Cartarette, e spesso litigano perché i Lacklander, padroni in sostanza di Swevenings, un piccolo paese, hanno affittato ai loro due amici i tratti del Chyne, il fiume che scorre attraverso i suoi prati, le cui acque sono piene di trote. I due sono soprattutto avversari volendo entrambi catturare “Il vecchio amico”, una trota di eccezionale peso, oltre due chili, che è la dannazione dei pescatori.

Nel pomeriggio avanzato che il colonnello deve parlare del manoscritto a Octavius, e poi alla vedova di Sir Harold, e poi andare a pescare, accade l’imprevisto: l’infermiera Kettle, che abita nella stessa proprietà abitata da Danberry-Phin , costeggiando il Chyne vicino al punto dove vanno a pescare le trote, vicino a dei salici piangenti, trova il cadavere del colonnello, assassinato.

Sente come se sia spiata, e non vorrebbe lasciare lì il cadavere, ma deve pur avvisare qualcuno e così va a cercare aiuto dai Lacklander, che chiedono che se ne occupi un loro pari grado, cioè Roderick Alleyn, Ispettore Capo di Scotland Yard e figlio di baronetti. Intanto è venuto a piovere a dirotto e si evita che le poche tracce vadano via.

Le indagini partono subito e l’analisi dei reperti, mette in luce delle stranezze: viene trovata la grossa trota all’origine delle liti tra Cartarette e Danberry-Phin, accanto al cadavere, con dell’erba tagliata ed un coltello, come se il colonnello stesse per fare con l’erba una specie di canestro per il pesce; la cosa strana è che la trota era stata precedentemente pescata da Octavius che aveva sconfinato e da lì era nata l’ennesima lite: il colonnello con la sua integerrima onestà non si sarebbe mai appropriato del pesce. E allora? Alleyn è convinto che ce ne fosse un altro di pesce che è stato sostituito, pesce che verrà trovato da Kitty Cartarette, la vedova del colonnello, mezzo spolpato da una grossa gatta di Octavius. La prova di questo è data dall’esame minuzioso della trota, che permette di trovare altre scaglie, le cosiddette “scaglie di giustizia”, che permettono di stabilire come esse fossero di altra trota. Le scaglie sono come delle impronte digitali: ce ne saranno di uguali solo se il pesce abbia avuto stessa storia, habitat di caccia, età di un altro. E queste non lo sono. Inoltre viene trovato un lurido straccio usato dalla vedova di Sir Harold quando va a dipingere, con macchie di colori ma anche puzzolente di pesce, in cui vengono trovate l e scaglie di entrambe le trote.

Il colonnello è morto a causa di una profonda ferita alla testa, inferta a brevissima distanza: si ipotizza che l’omicida abbia fatto uso di un barchino per andare sul fiume, trasportato dalla corrente, che segue sempre lo stesso iter andandosi ad incagliare proprio davanti al luogo dove è stato trovato il cadavere. Questo perché non sono state trovate impronte dal sentiero sino alla macchia dei salici, oltre quelle dell’infermiera. Il colonnello prima è stato tramortito, per mezzo un grosso bastone o un ombrello o una racchetta da tennis o una mazza da golf, e poi qualcuno, con disumana ferocia, appoggiando alla tempia sinistra il bastone estensibile dello sgabello usato dalla vecchia Lacklander quando va a dipingere, si è seduto sopra, fino a trafiggere in profondità il cranio e il cervello.

Le indagini seguono due filoni: quello della pesca di frodo ( e il colpevole sarebbe Octavius allora), e quello della pubblicazione del manoscritto di Sir Harold (nel qual caso i colpevoli sono George Lacklander e la madre, il figlio Mark). Il parco sospettabili potrebbe aprirsi anche a Kitty, perché amoreggia con George, e a Rose Cartarette, innamorata del padre, ma anche di Mark. E finanche del capitano Syce, vecchio amico di Cartarette, che era l’amante di Kitty a Singapore, e dopo averla persa lì, l’ha ritrovata come vicina, essendosi ella sposata a Cartarette, dopo esser stata a Singapore presentata al colonnello. Anche Kitty è di estrazione nobiliare, forse di lignaggio maggiore ai Lacklander.  Syce, sarebbe escluso dai sospetti solo per effetto di una lombaggine, per cui è stato curato da Kettle che se ne è innamorata. Tuttavia qualcuno afferisce di aver visto, in un’ora in cui sarebbe dovuto essere a riposo, il capitano Syce in piedi, a lanciare frecce con un arco da sessanta libre. Una delle frecce viene trovata insanguinata. E del resto la stessa ferita da freccia è compatibile con quella trovata sulla tempia del colonnello.

Alleyn sequestra tutti i vestiti e calzature e calze dei sospettabili, per farli analizzare, allo scopo di trovare le scaglie di entrambe le trote: sarebbe una prova schiacciante. Del resto ha trovato, sulla carcassa della trota spolpata dal gatto, le tracce di qualcosa di acuminato, come dei piccoli chiodi e la traccia di una ferita triangolare, e ricostruisce la scena: l’assassino dopo aver ucciso il colonnello presumibilmente sedendosi sopra oppure infilzandolo con la punta di una freccia, deve esser scivolato pestando l’altra trota, che è rimasta al suo posto perché appoggiata ad una pietra triangolare. E poi deve aver sostituito la trota con l’altra molto più grossa.

Trovando il capitolo scomparso del manoscritto, ricostruirà la storia, e anche l’identità dell’assassino, feroce e abominevole che ha ucciso per motivi abietti e poi ha modificato la scena del delitto indossando dei vestiti e delle calzature non proprie, per addossare la colpa ad altri.

Prima dell’indicazione dell’omicida da parte di Alleyn, proprio l’omicida sarà contrapposto all’infermiera Kettle, innamorata del capitano Syce, che difenderà a spada tratta, così come difenderà tutti i Lacklander, in quanto famiglia e in quanto nobili terrieri, un po’ la stessa difesa dei Danberry-Phin nei confronti dei Lacklander.

L’ultima scena è una di amore tra l’infermiera Kettle e il Capitano Syce: il capitano per lei promette di non bere più whisky e di essere degno del suo amore.

Intanto diciamo che questo è tra tutti i romanzi sinora letti di Marsh, un grande capolavoro: non so se Il capolavoro assoluto, ma sicuramente una delle sue migliori opere. Ngaio, confeziona un grande affresco della provincia terriera inglese, parlando di quattro famiglie aristocratiche, con una scrittura estremamente sofisticata, ma che si legge assai facilmente.  E’ un whodunnit estremamente classico,  una storia  formale molto ben definita, che ricorda molto, ma veramente tanto, i romanzi della tipica crime fiction britannica degli anni ’30 e ’40 (in un certo senso è un romanzo “fuori tempo”, come se per la Marsh non vi fosse stata la Guerra, e l’abbandono del whodunnit classico, anche se il secondo conflitto mondiale entra nella storia di striscio),ambientati nei villaggi rurali, dove il militare, il reverendo, le signore della buona società che partecipano ad eventi mondani per beneficenza, il baronetto sono sempre soggetti che la fanno da padrone: per certi versi questo è il romanzo della Marsh che più è vicino a quelli di Agatha Christie.

Il romanzo è pieno zeppo di descrizioni, e si sa che le descrizioni sono l’asso nella manica di Nagio Marsh: quando descrive un angolo di paradiso potete stare sicuri che prima o poi  qualcosa di drammatico accadrà. Qui addirittura, si direbbe che il cattivo presagio sia contenuto in una canzone, un motivo molto melanconico associato ad una visione romantica: due giovani uniti in uno sguardo inequivocabile. Il motivetto, è quello di : Vieni, vieni Morte, ch’io sia nel triste cipresso adagiato. Del resto il connubio, amore-morte è sempre presente: in questo romanzo lo è particolarmente. Laddove vi è amore o sembrerebbe esserci, c’è sempre una nota sbagliata: c’è nella unione tra Kitty e il capitano Syce nel passato dei due, c’è nell’unione di Kitty con George, di Syce con Kettle, di Kitty con Cartarette, di Mark e Rose.

Farei anche una distinzione in merito all’identità sessuale dei caratteri: i personaggi maschili, austeri, sono sempre sfortunati o maledetti: Cartarette, simbolo di un mondo passato è assassinato; Octavius è disastrato emotivamente avendo perso figlio e moglie; Syce è disastrato anch’egli emotivamente, avendo perso l’amata andata sposa ad un suo compagno d’armi, e per di più è semi alcoolizzato; Harold, ha il rimorso di qualcosa appartenente al passato; George, perso nella sua estrema vanità, e nella vuota difesa di un prestigio nobiliare, è sottostimato da tutti, persino dalla madre. I personaggi femminili sono invece vincenti: Kettle è l’infermiera che scommette sempre in qualcosa di positivo; Rose è una donna che sembrerebbe indifesa perchè romantica ma è invece forte nella difesa del suo amore; Kitty è una femme fatale, forte; e anche fortissima è Lady Lacklander, decisa a difendere ad oltranza il suo regno e la memoria dei suo marito e della sua famiglia, con ogni mezzo. Se volgiamo anche Brer Fox, l’ombra di Alleyn è sfortunato, perché una mezza idea sull’infermiera, nel corso del romanzo la fa, ma poi capisce chye è una speranza vana. L’unico personaggio maschile forte e vincente è Alleryn. E qualcuno dei suoi sottoposti, per es. il sergente Oliphant della Polizia della Contea.

Ngaio riesce come sempre a dirigere un’orchestra composita di personaggi, ognuna con la propria personalità, riuscendo a far balenare per ciascuno il sospetto di qualcosa di recondito, oltre che quello che viene affermato.  E questo è un suo estremo virtuosismo: ha il controllo della macroforma, che manca per esempio in molti suoi altri colleghi britannici e soprattutto nei romanzi francesi. E così inventa un plot estremamente complesso, perché è il risultato di tre subplot, che come tre onde parallele con effetto sinusoide, continuamente si intrecciano e si interfacciano, gettando il lettore nel più completo sbigottimento. Francamente, la trota, lì gettata, fa sorgere il sospetto che la pesca c’entri poco con la morte del colonnello; e anche la rivelazione delle memorie del vecchio sir Harold c’entra poi nella realtà con il delitto? Ma se togliamo di mezzo questi due subplot, cosa ci resta? Un’indagine come tante altre, ma in cui i moventi sembrerebbero essere estremamente ridotti se non assenti. E allora, ecco che i due subplots ritornano, e sono proprio alcune loro conseguenze a gettare luce su un movente solare ma nascosto, e a inquadrare un omicida veramente spregevole: malvagio, invidioso, lussurioso, accidioso, iracondo. Si può dire che almeno 5 dei 7 peccati capitali siano nelle sue corde. Che uccide, si traveste per incriminare altri, e ottenere un diverso vantaggio. Che disprezza l’altrui comportamento, celando una miseria emotiva e spirituale veramente disarmante.

Quello che rimane, fino alla fine, è il sospetto che la stessa infermiera Kettle e lo stesso capitano Syce, che si capisce coltivino una tresca, siano innocenti davvero ed estranei al turbillon degli eventi, oppure in qualche modo anche loro vi entrino a far parte. Il capitano in realtà vi entra, ma di sfuggita, solo perché un suo comportamento ha una decisiva importanza poi negli eventi che accadono.

La struttura del romanzo è circolare: infatti comincia laddove finisce. Comincia con l’infermiera che osserva le curve delle colline, e del Chyne che vi scorre in mezzo, e le dimore delle quattro famiglie antiche del posto, e nel contempo osserva la cartina che lei vorrebbe completare, che diventasse come quella per visitare una certa attrazione turistica; e finisce, col capitano Syce che realizza quello che la sua infermiera agognava: una mappa figurata. E’ il regalo di un fidanzamento annunciato, tra due persone ognuna con la sua età e la sua storia, ognuna delle quali concede all’altra un po’ della sua attenzione e della sua stima: il capitano non tiene conto della condizione sociale dell’infermiera, ma guarda più avanti; l’infermiera non guarda alla condizione di alcoolismo come forma di depressione, del capitano ma vuole vedere in lui la capacità di volersi fermare sul declivio della fine, e invece di riprendere la salita. Questa volta con lei al fianco.

C’è anche nel romanzo di Marsh, ed è molto palese, una sorta di rivalutazione della piccola nobiltà terriera, quella parte sociale che ha tenuto per secoli nelle sue mani l’intreccio dei valori base della società: li mette alla berlina, ma solo per definirne meglio le forze di reazione, per far scaturire dai migliori soggetti, la volontà di ricominciare e di dare comunque l’esempio a chi non è di nobili natali come loro. Uno dei soggetti che esce meglio dalla tessitura del romanzo, è il vecchio Octavius: ritenuto un mezzo pazzo, sconvolto dalla morte del figlio prima e della moglie poi, ha sfogato il suo dolore nell’amore per i gatti e per pesca. Ma anche se avesse dovuto, umanamente parlando, avere un umano risentimento nei confronti dei vicini Lacklander, egli invece perdona, perché lo voleva il figlio, un’anima candida, che non ha tradito, ma è stato solo negligente, e anche quando tutti dovrebbero essere contro i Lacklander, lui tende la mano. E’ la vecchia Lady, alla fine del romanzo, che memore di qualcosa che un giorno si era spezzato, stringe la sua a quella di Octavius, rinsaldando un vincolo, defraudato dal tradimento e rinsaldato successivamente dalla stima e dall’aiuto del vassallo al suo signore. E’ un po’ come se il signore, riconoscesse un merito del vassallo e lo promuovesse nella condizione sociale.

Ed è anche come Ngaio Marsh, neozelandese per sempre, affermasse con convinzione: God Save the Queen!

Capolavoro.

Pietro De Palma

CONSUNTIVO ANNO APPENA PASSATO

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E’ passato un altro anno.

Cose belle e meno belle sono accadute per tutti noi. E sono accadute anche nel settore editoriale.

Il mercato nel suo complesso pare che abbia superato la fase critica, anche se oramai il fatto che i lettori italiani in rapporto a quelli degli altri Paesi leggano meno, è un dato acquisito: basta andare in una libreria abbastanza grande, per es. un Iperstore Feltrinelli, andare alla cassa e vedi queste file lunghissime e pensi: chissà quando ci spicceremo! E invece dopo cinque minuti sei fuori del negozio col tuo bravo pacchetto. Velocità delle casse? No. E’ solo che vicino a uno che compra, ce ne sono in media tre che non comprano e che lo accompagnano. Tuttavia in questo mare piatto, alcune inziative spiccano.

A parte i singoli autori trainanti che fruttano sempre un certo successo commerciale (Glenn Cooper, Ken Follett, Dan Brown) e i vincitori di grandi premi della Critica, per es. il vincitore del Campiello, le collane che tirano son sempre le stesse. Nell’ambito del panorama librario della letteratura poliziesca, gli Oscar si presentanto con sempre nuovi titoli (anche derivati dall’archivio Gialli Mondadori); la collana Adelphi di Simenon, riesce sempre a sfornare qualche nuova delizia, per es. i racconti; la collana “I Bassotti” di Polillo, che nel settembre 2015 ha ripreso a sfornare titoli e su cui pochi scommettevano, pare che si sia ripresa: i titoli sfornati da allora sono stati molto allettanti, e parecchi hanno confermato il trend in crescita.

Poi ci sono i dati nuovi: c’è una collana basata sulle gesta di un commissario barese di tale Gabriella Genisi (Sonzogno), così come ce n’è u’altra, molto più allettante per chi come me si diletta di Mystery classico: è quella nata all’interno dle progetto editoriale di una piccola casa editrice, molto apprezzata per la sua politica editoriale: Lindau editore, una casa editrice torinese. Nell’ambto di tale casa editrice, notiamo la nascita di una collana direi direttamente collegata alla britannica British Library Crime Classics, per cui il mio buon conoscente Martin (Edwards) vincitore di un Edgar l’anno scorso, sforna quasi sempre prafazioni da leccarsi i baffi. Nell’ambito di questa neonata collana, si notano già alcuni titoli. Ovviamente non son sempre capolavori.Ma pur sempre si tratta di una uscita che porterà buone nuove. Finora sono usciti tre titoli: un Brandon, il titolo più debole; un Mavis Doriel Hay, appena uscito; e un Jenő Rejtő uno dei titoli più interessanti, anche perchè assolutamente sconosciuto: appena ne ho parlato, Martin Edwards e Igor Longo si sono interessati immediatamente. E’ annunciato tra due mesi un piccolo capolavoro di Sprigg (autore di due Bassotti), di cui mi ha parlato benissimo Martin. Dopo è annunciato un Bude (altro autore inglese assolutamente sconosciuto da noi). Diciamo che questi sono i più interessanti regali del 2017. Ci sono è vero delle altre cosette, romanzi di Raichev per Elliot, e il fondamentale Gli omicidi dello zodiaco di Shimada (Collana M) della Giunti, però sostanzialmente il quadro è questo. Le note tristi, ancora una volta, le percepianmo per il settore edicola.

Ci vien da dire che “Il Giallo Mondadori” è una zattera in balia delle onde: non affonda, ma neanche solca le acque. Sembra che dica: salviamo il salvabile. Ma fino a quando si potrà salvare qualcosa? Si va avanti con ristampe più o meno decorose, e con qualche inedito che si distacca dal grigiore generale, tanto ad illudere gli ingenui, che il glorioso Giallo Mondadori, ci sia ancora.

Abbondano gli apocrifi di dubbio gusto, questi esecrabili apocrifi sherlockiani che vanno avanti da quattro anni, esecrabili perchè è tutta roba che negli Stati Uniti si vende a palate e che prende pochi spiccioli: anche lì il mercato è saturo e non sanno più che farsene. Ed ecco che arriva qualcuno che fa piazza pulita di tutto quello che c’è in giro e lo propone sugli scaffali delle edicole, nella collana prestigiosa del giallo Mondadori, neanche fosse merce preziosa, volumi introvabili, autori di grido: provate a ricordarvi a memoria chi sia stato l’autore dell’apocrifo di tre mesi fa e sicuramente non lo ricorderete. Dico tre mesi, ma potrei dire il mese scorso.

Vado a caso: Amy Thomas: Il mistero delle api avvelenate. Non faccio mai commenti sugli autori. Mai. Ma quest’autrice l’avete mai conosciuta? Si distingue per essere una sherlockiana. OK. Ha scritto questo romanzo: OK. Rendiamole merito. Ma al di là di questo? Nulla. Faccio la domanda ad uno qualsiasi: l’ho fatta ad un amico che compra gialli da una vita e li procura pure. Chi è? Non lo so. E si è messo pure a ridere. Perchè tu li compri questi libri? Sta tutto qui. Tutti questo romanzieri sono illustri sconosciuti, gente che ha scritto un romanzo su S.H. o una serie come ad es. David Stuart Davies. Ma che al di là di quello non sono conosciuti. E quindi i loro diritti editoriali sono minimi. Però devono essere tradotti. E come vado dicendo, nonostante per la traduzione si faccia un contratto, per minime che possano essere le spettanze, soldi ne sono stati spesi. E parecchi visto che siamo arrivati al volume 41!

E tutta questa roba, sottrae speranze che testi più importanti possano essere più pubblicati!

Ma che mi frega di dieci, venti apocrifi che nessuno ricorderà tra un anno, quando con tutti quei soldi persi avremmo potuto avere almeno Gaudy Night di Sayers, Sudden Death di Crofts o i romanzi brevi di Don Diavolo di Clayton Rawson.

Dici: i diritti di Rawson sono tenuti da un agente che vuole la luna. E dagliela ! Dagli i soldi che vuole! Ma almeno fai un prodotto che verrà ricordato, un prodotto che potrebbe essere collocato nelle collane da libreria della Mondadori, negli Oscar per esempio.

A che serve sfornare 40 apocrifi di cui tutti si sono già dimenticati? Che lungimiranza editoriale sta dietro ad un’operazione che non porta alcun lustro, nè ricordo, nè apprezzamento da parte di utenti e viene snobbato da altri? Solo soldi buttati. Nulla di nulla.

Mauro è sempre più sconsolato, Igor non c’è più, e il timone di questa nave in gran tempesta lo tiene un nocchiero che saprà anche scrivere romanzi (non lo metto in dubbio), ma che non sa trarre vantaggio dalle conoscenze di quelli che gli stanno (e gli stavano) attorno.

A che serve Mauro Boncompagni relegato a fare le ristampe, quando chiunque con un minimo di raziocinio potrebbe farle, anzichè trarre giovamento dalla sua cultura, dalla sua biblioteca ricchissima di prime edizioni che a ben donde sarebbero potute essere tradotte da Mondadori e invece vengono prestate a Polillo perchè dei Bassotti nuovi si aggiungano ai passati?

A che serve essersi privati della presenza e dell’apporto di Igor Longo?

A nulla.

Resta Forte nel suo Fort (scusate il gioco di parole) Apache.

Auguri per un buon 2018 !

Spero non l’ultimo.


P. De Palma

Soji Shimada: The Running Dead – trad. Ho-Ling Wong & John Pugmire – E.Q.M.M. November/December 2017

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Lo scorso numero di Novembre/Dicembre 2017 dell’Ellery Queen Mystery Magazine, ha visto il ritorno assieme ad altri autori, di Soji Shimada, il grande scrittore giapponese, autore di alcuni dei più grandi racconti contemporanei con delitti impossibili e del mirabolante romanzo “The Tokyo Zodiac Murders” recentemente tradotto e pubblicato in Italia da Giunti.

Il racconto di Shimada, pur presentato alla fine del 2017 in Occidente, non è purtuttavia un’opera recente: infatti fu già pubblicato nell’edizione giapponese di EQMM nel lontano 1985, come “The Running Corpse”. E ci presenta come protagonista assoluto – nel ruolo di risolutore di enigmi strabilianti – quel Kiyoshi Mitarai, astrologo già incontrato nella sua più famosa avventura, The Tokyo Zodiac Murders (1981).

I fatti si svolgono nell’appartamento di Genji Itoi, proprietario del jazz bar Zig-Zag. Ha invitato per un party a casa sua il narratore e Puff, rispettivamente sassofonista e batterista di un gruppo chiamato The Seven Rings, oltre che Asami, una giovane donna che ha lavorato allo Zig-Zag, il rappresentante di commercio Nasami, il critico Onuki, il trombettista Aka, e l’appassionato di jazz Kubo. A catalizzare l’attenzione del gruppo è Namura, il rappresentante di commercio, che propone un gioco di prestigio: ognuno dei partecipanti al gioco dovrà prestare qualche oggetto di valore che ha addosso e che ha per lui un significato affettivo, che dovranno essere messi assieme e a ognuno di essi dovrà essere associato un numero. Poi i partecipanti scriveranno su un foglio di carta quale dei sette oggetti li attragga di più e perchè e quale sia la loro preoccupazione massima; poi il foglio verrà appallottolato, e in base a come cadrà verso i numeri, ad ogni lancio da parte di ciascuno, Namura svelerà quale sia la preoccupazione, senza aver visto cosa abbiano scritto gli attori che poi hanno appallottolato il tutto.

Il gioco comincia. E puntuale Namura rivela ad Asami poco dopo qualcosa che la riguarda di natura sentimentale. Tutti sono sbigottiti, tranne Mitarai l’astologo che ha rifiutato di dare qualcosa di sé. Tra gli oggetti c’è una collana di perle, della moglie di Itoi, e un orologio Cartier di Onuki e poi degli anelli e un altro orologio. Kubi, parecchio sbronzo, va al bagno, dopo aver avuto un poco simpatico battibecco con Puff, e ritorna poco dopo mentre il gioco si sta svolgendo. Dopo uno sguardo interrogativo rivoltogli dai presenti, ecco che alcuni di loro, pur infuriando una tempesta di acqua e di vento fuori, lanciano l’idea di improvvisare a suonare i propri strumenti. C’è chi obietta che così si possa disturbare gli altri condomini, ma il rumore della tempesta e del vento contribuisce a far sentire meno i suoni degli strumenti, mentre gli altri ospiti stanno lì a parlare o ad ascoltare.

Mentre è lì questo concerto improvvisato, scatta la corrente e nel buio, entra Kubo, il tale con il cappello di lana, e di corsa, approfittando del fatto che i presenti siano impegnati o a fare musica o ad ascoltarla, strappa la collana di perle e va via. C’è buio. C’è chi grida, c’è chi vorrebbe fare luce. Il tempo perchè la moglie di Itoi si sia procurata una torcia e che l’abbia puntata nell’appartamento, ed ecco che inquadra proprio Kubo mentre sta imboccando la porta di casa, illuminandogli le spalle ed il cappello, prima che quello si chiuda la porta alle spalle. Poco tempo dopo, il tempo necessario perchè qualcuno si muova in quel macello in cui i musicisti stanno suonando i loro strumenti, e Namura si lancia all’inseguimento di Kubo, e dietro di lui Aka e Puff, lungo il corridoio interno scoperto. Fino alla ringhiera oltre la quale Namura vede Kubo sparire saltando. Ma verso cosa? Verso dove? Non c’è nulla oltre la ringhera. Solo il vuoto. Dall’undicesimo piano.

Dopodichè Namura e gli altri due si lanciano per le scale, essendo l’ascensore fermo per il black out, ma quando arrivano giù, non trovano nulla: Kubo si è volatilizzato. Mentre cercano intorno alle macchine parcheggiate, sentono uno stridio di freni, che è prodotto dal treno della sopraelevata.

Kubo è scomparso. Letteralmente volatilizzato. Come ha fatto?

Ma ancor più pazzesco appare il fatto quando la moglie di Itoi riceve una chiamata telefonica: alla stazione Asakusabashi della sopraelevata, vicino alla loro abitazione, hanno trovato il corpo di Kubo, sfracellato da un treno: pare che si sia suicidato, buttandosi sotto.

Qui cominciano le più strampalate ipotesi per spiegare come Kubo, saltato dalla ringhiera del corridoio interno all’undicesimo piano, si sia trovato sui binari della sopraelevata. L’ultimo inatteso colpo, è quando si sa che Kubo è stato sì trovato sotto al treno, ma che prima di finirci sotto, era già morto, essendo stato strangolato.

Come è stato possibile ciò e chi ha ucciso Kubo? Evidentemente qualcuno dei partecipanti al party! Ma come ha fatto?

Lo indovinerà l’astrologo Kiyosahi Mitarai, che proporrà una fantasiosa ma inoppugnabile spiegazione, individuando l’assassino.

Ci troviamo dinanzi ad uno dei più mirabolanti esempi di delitto impossibile che io abbia letto negli ultimi anni.

Come ho detto altre volte nei miei articoli, ritengo che le storie con Camere Chiuse o Crimini Impossibili migliori in assoluto, spettacolari, siano quelle non compiute da un singolo, ma da una coppia, e quelle in cui vi sia una messinscena: in questo caso, ricorrono entrambi i casi. C’è la messinscena, cioè la messa in atto dell’impossibilità è stata allestita precedentemente, e l’atto criminoso prevede che due persone concorrano insieme ad attuarla. Devo dire che nel nostro caso, individuare l’assassino non è tanto arduo, quanto invece lo è spiegare come abbia fatto a far sparire Kubo. Che ci siano due persone che agiscono, è spiegato dalla duplicità di collane che spariscono: quella di perle, che è servita al gioco di illusionismo; e quella di giada, che è stata trovata nelle tasche di Kubo. 

Ma spiegare come il corpo sia andato a finire sulla sopraelevata è il vero gioco di prestigio. Anche in questo caso, avviene che l’impossibilità massima, cioè la sparizione del corpo, si verifichi senza che lo stesso assassino possa prevederlo: qui cioè il caso gioca la sua parte, e stravolge i piani dell’assassino. Perché è evidente che se il corpo non fosse finito laddove è stato ritrovato, ma fosse effettivamente caduto dall’undicesimo piano, sfracellandosi sul selciato della strada sottostante, nessuno e benchè meno Kiyoshi Mitarai, avrebbe potuto immaginare l’utilizzo di una corda.

Lascio un indizio ai miei lettori, che poi è un indizio lasciato da Shimada ai suoi, cioè anche a me. L’indizio è contenuto nella prima piantina. Faccio una domanda. Per quale ragione viene indicata la larghezza del balcone? Che forma ha il balcone? 

Shimada qui paga un pesante tributo mi sembra a tanti autori del passato.

Innanzitutto, indossare un indumento in modo da far sembrare una persona un’altra mi ha ricordato subito un celeberrimo racconto di Christianna Brand, in cui c’è anche lì una messinscena, The Gemminy Cricket Case.

Poi mi sembra che Shimada guardi a Poe: Il pozzo e il pendolo. A me sembra chiaro. Ah, già, non ho detto una cosa: il motivo della messinscena, che si collega ad un pendolo. Che non doveva servire per nascondere un assassinio, ma un furto. E poi…

Poi c’è l’omaggio a Ellery Queen che è chiarissimo.

Innanzitutto la simbologia: il numero sette qui ha la sua importanza. Sette è il numero associato alla collana di perle, sette sono gli anelli del gruppo jazz di Puff e del narratore, sette sono i minuti in cui una volta Aka aveva raggiunto un treno correndo come un pazzo, Asami aveva scelto il numero sette per la sua rivelazione durante il gioco di prestigio.

Poi c’è la sfida al lettore.

Challenge to the Reader:

For those of you familiar with my work, this case might be too easy.

But for those of you who are new readers, I issue the following challenge:

You now have all the information you need to solve the mystery of the Running Corpse. Good luck!

Sōji Shimada

E infine c’è il messaggio del morente, o meglio i messaggi dei morti. 
Un assassino inseguito dal destino, dal fato: che non voleva uccidere. L’assassinio è avvenuto in seguito ad una lotta violenta, ad un litigio: noi diremmo, omicidio preterintenzionale. Poi l’ideatore di un furto, diventato assassino, si disfa del corpo del suo complice, non sapendo che quello aveva rubato una collana di giada della padrona di casa. E quindi sparendo due collane, e non una, si capisce che la storia è più complessa di come non dovesse apparire.

Qui il sovrannaturale compare con delle strane coincidenze che si collegano  con il numero sette. Perché in definitiva sette? Perché è come se qualcuno avesse voluto accusare l’assassino, con una simbologia numerica che portasse direttamente all’assassino. Perché qui il numero sette è l’assassino.
Non resta che leggere il racconto per capirlo.

Pietro De Palma

P.S.
Le piantine nel racconto in effetti non sono due ma tre: evidentemente non ho messo la terza, perchè è inserita nella soluzione.


Georges Simenon : I sette minuti (La nuit des sept minutes, 1931) , da “Tre inchieste dell’Ispettore G.7” (G.7, 1938) – Trad. Marina Di Leo) – Adelphi, 2015

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Per me lo scorso 23 dicembre è stato un giorno importante, perché ho incontrato di nuovo un amico che ritenevo perso. Non sentivo Igor Longo da 9 anni. Non starò qui a dire le cause, e cosa gli sia capitato. Ne parlerò se lui vorrà un giorno, perché sarebbe anche una storia istruttiva in un certo senso. Fatto sta, che Igor nel frattempo, se già era a detta di Giulio Leoni “un’enciclopedia vivente” prima nel 2009, ora nel 2018, non saprei dire cosa sia diventato. Forse un computer vivente? Non so come faccia a leggere tanto, sia in italiano, ma soprattutto in inglese, francese e anche in spagnolo.

Qualche giorno mi ha accennato a certi racconti che Simenon scrisse alla fine degli anni 20, dei racconti non con Maigret, ma con altri investigatori e basati esclusivamente su enigmi: io gli ho parlato di un volume della Adelphi, in cui erano proposti tre racconti. Lì per lì ho pensato che appartenessero ad una delle due raccolte, al che lui mi ha risposto che a quel punto non valeva la pena: sarebbe più intelligente acquistarli in francese. La mia sorpresa è stata totale quando invece ho scoperto che il volume non presentava una selezione Les treize mystères (1929, 13 racconti) o da Les treize énigmes (1929, 13 racconti), bensì era la traduzione italiana di Les sept minutes o G.7 (1938, 3 racconti): Tre inchieste dell’ispettore G.7 (Adelphi, 2015).

L’ho acquistato senza chiedere cosa fosse, e ho fatto bene, perché Igor mi ha detto che sono magnifici, soprattutto il secondo dei tre, quello che da il titolo al volume: La nuit des sept minutes (1931).

In sostanza, un preambolo che parla dell’Ispettore G.7, chiamato così perché proprio nel cappello introduttivo, si presenta al narratore, che diventerà suo amico e mentore, come passeggero di un’auto rossa, della compagnia G.7 di taxi parigini,  serve e fare da collante tra i tre racconti che compongono la mini-antologia e a spiegare il rapporto tra il narratore e l’Ispettore e perché egli sia chiamato G.7. Due romanzi brevi fanno da ali al racconto più famoso, che presta il proprio titolo a quello stesso della raccolta: L’énigme de la Marie-Galante, Le Grand Langoustier e La nuit des sept minutes.

La nuit des sept minutes è una Camera Chiusa.

Una lettera avvisa la polizia che un tale Ivan Nikolaevic Morozov verrà assassinato il seguente 19 giugno nella casa propria.

La polizia, nella persona dell’ Ispettore G.7, cerca notizia su tale candidato all’obitorio, ma non risulta nulla dal casellario giudiziale né da altre fonti: si riesce a risalire solo alla sua abitazione, Lungosenna 11, e al fatto che abbia una bella figlia, che lavora nel campo della moda.

La sera dell’ipotetica uccisione, il cadavere ambulante viene  sorvegliato da quando cena in un bistrot italiano fino all’entrata in casa sua, casa precedentemente perquisita e dichiarata vuota: ne osservano i movimenti in  camera, quando arriva, si sveste, si mette il pigiama, e va a dormire.

L’attesa è snervante. Il narratore, l’agente Aubier, e l’Ispettore G.7 montano la guardia davanti all’abitazione: il narratore può testimoniare di essere stato sempre attento, tranne che in un periodo di soli sette minuti durante il quale si è assopito. Questo fatidico intervallo di sette minuti sarà fatale, perché pare che proprio durante esso, Morozov sia stato assassinato, cosa che scoprono in seguito. La cosa emblematica è che la casa è chiusa dall’interno, fuori sulla terra umida vi sono solo le impronte dei tre e di Morozov, la vittima presenta un foro di proiettile all’altezza del cuore, ma nessuna pistola è stata trovata sulla scena del crimine.

E’ ovvio che si parli di omicidio ma siccome di progressi non ce ne sono, perché nessuno è trovato nella stessa casa, G.7 perde il caso. Lo stesso suo amico, ragionando sul fatto che gli attori oltre la vittima siano lui stesso (ma non dubita della propria salute mentale), Aubier a cui è stato comandato di piantonare ma che non ha alcun legame con la situazione in oggetto, e G.7 (a cui strappa la confessione che conosceva la figlia di Morozov da prima che si sapesse della morte di lui) per forza di cose comincia a dubitare dell’amico, tanto da rivolgersi ad un detective privato e farlo sorvegliare. Sapeva già che Morozov, generale dell’esercito imperiale russo, fuggito a Parigi, ha sperperato al gioco il suo enorme patrimonio, e che qualche tempo prima aveva fatto un’assicurazione per 200.000 franchi. Ma poi viene a conoscere anche che G.7 è innamorato della ragazza, ricambiato, e quindi è parte in causa nella vicenda. Tuttavia, dopo una spiegazione alquanto imbarazzata con l’amico, G.7 spiegherà la soluzione della faccenda.

Bel racconto, facile facile. Pieno di inventiva, dimostra la filiazione sicuramente da Gaston Leroux (i poliziotti fuori dalla casa in cui si consuma la vicenda, è una caratteristica tutta francese che ci riporta alla memoria “Il mistero della Camera Gialla” di Leroux, cosa che poi si ripeterà in altri scrittori francesi: Vindry in Le Piège aux diamants e in La Bête hurlante, e molto più tardi Le onzième petit nègre di Jacquemard & Senecal) ma soprattutto da S.S. Van Dine. Innanzitutto è rispettoso delle sue regole, ma poi applica direttamente alcune caratteristiche al racconto: lo scrittore è amico del detective e partecipa in secondo piano allo svolgersi dell’azione (anche se qui entra nella storia commissionando ad un detective privato la sorveglianza del poliziotto), la scomparsa della pistola si collega ad un celebre romanzo della trilogia per antonomasia, in quanto è replicato esattamente lo stratagemma vandiniano (applicato anche successivamente al romanzo di Alexis Gensoul Gribouille est mort). L’unica defaillance è data dall’esiguità degli attori del dramma,  altra caratteristica che ci riporta all’ambiente francese (molti romanzi di Pierre Boileau hanno per es. pochi sospettati per cui alla fin fine trovare l’assassino non è cosa ardua), per cui ben presto si capisce chi possa aver ucciso il generale.

Per spiegare l’impossibilità della camera Chiusa non si fa riferimento a trucchi concernenti la chiusura della porta o alle orme, ma a cause psicologiche, che legittimano il ricorrere ad un tipo di spiegazione per assurdo, la cui prova tangibile è acquisita non da G.7 ma dallo stesso narratore, nella sua incredulità.

Ritmo scorrevole, racconto delizioso.

 

Pietro De Palma

Hillary Waugh : L’alibi (The Missing Man, 1964) – Trad. Lydia Lax – I Gialli Segreti N°89 del 1965

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alibi 001Ritorniamo a parlare di un romanzo di Hillary Waugh, l’inventore si può dire se non uno dei massimi esponenti del “Procedural”, cioè di quel genere poliziesco che ri guarda le indagini svolte dalla polizia per incriminare una tale persona: scompare quindi il detective dilettante, scompaiono i delitti eclatanti e machiavellici, e si afferma invece un’indagine più schietta e reale, in cui soppravvive purtuttavia  il metodo indiziario. Waugh tentò anche una serie “The Case of” in cui, invece del procedural più classico, debordava in hardboiled di tipo chandleriano, molto popolari al suo tempo. Diciamo subito che questa parte della sua produzione è la meno significativa, non per il genere, quanto perchè riporta cliché adottati da altri. I procedurals invece che confezionò, furono tutti in gran parte buoni, raggiungendo significativi risultati in alcuni casi:

The Missing Man è un romanzo del 1964.

Si apre con la scoperta del cadavere di una gran bella ragazza da parte di un bagnino, su una delle spiagge del Connecticut nel New England, in una macchia di vegetazione in cui di solito si nascondono le coppiette per amoreggiare.

La ragazza è completamente vestita, tranne le scarpe, lasciate lì vicino (le suole dei piedi sono insabbiate, segno che è venuta a piedi nudi sul bagnasciuga), e non indossa mutandine; inoltre non ha effetti personali (gioielli, orologio da polso) nè tantomeno la borsetta. E’ stata strangolata, ma prima di esserlo, ha avuto un rapporto sessuale. Inoltre, siccome è stata strangolata per mezzo di un pezzo di corda, è evidente che l’assassino l’abbia portata con sè, e quindi trattasi di un omicidio premeditato: qual’è quella bestia che premedita un omicidio con una donna, che evidentemente non aveva alcun sospetto sul suo partner, e ha il coraggio di aver pure un rapporto sessuale prima di ucciderla se non addirittura strangolarla mentre le sta sopra? Ci sono degli indizi che l’attestano: gli slip quando la donna era arrivata al luogo, erano addosso, e solo prima di morire, erano stati tolti, tanto che sulla pelle era rimasto il segno dell’elastico; e anche un segno sull’anulare, fa presumere che sia stato portato via un anello. Quindi…anche una rapina? Chi è la donna? E chi l’ha uccisa? Iniziano le indagini.

Le uniche cose in mano alla polizia sono la foto, e il calco dei denti.

Purtroppo la vittima è stata scoperta nel weekend, e quindi per avere l’aiuto dei giornali in una possibile identificazione del cadavere dovranno passare dei giorni.

Prima è la padrona di una pensione a “La Piccola Bohéme” il villaggio di case a ridosso della spiaggia, sotto Indian Lake, a farsi avanti e riconoscerla: è Elizabeth Moore, una sua pensionante. Si è presentata con una valigia: l’ha riconosciuta dalla foto segnaletica. Aveva con sè una fede nuziale e un orologio con dei brillantini, che l’assassino le ha portato via, ma che sono su una foto che Fellows il capo della polizia locale trova in camera sua. La valigia non ha effetti personali di alcun genere: solo una etichetta stinta potrebbe avvalorare l’ipotesi che la donna in passato abbia viaggiato per aereo o per mare. Elizabeth pare che fosse vedova da poco, circa tre mesi e che il marito, Harry fosse morto per un incidente automobilistico.

Chi è Harry? Chi è Elizabeth? Due nomi sconosciuti! Parte un’indagine a tutto campo, e nulla viene dimenticato. Oltre che la pensionantte, si presentano anche alcune delle coppie che sono solite passare del tempo sul bagnasciuga a fare l’amore: prima John Carlson e Linda Waters, che affermano di aver visto una coppia, che potrebbe essere stata quella della vittima e del suo assassino doirigersi verso la macchia, e di aver sentito una doppio rifiuto pronunciato dalla ragazza e poi il silenzio; e poi un’altra coppia, Hank Wilson ed Adele  Edmund, arrivate più tardi, ma che riferiscono di uno strano tipo che va ad illuminare le coppiette con una torcia elettrica.

La pista promettente che porta a questa specie di giovane guardone, tramonta ben presto, e Fellows e Wilks, si trovano con un pugno di mosche. Anche la pista che porterebbe a Pittsfield, una grande cittadine delle vicinanze, in virtù di una lettera che Betty avrebbe ricevuto, tramonta ben presto, come pure quella che Harry sia morto in Connecticut. Quando tuttavia si dispera di trovare più alcun appiglio, per caso uno dei poliziotti incaricati di esaminare i passeggeri in uscita e in entrata dal porto di New York, trova proprio Signor Harrry Moore e Signora Harry Moore. Prende contatto con uno dei passeggeri che li informa di ricordarsi bene della coppia, anche perchè pur essendosi prenotati per tutta la crociera, in realtà erano scesi prima, coi loro bagagli, in concomitanza col furto in parecchie cabine occupate da persone anziane che Harry aveva frequentato assiduamente durante il viaggio.

Anche questa pista però ben presto subisce un colpo, quando della coppia non si riesce a trovare più alcuna notizia. L’indagine si riapre quando però i connotati dei due vengono assimilati ad una coppia con cognomi diversi: Harry e Betty Cooper, abitanti a Pittsfield. Quando arrivano alla casa dove i due avevano abitato, ecco un’altra sorpresa: la vicina afferma che la signora è partita poco tempo prima, mentre lui è partito parecchio tempo prima. E’ partita quando ha ricevuto comunicazioni dal marito di raggiungerlo. E pur partendo con una valigia solo (quelal ritrovata nella pensione), il grosso del mobilio e degli effetti personali è stato traslocato da un’agenzia di cui però non è rimasto alcun segno del passaggio: la fortuna arriva in soccorso quando per caso qualcuyno guarda nelal cassetta postale e lì trova la fattura intestata al merito, dell’agenzia di triaslochi. Risalendo all’indirizzo, riescono finalmente a mettere le mani sugli effetti personali della vittima, tra cui tre lettere, che permettono loro di  accusare definitivamente il marito di uxoricidio premeditato: emerge come movente il fatto che il marito avesse un’amante e che la moglie non volesse il divorzio, innamorata com’era e speranzosa che il marito tornasse da lei, ancora giovane, 22 anni, e le concedesse la gioia di avere un figlio. Emerge tuttavia anche come il marito avesse conosciuto la moglie molto prima, quando erano giovani, ed emergono anche altri due nomi: quello di due donne., tra cui la sorella di Betty, provata da un recente aborto. Supponendo che la sorella le avesse inviato dei fiori, si rivolgono a dei fiorai e risalgono al vero cognome della giovane, Larkhin. Sulla base di esso riescono a trovare la madre del marito a New York, e il cerchio comincia a chiudersi, quando la madre da una foto del figlio. Proprio quella foto, ricorderà a Fellows qualcuno che all’inizio del caso aveva parlato con lui.

Sulla base di una intuizione riguardante il posto dove potesse risiedere, e tentando proprio Pittsfield, riescono a trovare che quella persona abita effettivamente lì. La padrona di casa, li informa che lui è andato via, e quando fellows la informa che lui e lei hanno prmeditato la morte della moglie, per potersi sposare, lei distrugge uno dei due alibi su cui l’uomo fondava la sua estraneità: lei non l’aveva visto in un tale posto la sera dell’omicidio di Betty, ma sull’estraneità della fidanzata metteva la mano sul fuoco.

L’ultimo atto, riuscirà a demolire l’altro alibi, dato all’assassino dalla fidanzata, e a dimostrare la colpevolezza dell’uomo tornato dal viaggio di nozze assieme alla moglie, sulla base proprio dell’orologio da donna indossato dalla moglie, regalo del marito, e appartenuto a Betty sino alla sera dell’omicidio, colpo di scena finale.

Il romanzo, identificato come un Mystery, non lo è certamente quanto piuttosto un “thriller – potremmo dire – deduttivo”: non dobbiamo scegliere in una rosa di sospettati, perchè il sospettato è uno solo; IL MOVENTE è il più classico in casi come questo e l’assassino il più ovvio: liberarsi della moglie affinchè il marito, non potendo disporre della propria libertà attraverso il divorzio, possa ottenerla in altro modo; tuttavia se la moglie ha un nome fittizio da cui non si ricava il suo passato, l’uomo è il vero punto interrogativo della vicenda, tanto che si giustifica il titolo in inglese del romanzo: l’Uomo scomparso (The Missing Man); il pezzo di corda con cui la donna è stata strangolata, fa ipotizzare all’inizio del romanzo la premeditazione dell’omicidio, cosa che poi viene avvalorata alla fine, sulla base della lettura di una delle tre lettere con cui l’omicida aveva dato disposizioni alla moglie, su come arrivare a “La Piccola Bohéme”, dove trovare alloggio, come qualificarsi, che balle raccontare sul proprio passato, come arrivare in spiaggia persino. Un elemento di depistaggio che era stato usato, aveva riguardato la sparizione delle mutandine, accreditando così la pista, peraltro mai presa in considerazione, del maniaco sessuale (il maniaco sessuale in un raptus avrebbe strozzato  la donna ma perchè si sarebbe portata appresso, apposta una corda, se non avendone premeditato la morte?).

Il thriller ha delle movenze esclusivamente Mystery, non essendoci per nulla ceneri hardboiled che pure avevamo notato nell’esordio di Waugh, Madam Will Not Dine Tonight, e che ci saranno ampliate in alcuni romanzi tardi della mertà degli anni ’80. Tuttavia notiamo una certa somiglianza con altri romanzi pure procedural, per es. col famosissimo Sleep Long My Love: la vicenda è un omicidio che nasce all’interno di una coppia, in cui lui vuole troncare la storia e lei non glielo permette; lei viene uccisa, e lui fa di tutto perchè l’identificazione sia sua sia della sua vittima siano il più difficile possibile; lui non è una persona che scende dal cielo, ma è presente all’inzio del romanzo (una discendenza da Van Dine?) seppure in una veste che presupporrebbe l’estraneità alla vicenda delittuosa; viene in certo modo ribaltato il rapporto vittima carnefice, perchè in definitiva lui uccide lei in quanto messo nella condizione di recuperare la sua libertà solo in un modo possibile, obbligato dalla volontà ferrea di lei di non darla vinta a lui ma invece di voler indirizzare la loro vita familiare. Tuttavia nei due casi, pur essendo maggiormente efferato il modus in Sleep long in quanto il cadavere viene bruciato, rilevo come l’efferatezza dell’omicidio sia inversamente proporzionale alla cattiveria dell’omicida, in quanto nel nostro caso, pur avendo “solamente” strangolato la sua vittima, non arrecando alcun vilipendio al cadavere, è particolarmente odioso, in quanto prima dell’omicidio o anche addirittura durante, lui ha con lei un ultimo rapporto sessuale, una sorta di “ultimo desiderio del condannato a morte”, che da lei può esser stato visto come un tentativo di riconciliazione col marito, ma non da lui, che invece “gode” due volte: una sessualmente, l’altra avendo liquidato la moglie che impediva un matrimonio particolarmente redditizio.

Hillary Waugh non eccede in descrizioni nè in ritratti psicologici, e pertanto la lunghezza del romanzo non è mai eccessiva. Questo ha anche la sua importanza, perchè un testo non molto lungo , se impostato bene, in quanto thriller, ha una sua forza intrinseca, e procede spasmodicamente verso il finale. Tenendo presente, che vi è sempre un colpo di scena finale, che qui è addirittura doppio: innanzitutto, l’identificazione dell’omicida in qualcuno che abbiamo visto all’inizio del romanzo; e poi qui, addirittura la comparsa di qualcosa che era statato sottratto alla vittima (un orologio d’oro con brillantini, probabilmente donatole da lui in un momento felice del loro menage) al polso della nuova moglie, a sancire una continuità di appartenenza al marito, ma anche ovviamente la prova principale della sua colpevolezza. La poca lunghezza del testo non è riferibile per di più solo alla edizione italiana ma anche a quella originaria.

Scattante traduzione di Lydia Lax, una veterana nelle traduzioni degli anni ’60.

Pietro De Palma

 

 

 

 

 

 

S.S.Van Dine : La canarina assassinata (The Canary Murder Case, 1927) – trad. Pietro Ferrari – Polillo, I Bassotti N.117, 2012

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La Canarina assassinata è uno dei più bei Gialli dell’Età d’Oro del romanzo poliziesco.

Quando lo scrisse, Wilard Huntigdon Wright, aveva già pubblicato The Benson Murder Case, 1926 “La strana morte del Signor Benson”, romanzo che aveva ottenuto un buon successo. Ma è senza dubbio proprio con The Canary Murder Case, 1927 “La Canarina assassinata” e poi con The Greene Murder Case, 1928, “La Tragedia di Casa Greene”, che si impose come il più grande autore della sua epoca: due romanzi che fecero scuola.

Antitetici è bene dirlo: così come “La Tragedia di Casa Greene” è una vicenda di morte che si svolge claustrofobicamente in una dimora in cui sono costretti a vivere gli eredi di una fortuna, ed in cui aleggia dal primo all’ultimo istante un’atmosfera greve e plumbea, ne “La Canarina Assassinata”, l’atmosfera è invece frivola e salottiera, molto più leggera, ma al tempo stesso complicata.

I tre romanzi assieme formano una ideale trilogia

Da un certo punto di vista, si può dire, a mio parere, che sia uno dei più grandi romanzi polizieschi che siano mai stati concepiti. Oggi, che le soluzioni vandiniane sono state fatte proprie e poi superate da tanti grandi scrittori a lui successivi, Van Dine sembra essere Pollicino, e a taluni le sue soluzioni fanno ridere. Invece, non si può pensare alla letteratura poliziesca degli anni ’30, senza inchinarsi reverenzialmente dinanzi a Van Dine. Perché senza di lui non ci sarebbero stati Ellery Queen, Charles Daly King, il primo Rex Stout.

E dei romanzi di Van Dine, i due che hanno avuto più influsso sui posteri sono stati proprio The Canary Murder Case e The Greene Murder Case. In particolare The Canary Murder Case, ebbe un effetto dirompente all’epoca: fu in testa per parecchi mesi alle classifiche dei libri più letti.

Julian Symons nella sua opera critica più famosa, Bloody Murder, riportò il giudizio di un altro critico, Howard Haycraft, scrivendo che “ ..his second book, The Canary Murder Case 1927, broke all modern publishing records for detective fiction at the time” (Julian Symons, Bloody Murder, Penguin Books, 1985, pag.101).

Più in là a testimoniare il grandissimo successo riportato da questo romanzo e dal successivo romanzo, che sconvolsero la letteratura poliziesca del tempo, dominata dagli autori britannici, Symons affermava che “It was said that he had lifted the detective story on to the plane of a fine art, and by his own account he was the favorite crime writer of two Presidents” (op. cit. pag. 102).

Ma perché The Canary Murder Case ebbe tutto questo successo? Analizziamo la storia.

Innanzitutto chi è la Canarina? Prendendo a prestito la stessa prosa di Wilard Huntigdon Wright “..Margaret Odell aveva ricevuto il soprannome di Canarina in seguito a una parte sostenuta in un elaborato balletto orni­tologico delle Folies, dove ogni ragazza aveva una gonna che richiamava qualche uccello. A lei era toccato il ruolo della ca­narina; e il suo costume di satin bianco e giallo, insieme alla massa di luminosi capelli biondi e la carnagione bianca e ro­sea, l’avevano distinta agli occhi degli spettatori come una creatura di notevole fascino. Prima che trascorressero 15 giorni, tanto concordi erano stati gli elogi della critica e così regolari gli applausi del pubblico che il Balletto degli uccelli divenne il Balletto della canarina e la signorina Odell fu pro­mossa al rango di quella che caritatevolmente potrebbe esser definita première danseuse, con l’attribuzione di un valzer in assolo e una canzone interpolata appositamente perché desse prova delle sue molteplici grazie e talenti.

Alla chiusura della stagione, la ballerina aveva lasciato le Folies e, durante la successiva e spettacolare carriera nei luo­ghi di ritrovo della vita notturna di Broadway divenne popo­larmente e familiarmente nota come la Canarina. Fu così che, quando la trovarono brutalmente strangolata nel suo apparta­mento, il delitto fu definitivamente denominato: l’omicidio della Canarina” (S.S. Van Dine, The Canary Murder Case,“La Canarina Assassinata”, trad. Pietro Ferrari, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, 1992, pag.7).

La Canarina è Margaret Odell, attricetta e soubrette di locali di serie B, di night club, che è poi diventata famosissima in certi ambienti di Broadway. Conosce il suo ruolo e sa quale sia anche il giudizio che le riservano negli ambienti borghesi di cui lei rappresenta il richiamo: nel balletto non fa altro che fare il verso ad un uccello e mostrare le gambe. Ma si illude di poter scalare la società e conquistare un suo posto importante. E’ un po’ lo stesso discorso che fa la puttana di un Bordello di lusso (la prostituta sogna un amore impossibile con un bel cliente che oltre che utilizzarla per il suo piacere, la introduca nel mondo “normale”) il discorso di Margaret Odell, che, finito lo spettacolo, si ritrova nel grigiore della vita i ogni giorno, da cui esce temporaneamente solo nel volgere di uno spettacolo in cui uomini facoltosi in ghette, cilindro e marsina, fanno la coda per vederla , magari dondolarsi su un’altalena, su un trespolo, su cui lei, La Canarina, mostra le gambe.

E’ chiaro quindi che Margaret Odell, come farebbe una qualsiasi mantenuta, cerchi qualcuno che le assicuri, almeno nel suo mondo fatto di lustrini e pailettes, una certa onorabilità e almeno l’illusione di aver scalato quella società che invece non la accetterà mai. E’ la società degli anni ‘venti, in cui la grande crisi economica portò sul lastrico decine di migliaia di persone, ma che favorì anche l’arricchimento maggiore di chi già era ricco.

La Canarina ha molte amicizia maschili e non lo nega: i suoi accompagnatori la sfoggiano come oggi si farebbe con una Ferrari Testarossa, le altre donne la invidiano o ne parlano male, lo immaginiamo, ma lei pensa di poter usare queste amicizie, per i suoi scopi, che sono quelli di far carriera. Ha raccolto le confessioni di chi stava tra le sue gambe, ed un bel giorno decide di far il gran passo: decide di forzare la mano ad uno dei suoi amanti, e metterlo con le spalle contro il muro. E’ facile pensare, e poi lo si saprà, a cosa aspiri La Canarina: non vuol più essere “La Canarina”, ma una signora del Jet-Set, appartenere a quell’ambiente di cui ha conosciuto “tanti validi esponenti”. Solo che non capisce una cosa molto semplice: chi mai sposerebbe una “Canarina”? Ma lei si illude. E come tale resta vittima dei suoi stessi sogni.

Un bel giorno “La Canarina” vien ritrovata morta, assassinata, strangolata.

L’immagine che ne da Van Dine è terribile:

Il capo era rivolto all’indietro, come per una costrizione violenta…i capelli, disciolti, ricadevano dalla nuca sulla spalla nuda come la cascata raggelata di un liquido dorato; aveva perso ogni bellezza; la pelle era esangue, gli occhi vitrei; la bocca era aperta e le labbra convulse. Il collo, sui due lati della cartilagine tiroidea, mostrava orribili lividi scuri. La Canarina indossava un leggero abito da sera di pizzo Chantilly nero sopra ad uno chiffon color crema. Sul bracciolo del divano aveva gettato una cappa di un tessuto dorato, bordata di ermellino…a parte i capelli arruffati, una delle spalline dell’abito era stata strappata e il sottile pizzo del corpetto si era aperto in un lungo squarcio..una scarpetta di satin si era sfilata ed il ginocchio destro era contorto in dentro vero il divano, come se la poveretta avesse cercato di liberarsi dalla soffocante morsa del suo antagonista: Le sue dita erano ancora piegate,senza dubbio come nel momento in cui si era arresa alla morte” (S.S. Van Dine, “La Canarina Assassinata”, trad. Caterina Ciccotti, I Classici del Giallo, Barbera Editore, 2010, pag.22-23).

Dal sopralluogo effettuato dalla polizia emerge che mancano dei gioielli, che invece avrebbero dovuto esserci, secondo quanto afferma la sua domestica: quindi si è portati a identificare l’assassinio, come l’effetto di una rapina, o di un furto in appartamento, finito male (per Odell).

Tuttavia, questo è il giudizio della polizia per bocca del Procuratore Distrettuale di New York, F.X. Markham, che conduce le indagini. Di diverso avviso sarà il giudizio di Philo Vance, amico del Procuratore, osservatore imparziale e di geniali intuizioni, che salverà anche questa volta la Polizia da una figuraccia, e che invece sonderà una strada che nessuno aveva intravisto.

Philo Vance è una evoluzione di Sherlock Holmes, radicale: se eredita da Holmes l’attenzione ai particolari, agli indizi, non è però un applicatore integerrimo di essi. Infatti gli indizi che magari porterebbero a orientare le indagini in un certo verso, devono accordarsi ad una ricostruzione psicologica che in base ad essi spieghi tutti i quid rimasti insoluti. E per far questo, Philo Vance, diversamente da Sherlock Holmes, sonda l’anima e la mente dell’uomo, con l’attenzione che il buon Conan Doyle non aveva contemplato per il suo Sherlock Holmes. Si raffrontano così due diversi ideali: quello umanistico, attento alla psicologia e alle altre arti scaturenti dalla passione e dal gusto (Pittura, Scultura, Musica) di Philo Vance; e quello scientifico, analitico, di Sherlock Holmes.

Tuttavia, Philo Vance, osserva alcuni particolari, e in virtù della sua capacità di vedere al di là del mero indizio, ne dà una spiegazione tale che la visione di un omicidio susseguente ad un tentativo di rapina finisce per crollare miseramente.

Normalmente, quando si parla di questo romanzo, tutti individuano la sottigliezza del ragionamento di Van Dine, nella spiegazione della Camera Chiusa, in effetti “immaginifica”: spiegare non tanto come l’assassino e il testimone siano potuti entrare, quanto come essi siano potuti uscire, visto che il portiere quando va via, spranga sempre dal di dentro il portoncino che porta nel cortile interno al palazzo (l’uscita posteriore) con un chiavistello, in tale maniera che chiunque entri nel palazzo stesso, dopo la sua uscita, debba passare per forza davanti al centralinista, impressiona; e impressionò in quel tempo, moltissimo.

Ma ancor di più impressionò il pubblico dei lettori (e dei critici) l’aver inventato un modo che dilazionasse in avanti nel tempo l’azione delittuosa, cioè dopo che il suo accompagnatore della sera assieme al centralinista l’avessero sentita parlar e rispondere alle domande fatte da loro fuori della porta.

Se tuttavia la soluzione della Camera Chiusa e l’espediente per far apparire accaduto dopo, un omicidio che era stato invece commesso prima, rappresentano i mezzi con cui l’investigatore inchioda l’assassino, e che sono messi in chiaro da chiunque analizzi questo romanzo, pochi, pochissimi o nessuno, hanno esaminato gli altri momenti della deduzione vandiniana.

Secondo me, un altro momento in cui Van Dine impressiona il lettore è quando fa argomentare Vance molto molto sottilmente, sulla posizione relativa al corpo della vittima e sugli strappi subiti dai suoi abiti: se davvero Margaret Odell fosse stata affrontata in un corpo a corpo, immaginando che si sarebbe difesa con tutte le proprie forze, per quale motivo un innocente mazzolino, che le è stato ritrovato in grembo, non sarebbe stato scagliato altrove? Per terra, per esempio? E inoltre se così fosse stato, il collo non sarebbe stato rivolto all’indietro, ma la vittima sarebbe dovuta cadere avanti. Quindi… il delitto non si è consumato così, e si è tentato, con una messinscena, di depistare le indagini: lo strangolamento è avvenuto dal di dietro, quando la vittima non si aspettava che chi le stava dietro la strangolasse, ergo si fidava di lui/lei. Ma ci sono gli strappi del vestito! Altra messinscena: gli strappi sono stati fatti post-mortem per confondere il ragionamento degli investigatori.

Secondo ragionamento molto sottile è quello, concernente la chiave dell’armadio: per quale motivo essa è posta internamente all’armadio, quando comunemente essa invece dovrebbe esser infilata nella serratura esternamente?

C’erano quindi, quella sera, in quella stanza, tre persone: Margaret Odell e due altre persone, di cui una nascosta nell’armadio. Chi è stato l’assassino e chi il testimone? L’assassino ha anche rubato in un secondo tempo, oppure è stato l’altro a rubare? Le due persone presenti nell’appartamento, nei loro diversi ruoli, sono legate ad un altro ragionamento che si fa largo allorché Philo Vance nota come un porta-documenti sia vuoto, e come un portagioie di acciaio sia stato apparentemente forzato con un attizzatoio di ghisa: se davvero ci fosse stato un ladro avrebbe certamente usato uno strumento più idoneo per far saltare il coperchio, piuttosto che usare un attizzatoio. Tanto più che un esperto chiamato da Vance ne corrobora la tesi: che cioè vi son stati due momenti diversi nell’effrazione: quello rozzo con l’attizzatoio, che non ha sortito altri effetti se non di ammaccare il coperchio, e quello altamente professionale, effettuato con uno strumento di acciaio, probabilmente un grimaldello. Perché mai si sarebbe dovuto portare dalla camera vicina un attizzatoio inadeguato a far quello che ha fatto il grimaldello?

In parole povere, Vance postula l’azione in due momenti separati, da parte di due diverse persone. Ecco una primo fatto accertato, di grande importanza: nell’appartamento, quella sera, la sera del sabato, due persone sono state lì, probabilmente in un tempo successivo alla morte della Canarina. Il che non vuol dire necessariamente che entrambi avessero partecipato all’omicidio.

Fatto sta che il secondo ignoto visitatore sarà ucciso e solo dopo la sua morte Vance, individuando l’espediente per ritardare la morte, darà un volto all’assassino. In questo caso l’espediente sarà direttamente messo in relazione all’attività dell’assassino.

Secondo me, fu proprio questo espediente, e non invece la soluzione della Camera Chiusa, a determinare il successo del romanzo. La ragione? L’espediente era legato ad un oggetto, che in quei tempi, negli Anni Venti, stava vivendo un’affermazione roboante e che era uno degli status symbol di una famiglia agiata, almeno di posizione sociale borghese. Un oggetto legato alla musica. Era difficile, assai difficile per non dire impossibile che una famiglia operaia o di assai modeste condizioni coltivasse la musica, mentre in una famiglia di estrazione medio-alto borghese la musica era una delle componenti anche sociali che le permettevano distinguersi da un’altra inferiore.

E non è un caso che accadesse che proprio Philo Vance si interessasse a quell’oggetto, disdegnato dagli altri rappresentanti dell’ordine, dall’ottuso Sergente Heath al troppo conformista Procuratore Markham.

Ma perché Philo Vance sì e gli altri no? Perché Philo Vance è un esteta, è interessato a quelle arti che per il povero Markham non rappresentano invece alcuna fonte di diletto. Vance è un individuo superiore, un cavaliere, un principe rinascimentale, superiore a tutti, anche al procuratore Markham: il solo che gli possa stare alla pari è Van Dine stesso, rinchiuso nella corazza del segretario.scudiero narratore delle sue gesta.

L’esser un coltivatore di arti lo mette su un gradino più altro del volgo con cui si rapporta.

Philo Vance è l’immagine del Super Uomo Nietzschiano, di cui Wilard Huntigdon Wright era profondo conoscitore, avendo curato la prima edizione integrale americana delle opere del pensatore tedesco. Proprio queste arti o i giochi che egli pratica (il gioco degli scacchi, che è strumento dell’arte del pensiero, del ragionamento, sarà alla base di The Bishop Murder Case; mentre il poker giocherà un certo ruolo nella classificazione psicologica dell’omicida, in The Canary Murder Case).

Individuo in questo romanzo 4 caratteristiche peculiari di Vance: la deduzione (soluzione della Camera Chiusa), la psicologia (il ragionamento che scaturisce dalla partita a poker), la curiosità (la scoperta dell’imballo dei dischi in un cestino della carta straccia), la sensibilità artistica.

Infatti, al di là di come egli dimostri in maniera incontrovertibile il modo per uscire dal portoncino lasciando il chiavistello chiuso dall’interno; al di là del fatto che egli usi l’elemento psicologico derivante da una partita a poker per insinuare la colpevolezza di una certa persona, non riuscirebbe mai a provare le sue accuse se…un elemento puramente casuale non gli desse una mano.

Può un fattore affidato al caso avere la meglio sulla psicologia finissima e sulla superiore deduzione di Philo Vance? E’ questo il punto. NO.

Eppure in questo caso, la superiorità potrebbe esser affermata. Tuttavia, metto in rilievo come la personalità di Philo Vance sia determinata dall’unione di una molteplicità di fattori (le 4 caratteristiche peculiari) : tra questi la sensibilità artistica ha un peso assolutamente non indifferente, e nel caso nostro è assolutamente determinante. Sensibilità artistica che in questo romanzo, pur facendo capolino qua e là, come se si nascondesse per non essere inquadrata come elemento caratterizzante del tutto, nel finale gioca un ruolo di primo piano.

Tutto questo per affermare cosa? Semplicemente che in questo romanzo, cosa trascurata colpevolmente da molti critici, il fattore più importanti di tutti, per determinare la colpevolezza di una tale persona in rapporto ad altre, è proprio la sensibilità artistica di Philo Vance. Che è sensibilità letteraria (di citazioni se ne trovano a bizzeffe, sia di opere latine, che francesi, tedesche), sensibilità verso le arti figurative, scultoree e di altri tipi di manufatti artistici, es. i tappeti, le porcellane. E ancor più, direi più manifestatamene in questo romanzo, la sensibilità artistica di Vance è sensibilità musicale.

Nel vissuto dell’indagine, si può apprezzare il peso della sensibilità artistica di Vance, nelle sue valutazioni relative alla idiozia di usare delle pergamente per confezionare un cestino per la carta straccia, poi alla fattura dei tappeti, e infine in valutazioni di tipo musicale.

Philo Vance è nell’appartamento della Canarina. E’ alla ricerca di qualcosa, ma non sa cosa. Sa chi possa essere l’omicida, anzi ne è sicuro dopo aver giocato a poker, con quelli che in questo dramma hanno un ruolo, cioè gli amanti della Canarina. Ma il sapere chi sia, non significa nulla, perché egli al momento non ha modo di provare come quella persona possa essere accusata del suo omicidio, perché una situazione assolutamente lampante lo metterebbe fuorigioco: una persona, estranea al gioco, che era con lui e che affermerebbe anche sotto tortura, assolutamente in buona fede, che l’omicida era in sua compagnia, in un certo momento. Ecco allora perché va a bighellonare a casa della vittima, assieme a Markham. E’ proprio in questa situazione che gli si accende la lampadina.

Tra tutti i gusti, quelli musicali di Vance, qui, hanno una importanza determinante: infatti se Vance non fosse edotto e conoscitore di musica classica, la soluzione gli sfuggirebbe. Nondimeno è da mettere in rilievo come, dall’altra parte, se l’omicida avesse seguito un altro iter di pensiero, sicuramente Vance non avrebbe avuto modo di provare la sua colpevolezza.

Entra in gioco, quindi un altro elemento, nella definizione delle responsabilità: il Fato; a cui non si sfugge:

  1. è il Fato a dettare il fatto che l’omicida abbia buttato una confezione nel cestino della carta straccia; ma, se questo fosse stato un cestino qualunque, Vance non si sarebbe interessato ad esso: egli nota che è fatto di pergamena. Per un altro questo particolare non significherebbe nulla, ma per uno come lui che ha una sensibilità innata per tutto ciò che è bello e fine, esteticamente parlando, quel cestino di pergamena è un affronto. Quindi decide di guardarvi dentro, e trova uno sgualcito foglio di carta da pacchi ed un largo involucro quadrato marrone.
  2. Se Vance non si interessasse di musica, non frequentasse i teatri e non si recasse a sentire concerti, non potrebbe arguire che si tratti di un involucro di dischi. A questo punto ecco che si affaccia il fantasma della musica: sarà la predisposizione musicale e i gusti dell’assassino e del detective a sancire la soluzione dell’enigma.

Vance chiede a Markham dove sia il grammofono (perché se c’è un disco dev’esserci un

grammofono). Saputa la risposta, lo cerca con lo sguardo. Il grammofono è nell’anticamera;

su di esso è appoggiato un tappetino sormontato da una boccia per fiori.

  1. Se Vance non fosse stato un esperto d’arte, non si sarebbe mai interessato a quel tappeto. Ma è anche da mettere in rilievo che se l’omicida per evitare che qualcuno guardasse dentro il grammofono non avesse messo un tappetino ed una boccia per fiori, probabilmente l’attenzione di Vance non sarebbe stata catturata. Egli nota infatti che è “..anatolico, probabilmente spacciato per un tappeto del Kaysari per ragioni puramente commerciali. Non vale un granchè, troppo simile al tipo Ushak..” (S.S. Van Dine, “La Canarina

Assassinata”, trad. Caterina Ciccotti, I Classici del Giallo, Barbera Editore, 2010, pag. 249).

Schifato dall’esteriorità priva di qualsiasi rilievo artistico e dettata solo dalla legge dell’apparenza, Vance si chiede quale musica mai sentisse La Canarina: “..Mi domando quali fossero i gusti musicali della signorina. Victor Herbert, senza dubbio”( idem, pag. 249).

Chi era Victor Herbert a quel tempo? Un compositore, animatore della vita musicale soprattutto newyorkese, autore di operette e anche di musiche molto conosciute, tipo “Serenades of All Nations”, cantate e danzate da ballerine. Comunque sia un tipo di musica alternativa a quella “seria”. Ecco che a questo punto si realizza il disegno del Fato che oppone la scelta sbagliata dell’omicida (ma sbagliata perché?) alla curiosità musicale di Vance:

  1. Se Vance non fosse stato un amante della Musica colta non sarebbe mai stato attratto da Beethoven: “…Parola mia! L’Andante della Sinfonia in Do minore di Beethoven! –esclamò allegramente. – Conosci sicuramente il motivo, Markham. Il più perfetto andante che sia mai stato scritto!” (idem, pag. 249). La sorpresa di Vance è ancora più marcata in quanto fino ad allora ha notato un senso estetico della Canarina quanto mai riprovevole ai suoi occhi: quindi i gusti musicali di Odell, Beethoven, sono per lui uno shock..positivo. E decide di sentire il disco.

Ma i gusti musicali della Canarina, scopriremo che probabilmente erano quelli ipotizzati in un primo tempo da Vance. Non è stata lei a mettere il disco con l’etichetta di Beethoven, ma..il suo assassino. Tuttavia egli non avrebbe mai potuto pensare che nella sfortuna di avere incontrato la Canarina, di esserne diventato accompagnatore e amante, e poi ricattato, egli sarebbe stato doppiamente sfortunato nell’aver fatto una scelta che in una situazione normale, sarebbe stata felice. La sfortuna sta nel suo caso, nell’aver incrociato dall’altra parte un fine esteta e conoscitore di arte e di musica come Vance: se ad accompagnare Markham fosse stato un qualsiasi altro tipo, dotato di comuni gusti estetici, nel 99% dei casi sicuramente non avrebbe mai voluto sentire Beethoven. La sfortuna quindi dell’omicida sta nell’esser stato opposto a chi era attratto proprio da quei gusti musicali.

Ecco perché nella soluzione de “La Canarina assassinata”, la propensione di Vance verso la sensibilità artistica, e soprattutto musicale, gioca un ruolo fondamentale. Non disgiunta, come abbiamo visto dalla casualità preordinata dal Fato.

Il Fato che è la Forza a cui soggiacciono uomini e dei; il Fato che, come un ingranaggio invisibile ma inesorabile, lega i soggetti alle loro azioni; il Fato infine che è l’interprete per antonomasia della grande tragedia greca. Questa, della Canarina, non è una grande tragedia ma una piccola. Pur sempre di tragedia tuttavia si tratta; e non di dramma. Il Dramma ha uno sfogo, che può essere positivo o negativo; la Tragedia invece non ha soluzioni positive: è sempre negativa, sia per gli innocenti che per i colpevoli. E qui i colpevoli e gli innocenti muoiono alla stessa maniera: è innocente Odell e colpevole X? Oppure è colpevole la prima e innocente il secondo? Niente di tutto questo: nel romanzo, colpevoli e innocenti si confondono, invece di esser ben demarcati.

E in quanto attori di una tragedia, i vari interpreti talora si muovono in quanto soggiogati da una volontà che è al di sopra di loro, e a cui non sfuggono.

Al Fato, per me, è collegato il riferimento musicale esplicitato dalla etichetta sul disco, l’Andante in Do minore, della 5^ Sinfonia di Beethoven: la tonalità di Do minore, che è di per sé una tonalità funerea, molto spesso usata per i Requiem (assieme al Re minore, più usuale), diventa in Beethoven la tonalità dell’eroe. La Sinfonia è però detta anche “del destino che bussa alla porta”: un altro riferimento al Fato. Al Destino. A qualcosa che sta per compiersi.

Alla fine del romanzo lo ammetterà lo stesso assassino che : “Ho pensato che se qualcuno, per qualunque evenienza, avesse aperto il grammofono prima che potessi tornare a distruggere il disco, difficilmente avrebbe desiderato ascoltare della musica classica, e avrebbe sicuramente optato per qualcosa di più popolare.

E doveva trovarlo proprio uno che detesta la musica leggera! Temo…che un destino maligno abbia presieduto a questo suo gioco.

Sì…se avessi delle inclinazioni religiose, potrei dire qualche sciocchezza sulla ricompensa e sul castigo divino.” (idem, pag. 261)

Di riferimenti musicali ve ne sono però anche altri, disseminati qua e là.

Intanto ve n’è uno che richiama Mozart. Nel cap. VII, leggiamo che la cameriera di Odell viene interrogata formalmente alla presenza di Vance da Markham e parla di un tale, un ex innamorato della Odell, che si vestiva all’ultima moda, che l’andava spesso a trovare e riusciva a scucirle sempre dei soldi.. Vance parlandone a Markham, poco dopo, usa un aggettivo italiano (nel testo il termine è scritto in italiano), assai poco usuale, che una persona che abbia una certa cultura, anche musicale, sentendolo, assocerà sempre a Mozart. Vance infatti dice: “..Quasi ogni Dalila dei giorni nostri ha un avido amoroso..” (idem, pag. 61).

L’aggettivo “amoroso” a me richiama in mente, subito, un’Aria di Mozart dall’Opera Le Nozze di Figaro, con cui termina il Primo Atto dell’Opera, e che comincia con : “Non più andrai, farfallone amoroso, notte e giorno d’intorno girando; delle belle turbando il riposo Narcisetto, Adoncino d’amor”. E sicuramente al “farfallone” mozartiano vuole idealmente riferirsi Vance, anche se lui usa il termine “gigolò”, in riferimento al fatto che il personaggio nominato, chiedeva soldi alla Odell (ma non la ricattava).

Nella stessa frase potrebbe celarsi anche un altro riferimento musicale: Vance, associa a Odell, il nome “Dalila”. Sappiamo tutti che Dalila era la Filistea, quasi una Mata-Hari dei tempi nostri, che tramite la sua bellezza riuscì a far invaghire di sé Sansone: il riferimento potrebbe essere riferito tuttavia anche all’opera lirica di Camille Saint-Saens : “Samson et Dalila”, che durante la Stagione 1915/16, era stata rappresentata a New York, al Metropolitan Opera, con Margarete Matzenauer (Dalila) e Enrico Caruso (Sansone).

Poi vi sono altri due riferimenti musicali.

Il primo è un brano per pianoforte solo. Prima infatti che Vance si interessi al cestino della carta straccia, ha notato un pianoforte, e sedutosi, vi suona l’attacco del “Capriccio n.1” di Brahms.

Il Capriccio n.1 è il primo di otto brani dell’op.76. E’ in Fa diesis minore, una tonalità che potremmo definire “dolorosa”, talora anche “straziante”: il diesis è come se accentuasse il dolore del Fa minore portandolo ad un punto di non ritorno. Potrei anche dire che per taluni, il Fa diesis minore è la tonalità della tragedia, ma la cosa sembrerebbe troppo voluta. Limitiamoci quindi al brano in sé per sé. E’ un pezzo in arpeggi, di grado abbastanza difficile. Che significa? Che Vance non è un semplice amatore delle cose belle, non è un dilettante erudito, ma un colto professionista: il pianoforte lo sa suonare, e suona per di più un brano difficile. In altre parole, anche la musica, come la pittura, la scultura, le conoscenze in porcellane, tappeti, etc.. non vengono mai praticate da Philo Vance esteriormente, ma sempre con un grado di conoscenza che lo qualifica non solo nei confronti del volgo ignorante ma anche nei confronti di altri esteti come lui.

Il secondo riferimento musicale attiene ad una cosa che mi si è mostrata lampante e a cui anni fa, quando lessi per la prima volta il romanzo, non detti importanza : la somiglianza, sicuramente non casuale, tra Margaret Odell, ballerina in rapida ascesa, e l’alter ego della Principessa Odette, interprete del famoso balletto musicato da Tchaikowsky: Odile, il Cigno Nero, la figlia del mago Rothbart che vuole sostituirsi a Odette per rubargli l’amore del Principe Derek.

Odile-Odell, non sono solo due nominativi molto simili, ma che sono anche collegabili, la prima alla seconda, anche per il fatto che si richiamano a due volatili: un cigno ed una canarina. Come il Cigno Nero con le arti magiche fa in modo che Derek la veda come Odette, quindi il male si traveste da bene, anche Odell che sembrerebbe essere pura come il suo canto, in realtà ha l’anima nera come il peccato.

Odile-Odell sono ambedue rapportabili quindi a Odette e insieme formano una triade ideale: Odile-Odell-Odette.

Odile e Odell ambiscono ambedue a identificarsi in Odette. Se all’identificazione di Odile, abbiamo accennato, vi è tuttavia anche quella nascosta di Odell: infatti la Odette di Odell è lei stessa trasformata in un personaggio positivo, che la società accetta e riconosce.

Considerando i tre personaggi, possiamo vedere come ad essi sia singolarmente ma anche nell’ambito del loro rapporto vicendevole, possa applicarsi la “Teoria del Desiderio Mimetico” di René Girard, soprattutto quando verifichiamo meglio quali siano soggetto, oggetto e mediatore.

Girard, trovò la caratteristica comune nella letteratura: il Desiderio. Il desiderio non è mai espressione diretta del soggetto, ma è il riflesso del desiderio di qualcosa da parte di altri. Nella sua espressione si affrontano due momenti alternativi: quando l’oggetto del desiderio è lontano, il soggetto (che desidera quello che vuole il mediatore) ed il mediatore possono coesistere in pace; quando invece l’oggetto del desiderio tra i due è vicino, sul loro stesso piano, emerge una conflittualità.

Così possiamo applicare la Teoria del Desiderio Mimetico anche al romanzo in oggetto.

Innanzitutto prendiamo in esame la Triade: Odette è l’oggetto desiderato, sia da Odile che ambisce ad identificarvisi per rubarle l’amore di Derek, sia metaforicamente da Odell, che vorrebbe trasformarsi da insulsa Canarina in un Cigno e possedere l’amore di un principe come Odette. Quindi in questo caso avremmo la “Mediazione esterna”: Odell desidera di essere Odette, ed il mediatore del desiderio è Odile, che a sua volta ambisce a trasformarsi in Odette. Mediatore e soggetto, sono un qualcosa di incompiuto, e come tale ambiscono a trasformarsi nell’oggetto del desiderio, tramite un raggiro (Odile si trasforma in Odette grazie ad una illusione, Odell ambisce a trasformarsi in Odette grazie ad un ricatto). Siccome Odette è un desiderio che può essere lontano, i due personaggi non si scontrano sul piano ideale.

Tuttavia se andiamo a verificare i due casi singoli, la mediazione è ancor più evidente:

in Tchaikowsky, per esempio, il soggetto che desidera è Odile, l’oggetto desiderato è il Principe Derek, mentre il mediatore del desiderio è Odette. Secondo René Girard, ricadremmo nella cosiddetta “mediazione interna” caratterizzata da un elevato scontro di carattere sempre più violento e parossistico man mano che le due sfere, i due desideri che tendono al medesimo oggetto, venissero a contatto. Una caratterizzazione simile, però, la ritroviamo anche nel romanzo di Van Dine, e più precisamente nel rapporto che lega Margaret Odell al suo oggetto. Anche qui troviamo applicata la “mediazione interna”: Margaret Odell, il soggetto, brama l’oggetto, che è la stabilità economica e sociale. Questo è anche l’oggetto del mediatore “X”. I due, soggetto (Odell) e mediatore (X) vengono in contrasto sull’oggetto del contendere e questo contrasto è tanto più forte quanto maggiore è la brama del soggetto, cioè di Odell, di possederlo. Così vengono a scontrarsi la voglia di un nuovo status sociale con la volontà che la stabilità del vecchio, coincidente con gli affetti familiari di “X”, venga mantenuta. Il contrasto è tanto più alto e tanto più senza uscita, perchè per piegare le difesa di X, ci si serve del ricatto.

Odile-Odell sono unite anche da un altro rapporto: entrambe sono ballerine, ma il loro rapporto col ballo è antitetico: per la prima, Odile, dalla tragedia scaturisce il ballo; per la seconda, Odell, dal ballo scaturisce la tragedia, dalle amicizie che lei ha costruito sulla sua attività di ballerina.

Sempre legato alla musica è l’uso del grammofono, fino ad allora espressione di un mondo frivolo, salottiero, che uscito dalla Prima Guerra Mondiale non si era ancora affacciato a quella che sarà la Grande Depressione del 1929. Fino ad allora, nessuno aveva mai pensato di servirsene per altro scopo che non fosse stato quello di riprodurre musica; dopo Van Dine, invece…

Voglio ricordare innanzitutto Agatha Christie e il suo And Then There Were None del 1939: qui il procedimento che sottende all’uso del grammofono è inverso. Infatti così come in Van Dine l’uso del grammofono è quello di creare un’illusione, cioè dimostrare al portiere dell’albergo che a quell’ora, la Canarina era ancora viva (mentre non lo era più), quella che si potrebbe definire coloristicamente “una voce dall’Oltretomba”, in And Then There Were None di Agatha Christie, la voce di Mr. Owen (il padrone di casa) incisa su un disco, e amplificata dal grammofono, vanamente aspettato dai dieci presenti, ha il compito di creare un’illusione opposta, cioè dimostrare alle dieci persone presenti, che la persona che parla attraverso la voce registrata sul disco, non sia materialmente presente in mezzo a loro, cosa che invece è.

Se tuttavia la Christie si serve dell’espediente vandiniano piegandolo ai propri interessi, in altra occasione, precedente al romanzo della Christie, l’illusione del grammofono viene ricreata con un oggetto che negli anni ’30 aveva in gran parte soppiantato il primo: la radio. Se ne serve Clayton Rawson per generare altra illusione, in Death from a Top Hat, 1938. E ancora precedente ai due, un altro romanzo, nel 1930, era ricorso all’espediente della radio, collegata però a dei grammofoni occultati: The Invisibile Host, di Bristow & Manning.

Infine, talora, Vance fa sfoggio anche di letture colte. Un caso è quello presente nel cap. VIII, laddove Vance e Markham continuano a disquisire in merito alle impronte lasciate nella neve: “Grau, teurer Freund, ist alle Teorie” declama Philo Vance. Il passo è uno dei più famosi del Faust di Goethe. Ma è solo la metà quello che cita Vance. Il passo intero sarebbe : “Grau, teurer Freund, ist alle Teorie, Und grün des Lebens goldner Baum”, cioè letteralmente : “Caro amico, tutta la teoria è grigia, e verde l’albero d’oro della vita”. Vance cita però la prima parte perché da lui viene adattata al discorso che sta tenendo a Markham , che verte sull’assenza di impronte sulla neve e sulla mancanza di testimonianze su chi le avrebbe dovute lasciare, cioè su come Markham non possegga né prove dirette né prove indiziarie (=la teoria è grigia).

Non è il solo passo. Ve ne sono parecchi altri.

Per es. ad un certo punto del cap.10, dice: “Forse sì. Potrebbe figurare come un moderno Cayley Drummle”. Chi è Cayley Drummle? Si dovrebbe conoscere il dramma di Arthur Wing Pinero, The Second Mrs.Tanqueray per sapere chi fosse, ma né Van Dine né i traduttori lo dicono. Il primo non lo dice perché nel colloquio che tiene a Markham, il senso del discorso eventualmente viene compreso; e del resto se i riferimenti cui alludesse non fossero criptici, non si potrebbe alludere alla enciclopedica cultura di Van Dine; i secondi invece non sciolgono il quesito perché probabilmente non lo sanno e non ritengono per forza di andarsi a sobbarcare di un inutile onere (neanche riconosciuto nel pagamento della traduzione, immagino).

Il punto però è che il lettore medio che legge Van Dine, trovandosi dinanzi a queste digressioni, a questi rimandi colti, a queste citazioni, non è tenuto per forza ad avere pari enciclopediche virtù di Van Dine e di Philo Vance. Per cui o il traduttore è così sensibile da andarsi a documentare oppure il lettore o dovrà farlo se vorrà cogliere tutto quanto espresso da Van Dine oppure sarà costretto a saltare a piè pari quando si troverà costretto a tali imbarazzanti confronti.

Tutto ciò mi da modo di mettere in risalto il fatto che contrariamente a quanto si dice, i Gialli di S.S. Van Dine non sono affatto così facili da leggere; tutt’altro!

Ancora, leggiamo:

E’ piuttosto tardi, l’ammetto, ma perché non acciuffare il momento opportuno per i capelli, come consiglia Pittico?

Perde la fortuna chi lascia la sua morsa

poiché calva è dietro, l’occasion trascorsa”.

Ma Catone il Vecchio ha anticipato Cowley. Nei suoi “Disticha de moribus” ha scritto: Fronte capillata..” (pagg.80-81, op. cit., trad. Ferrari).

Il distico attribuito a Pittico capiamo che dev’essere messo in relazione con Cowley. Ma chi è costui, direbbe Don Abbondio? Nessuno ci dice che è uno dei più grandi poeti inglesi del Seicento.

Meno male che il capitolo 10 finisce con Catone il Vecchio di cui almeno viene citata la fonte del riferimento, “I Distici” (anche se attualmente una parte della critica mette in dubbio che l’autore sia proprio Catone il Vecchio).

Così sappiamo che Vance, volendo cogliere l’occasione propizia al volo, il momento opportuno, non cita né Lorenzo il Magnifico né tantomeno Orazio (perché l’occasione propizia, il momento opportuno legato alla fortuna non è proprio pari al Carpe Diem nei due autori), ma Abraham Cowley e Marco Porcio Catone: il riferimento di Cowley risiede proprio nel distico catoniano: Rem, tibi quam noris aptam, dimittere noli: Fronte capillata, post est Occasio calva” (Non permettono ciò che consideri buono per le tue fughe; l’occasione ha i capelli sulla fronte, ma dietro è calva” Distici, Libro 1, 2,26).

Perché? Neanche questo dice Van Dine. Perché si aspetta che il suo lettore lo sappia o lo immagini: il fatto è che il distico catoniano è da mettere in relazione con la Dea Fortuna secondo i romani: cioè i capelli appesi sulla fronte e la nuca calva, oltre che essere sinonimi di giovinezza e vecchiaia, lo sono anche di buona e cattiva fortuna. Tuttavia “occasione=occasio” è espressa con il sostantivo latino che comincia con maiuscola, a significare un nome, che si riferisce ad una dea, l’Occasione, messa in relazione con quella greca Kairos (καιρός), una divinità minore del tempo:“il momento opportuno”.

Un breve discorso a parte merita invece il passo:

“– Forse perché ne era innamorato – sorrise Markham.

Un po’ come Ambra, eh?..

Pronta era Ambra prima di chiamarla:

Ambra venne, che un’altra io chiamavo”.

Neanche del distico inserito, Van Dine attraverso Vance informa il lettore. E siccome il traduttore di turno non si pone il problema cosa stia traducendo, ecco che il lettore deve accettare senza capire nulla o quasi di ciò che legge. Siccome io leggo sempre tutto il testo e mi soffermo sui passi, mi son posto il problema che altri non si son posti: chi era Ambra? Una creatura mitologica amata da Ombrone. Mi son ricordato di un poemetto in ottave che compose Lorenzo il Magnifico e che si chiamava Ambra. Possibile che..?

No. Non si tratta di quel poemetto. E allora..? A questo punto sento il bisogno di confrontare il passo originale: Van Dine ha scritto veramente Ambra oppure altro?

Mi corre in aiuto un mio amico d’oltreoceano, John Norris, blogger come il sottoscritto, che mi fornisce il distico in lingua americana (prima edizione, Scribner, 1927):

Abra was ready ere I called her name;

And, though I called another, Abra came.”

Abra quindi, non Ambra. Perché abbiano tutti tradotto Abra come Ambra è un mistero: Ambra in inglese (e americano) si dice Amber, non Abra.

Ecco allora che la provenienza è diversa: Solomon on the Vanity of the World. Book II, Verso 364, di Matthew Prior, un grande poeta inglese vissuto a cavallo tra il diciassettesimo ed il diciottesimo secolo, che viene immediatamente prima di Alexander Pope (chi fosse interessato al poema, ecco il link, perché è di pubblico dominio: http://www.poetrycat.com/matthew-prior/solomon-on-the-vanity-of-the-world-a-poem-in-three-books—pleasure-book-ii.).

Vance quindi modello di eleganza, di sensibilità artistica, di conoscenza della musica, di conoscenze letterarie, tanti concetti compresi in uno solo: erudizione, che in questo romanzo (anzi, nei romanzi) di Van Dine, è presente in gran quantità. Ciò può essere divertente, interessante, ma anche talora irritante.

Non diremmo noi stessi, impegnati a leggere le avventure di Philo Vance, in fondo, quello che dice il suo interlocutore ?

Andiamo! – supplicò Markham alzandosi. – Qualunque cosa pur di arginare questo profluvio di erudizione” (S.S. Van Dine, The Canary Murder Case, La Canarina assassinata – trad. Pietro Ferrari, I Gialli del Lunedì, L’Unità/Mondadori, pag. 81).

La traduzione di questo volume dei bassotti è di Pietro Ferrari (Mondadori).

PIETRO DE PALMA

Helen McCloy : Omicidio al telefono (Murder Is Everybody’s Business, 1951) – da “Ellery Queen presenta Estate Gialla”, Mondadori, 1964

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Molto tempo fa parlammo di quella che è considerata unanimemente ancora, la miglior scrittrice statunitense di crime fiction, Helen McCloy. Ne parlammo, introducendo forse il suo romanzo maggiormente ammirato, cioè Through a Glass, Darkly. Helen McCloy a riguardo di quel romanzo buttò giù uno dei romanzi più emblematici sul delitto impossibile. Tuttavia esplorò anche altri generi. Oggi parliamo di una novella, un romanzo breve, presentato sull’ Ellery Queen Mystery Magazine dell’ Aprile 1953, Murder Is Everybody’s Business.

Scritto nel 1951, questo romanzo breve, è presente solo in quel magazine, e in Italia, su Ellery Queen presenta Estate Gialla 1964, la primissima stagione mondadoriana. Infatti non fu successivamente compreso in altra silloge di racconti: nè in The Singing Diamonds and Other Stories, nè nella più recenteThe Pleasant Assassin and Other Cases of Dr. Basil Willing.

Amy Corbett è ritornata a casa, ma non ha trovato nè la madre Natalie nè il fratello Peter. Pertanto ben conoscendo la madre e supponendo stia prendendo il tè a casa dei Gregory con Esther, chiama al telefono. Tuttavia, diversamente da quanto si aspetti, nonostante chi risponde al telefono vada a vedere se la sig.ra Corbett sia reperibile, ella per un caso ode una conversazione privata tra due persone, che progettano un omicidio. Avendo capito che per un caso, non le hanno dato Casa Gregory ma la casa del suo amico Allan (ha infatti sentito un gatto miagolare, evidentemente il siamese di Allan), comincia ad essere inquieta, perchè la voce femminile le ricorda qualcuno che lei conosce, e d’un tratto associa ad Esther. Esther è sposata a Curtis Gregory, favolosamente ricco. Quindi se lei progetta con qualcun altro, la cui voce dura e roca lei non riconosce, di uccidere qualcuno col Nembutal, questo dev’essere per forza Curtis, per ereditarne il patrimonio e quindi sposare il suo amante.

Amy riserva la sua scelta del personaggio chiave a tre persone, che evidentemente sono le sole che possano incarnarne l’identità: l’amico Allan, medico condotto, che negli ultimi anni ha avuto successo tanto da ampliare e rimodernare la sua tenuta; il fratello Peter, e l’assicuratore MatthewPayne. E’ quest’ultimo che Amy sospetta. La sua ipotesi si tramuta in certezza quando vede lo sguardo magnetico dal quale sono soggiogati sia Esther che Matthew, quando si fissano.

Amy in sostanza cerca di portare dalla sua parte Murchinson, l’Assistente del Procuratore distrettuale, ma con delusione si accorge che sia Allan, il suo miglior amico, che il fratello  Peter, pur ammettendo che lei non ha mai detto bugie, rivelano all’autorità inquirente, che lei ha sempre avuto una fervida immaginazione. In sostanza, la smontano. Amy vorrebbe impedire l’omicideio di Curtis, che però è sinceramente innamorato della moglie e rifiuta ogni possibile ipotesi concernente un complotto a suo danno, anzi la difende e per tramite della sua amica, la madre di Amy, riesce a convincerla che Esther non è quelal che lei crede. Tuttavia sul più bello, un cadavere davvero viene scoperto: non è quello di Curtis, ma di Sharpe, una specie di tuttofare, che si occupa di fare anche il giardiniere: è lui che aveva risposto ad Amy al telefono, e quindi doveva aver visto chi Esther aveva incontrato. Sharpe è morto per una zoccolata della cavalla di Alan, la bestia più mansueta di questo mondo: si scoprirà che è stato ucciso da chi impugnando il ferro di cavallo, gli aveva dato un fatale colpo in fronte.

La sorpresa di Amy si ha quando capisce che non c’era stato nessun imbroglio sulla linea telefonica e che lei non aveva sentito i due complottare la morte di qualcuno in casa di Allan assente, ma in casa Gregory: che in sostanza non c’era stato nessun disturbo sulla linea, e la ricerca di sua madre era stata fatta proprio in casa di Curtis. Dev’essere stato qualcuno di intimo in quella casa, ed è per questo che Sharpe era stato ucciso, testimone scomodo.

Qunado Amy è sicura che payne sia il suo uono accade l’inverosimile: qualcuno nel giardinod ella villa, di notte, cerca di ucciderla e a salvarla è proprio Matthew. A questo punto tutto il castello di carte cade: Matthew condùfessa di non essere un assicuratore ma un agente assicurativo, che investiga sulla morte di Charley Maitland, un suo amico oltre che primo marito di Esther, la cui morte era stata classificata come incidente in casa (era caduto dalla carrozzella), e che si era tramutata in una rendita assicurata per la moglie. Payne sospetta che qualcuno abbia ucciso il suo amico, qualcuno mai ritrovato, in sostanza l’amante sconosciuto di Esther.

Un altro fatto inspiegabile accade: viene ucciso un gatto. Che male mai aveva fatto quella bestiola per essere sventrata?

Mettendo insieme la morte del gatto, la morte di Sharpe, una allergia al pelo del gatto che deve aver provocato la modificazione della voce di qualcuno, la morte di Maitland, e la tentata aggressione di Amy confusa con se stesso, Payne troverà il bandolo della matassa, anche se gli assassini la spunteranno nei confronti della giustizia, utilizzando quello stesso Nembutal che avevano sottratto precedentemente, suicidandosi uno nelle braccia dell’altro.

Si tratta di un romanzo breve dalla struttura singolare: comincia infatti come un thriller – Amy crede di conoscere l’identità di una dei due complottisti e immaginando chi possa essere la vittima, deve fare di tutto per salvarla – ma poi si trasforma in un mystery, quando il morto si trova, solo che non è chi si sarebbe immaginato, e bisogna capire perchè e per come sia stato ucciso.

La psicologia dei personaggi è appena abbozzata, ma siccome vi è una grande idea di fondo, che sconquassa il velo della rivelazione e crea un nuovo finale, con un secondo assassino impensabile, e soprattutto con una nuova seconda vittima che sarebbe dovuta essere immolata per coprire un vecchiod elitto, il lavoro scivola che è una bellezza. La fantasia immaginativa di McCloy per ribaltare la soluzione e crearne un’altra, è al massimo grado,giacchè con gli stessi personaggi e le stesse soluzioni, riesce ad imbrogliare il lettore facendogli  accettare una certa verità, che è invece assolutamente campata in aria perchè….

L’idea dell’allergia è assolutamente geniale, e spiega anche lo sventramento del gatto e anche la morte di Sharpe, perchè da essa dipende l’accertamento dell’identità dell’amante di Esther.

Pietro De Palma

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