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Pierre Boileau: Il Quadro maledetto (Le repos de bacchus, 1938) – trad. Aldo Albani – I Grandi Gialli Pagotto N.10 del 31 ottobre 1950

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quadroIl terzo dei grandi romanzi di Pierre Boileau è il mai dimenticato (ma in Italia sì), Le Repos de Bacchus del 1938 (tradotto in Italia, come Il Quadro maledetto nei Grandi Gialli Pagotto nel 1950: da allora nessuna traduzione da parte di altri).

Riportato in tutte le grandi serie di romanzi con Camere Chiuse, il romanzo propone 3 crimini impossibili: in sostanza una Camera Chiusa propriamente detta e due eventi impossibili.

Il romanzo, nella serie di Boileau, viene prima di Six crimes sans assassin, e questo ha la sua importanza, come vedremo.

André Brunel, l’investigatore risolvi enigma, non appare subito, ma solo dopo che i tre crimini impossibili sono già avvenuti: come in tanti romanzi di Agatha Christie, Brunel ricostruisce nella sua mente le modalità intercorse dei tre crimini, sulla base degli indizi e dei resoconti fornitigli.

In sostanza tutto si basa sulla collezione modesta in quantità ma eccezionale in qualità, che Gilbert de Moncelles, conte di Chaumigny, possiede: in gran parte quadri di pittori italiani: Lotto, Mantegna, Vivarini, Moroni e altri, tra cui il pezzo forte, Il riposo di Bacco di Leonardo da Vinci, quadro di eccezionale fattura pagato da lui, per sottrarlo all’acquisizione da parte dello stato italiano, un milione   e mezzo di franchi.

Il Conte ha destinato questi quadri su una parete di una stanza, mentre sull’opposta si aprono tre finestre che danno luce alla stanza; sui lati corti ci sono: l’entrata su uno e un caminetto sull’altra.

La collezione è la passione del conte: ogni sera fa mettere la poltrona davanti ad un diverso quadro, per poterlo ammirare nelle sue sfumature. Ovviamente il suo quadro preferito è Il riposo di Bacco

Il conte, anche per legittimo orgoglio, ha sempre permesso ai visitatori di ammirare le sue opere, e la vita nel castello è regolata in modo che due dei servitori, Auguste e Manuel siano a disposizione dei visitatori: uno controlla il passaggio, l’altro fa da cicerone e accompagna il visitatore nella visita che dura 40 minuti.

Un bel giorno arriva un tale Bras Roulé al castello. Vuole vistare la galleria, ma il lettore sa già quale sia il suo scopo: è di genere truffaldino. Ma quando lui getta la maschera, vediamo che ancor più criminale: infatti Roulè, spostatosi nella visita alle tele, dietro a Manuel, lo colpisce con una piccola mazza di piombo, fracassandogli il cranio e ferendolo mortalmente. Poi si mette all’opera, e quando sedici minuti dopo, Manuel riesce a dare, pur ferito gravemente, l’allarme e Roulè viene accerchiato e catturato dai servitori del conte, come indica lo stesso Manuel prima di morire, al conte esterefatto, Il Riposo di Bacco è sparito. Lo cercano ogni dove, ma non lo trovano. Perfino qualcuno si spinge ad ipotizzare nascondigli segreti. Persino un funzionario di polizia, dopo che è accorsa, si spinge a ipotizzare dei doppi fondi in alcuni quadri più grandi tali che una tela di 50×70 possa essere stata nascosta in una di esse. Macchè: non si trova e basta!

A distanza di una settimana mentre il conte non si da pace, un altro fatto inspiegabile accade: un uomo assale un poliziotto che è stato messo di ronda di guardia al castello, nel parco, lo immobilizza e mentre egli è ben immobilizzato e legato come un salame, l’uomo va ne cortile del castello e dopo meno di un minuto riappare con un involto piatto avvolto in tela cerata, sicuramente il quadro. Anche in questo caso l’allarme viene dato prima di quanto il malfattore si aspetti e così, spinto dai gendarmi verso l’alto muro di cinta e verso il cancello dalle alte sbarre, egli non avrebbe alcuna possibilità di fuggire; senonchè di fronte agli sbalorditi agenti, il quadro appare miracolosamente in men che non si dica, dall’altra parte del cancello e così il fuggitivo, senza che egli sia stato visto scavalcare muro o cancello.

Dopo sei mesi si celebra il processo a carico del ladro e assassino Bras Roulé che si è sempre rifiutato categoricamente di parlare, ed egli viene condannato a morte. Una volta messogli la camicia di forza, incatenato e portato nel carrozzone carcerario, che lo condurrà nella prigione dove poi avverrà l’esecuzione, egli non arriverà mai a destinazione perché… il cellulare, condotto da uomini estremamente fidati, dopo il rituale colpo di clacson che annuncia al guardiano l’arrivo, dopo che egli si precipita dopo un minuto, ad aprire il cancello, il cellulare è scomparso. Come è stato possibile? In meno di un minuto non può scomparire nulla e ancor meno un grosso cellulare, con dieci celle, cinque per lato, con un agente armato, e l’autista, tutti e due di provata fede ed esperienza. Si pensa ad allucinazione del guardiano. Ma il colpo di clacson l’ha sentito anche il direttore del penitenziario, e per di più dopo indagine accurata della polizia, fino al ponte a schiena d’asino, che porta dalla lunga via che va dal palazzo di giustizia, alla prigione, tutti gli esercenti dei negozi lì vicino, e anche il piantone della caserma, affermano che un cellulare è passato, ad una determinata ora su cui tutti sono precisi e concordi, che esso per poco non ha fatto incidente con un’auto ma che poi esso ha continuato a procedere spedito verso la prigione, solo che..alla prigione non è mai arrivato.

baccoSi giunge persino ad ipotizzare che una grande gru abbia potuto arpionare il mezzo, da una fabbrica posta esattamente di fronte alla prigione, e portarla dentro la fabbrica: ma poi i duecento operai se ne sarebbero pure accorti e allora…

Insomma nessuno riesce a trovare cellulare, uomini e il condannato a morte, né spiegare come sia potuto accadere.

A questo punto accade che Brunel torni a Parigi da un precedente viaggio, e il conte, non essendo la polizia riuscita a venire a capo del tutto, gli si rivolge. Fatto sta che proprio dopo che Brunel ha accettato di occuparsi della cosa, un tale uomo si presenti dal conte e dopo neanche tanti convenevoli gli dice di essere il capo della banda che compiuto i tre fati inspiegabili e come volevasi dimostrare gli offre di restituirgli la tela di Leonardo da Vinci a patto che il conte versi il riscatto di un milione di franchi, in un posto isolato della campagna, detto Il Calvario, per l’esistenza di una grande croce, il giorno dopo.

Sempre il giorno dopo, Brunel appena arrivato dal conte, prima che si sia fatto un’idea del tutto, viene fatto oggetto di un attentato: da un’auto in corsa, affiancatasi alla loro, parte uno sparo e Brunel viene gravemente ferito ad una ascella: solo per un caso non viene ucciso. La sera stessa, il conte dovrebbe versare il riscatto per riavere il suo Leonardo, e ancora sperava di poter non pagare se Brunel fosse riuscito a spiegare il tutto ma ora…

Eppure Brunel, con supremo atto di volontà, pur febbricitante, si fa rinchiudere nella galleria con una tela insignificante pressochè delle stesse misure di quella trafugata, e lì nei sedici minuti calcolati dal momento in cui Brunel si è chiuso nella galleria, come si chiuse nella galleria, Bras Roulé, avviene ancora una volta una sparizione impossibile: la tela scompare dal muro. Ancora una volta non si sa come essa sia potuta uscire: la porta era bloccata, le finestre sono nello stato come furono trovate sei mesi prima dopo la prima sparizione, bloccate dall’interno, e nel camino scoppiettante, la canna fumaria è troppo stretta. Eppure il quadro è scomparso e Brunel spiegherà come sia potuto accadere: una Camera Chiusa infernale.

E spiegherà anche il fatto inspiegabile del parco, e ancor di più la sparizione del cellulare.

E’ bene dirlo che Pierre Boileau prende in giro il lettore nei tre casi, perché, ovviamente, ci troviamo a tre abili messinscene: in tutti e tre i casi, si è attuata un abilissimo inganno, e almeno nei primi due fatti, sparizione del quadro, e sparizione dell’uomo da un posto e comparsa in altro (una sorta di bislocazione) il tutto è stato possibile con un’identico trucco: in sostanza il secondo mette Brunel nella condizione di ipotizzare il primo, più complesso. A volerla dire tutta, il trucco fa uso del raddoppio del suo elemento fondamentale.

Non avete capito. Sì lo so, ma svelare l’arcano non posso. Dico solo che Boileau inganna il lettore in maniera molto molto sottile. Non si tratta di nascondere un dato: no, i dati ci sono tutti. Boileau inganna il lettore, facendo uso della psicologia applicata: in sostanza chiunque al posto degli attori del dramma, una volta scoperta la sparizione del quadro, si sarebbe comportato alla stessa maniera. Anch’io beninteso, perché…

Nella soluzione c’è tutto il celebre enunciato sherlockiano: Quando hai eliminato l’impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, deve essere la verita’ (Il segno dei Quattro). Boileau amplifica e codifica il celebre enunciato, dividendolo in una triplice azione: Separare accuratamente il possibile dall’impossibile; escludere l’impossibile; concludere con gli elementi che rimangono (pag.72).

L’improbabile sherlockiano che è uguale all’elemento che rimane in Boileau, è il principio per cui tutti noi saremmo stati ingannati qualora ci fossimo trovati in simili condizioni.

La sottigliezza e la genialità della soluzione della Camera Chiusa (è la variante in cui scompare qualcosa da una stanza sigillata, come La coppa del cavaliere di Carter Dickson o La Spada del vescovo di Norman Berrow), contempla sia lo spazio ovviamente che il tempo quando il quadro viene ritrovato. Perché mai il ricattatore che fa rubare il quadro, invece di proporlo subito, fa passare sei mesi? Questo tempo dilatato, entra di forza nella soluzione, perché ha la sua importanza. E in questo caso spazio e tempo riguardano espressamente il furto e la ricomparsa sei mesi dopo. Se infatti il quadro venisse proposto l’indomani e dopo un tempo relativo, potrebbe accadere che ….

Pietro De Palma


Stuart Palmer – Hildegarde Withers: Morte tra le nuvole (The Puzzle of the Pepper Tree, 1933 ) – trad. Igor Longo – Il Giallo Mondadori N. 2719 del 2001

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Ogni anno aspetto l’estate per leggere finalmente in santa pace i miei adorati gialli.

Il primo libro di quest’anno è stato un Giallo Mondadori di sedici anni fa: Hildegarde Withers: Morte tra le nuvole, di Stuart Palmer.

Di Palmer ho recensito un romanzo anni fa, un gran bel romanzo, ma senza personaggio fisso; eppure Palmer fu famoso soprattutto per la serie con una delle signorine omicidi, la zitellona Hildegarde Withers, maestra elementare di Manhattan, che  operava soprattutto in coppia con l’ispettore della Squadra Omicidi della Polizia di New York, Oscar Piper.  Per cui rimedio, presentando uno dei romanzi meno conosciuti, e meno pubblicati, Hildegarde Withers: Morte tra le nuvole.

E’ un romanzo del 1933, The Puzzle of the Pepper Tree, il terzo di una serie più lunga di quanto appaia vedendo le uscite italiane su wikipedia:

La serie con MISS HILDEGARDE WITHERS:

1931 • THE PENGUIN POOL MURDER (Brentano’s, NY)
1932 • MURDER ON WHEELS (Brentano’s, NY)
1932 • MURDER ON THE BLACKBOARD (Brentano’s, NY)
1933 • THE PUZZLE OF THE PEPPER TREE (Doubleday, NY)
1934 • THE PUZZLE OF THE SILVER PERSIAN (Doubleday, NY)
1936 • THE PUZZLE OF THE RED STALLION (Doubleday, NY)
1937 • THE PUZZLE OF THE BLUE BANDERILLA (Doubleday, NY)
1941 • THE PUZZLE OF THE HAPPY HOOLIGAN (Doubleday, NY)
1947 • THE RIDDLES OF HILDEGARDE WITHERS (short stories 1934-46; Jonathan Press, NY) • MISS WITHERS REGRETS (Doubleday, NY)
1949 • FOUR LOST LADIES (Mill, NY)
1950 • THE GREEN ACE (Mill, NY) • THE MONKEY MURDER (short stories 1939-47; Mercury Publications, NY)
1951 • NIPPED IN THE BUD (Mill, NY)
1954 • COLD POISON (Mill, NY)
1963 • PEOPLE VS. WITHERS AND MALONE/with Craig Rice (short stories 1950-63; Simon and Schuster, NY)
1969 • HILDEGARDE WITHERS MAKES THE SCENE/with Fletcher Flora (Random House, NY)
1981 • ONCE UPON A TRAIN AND OTHER STORIES/with Craig Rice, ed. Harold Straubing (Gold Penny Press, Canoga Park, CA)
2002 • HILDEGARDE WITHERS: UNCOLLECTED RIDDLES (Crippen & Landru Lost Classics)

Infatti, Palmer, influenzato come altri romanzieri da Van Dine, firmò oltre che suoi lavori, anche alcuni in collaborazione con Craig Rice (vd. mio lungo articolo sulla scrittrice statunitense), pubblicandone alcuni anche dopo che la scrittrice era morta; ma il caso volle che anche nel caso della sua morte, il suo romanzo ultimo, non finito: Hildegarde Withers Makes the Scene, lo fosse da parte di Flora Fletcher.

Il romanzo si svolge in uno scenario reale.

L’idrovolante Dragon Fly che fa rotta da Los Angeles all’isola di Catilina, porta a bordo nove persone: una di queste è Roswell Forrest, un cittadino coinvolto suo malgrado, in quanto dipendente, in una storia poco chiara di appalti cittadini e per questo deve comparire dinanzi ad una commissione cittadina: per questo motivo parecchia gente vorrebbe che non parlasse. Avrebbe dovuto prendere il battello per Catilina, ma arriva in ritardo e pertanto è costretto a prendere l’idrovolante. Gli altri compagni di viaggio sono un’avvenente bionda Phyllis la Fond (col suo cagnolino Mr Jones); due sposini in viaggio di nozze, i coniugi Deving; il comandante Narveson, che comanda un battello; Girard Tompkins, proprietario di una fabbrica di vasi; il famoso cineasta Ralph Tate e due suoi collaboratori George Weir e Tony Morgan.

Al comando dell’idrovolante Chick Madden e Lew French, piloti.

Durante il viaggio, Forrest si sente male, tanto che il pilota gli si siede vicino (perché c’è un posto vuoto) per rassicurarlo, ma invano. Infatti, arrivati a Catilina, i due piloti si accorgono che è morto.

Il tipo pare che soffrisse di cuore, e siccome non ci sono né ferite né escoriazioni la cosa più semplice da pensare è proprio che sia morto per attacco di cuore; e questa diagnosi si vorrebbe che il medico del posto James O Rourke assistito dall’infermiera Olive Smith, rilasciasse; e d’altronde lui è il primo che protende per tale ipotesi. Per sfortuna loro, a Catilina si trova per una vacanza, Miss Hildegarde Withers, zitellona impicciona ma geniale, che ha aiutato già a risolvere due casi di omicidio, l’ispettore Oscar Piper della Polizia di New York. Hildegarde che è una maestra di Manhattan che ha come hobby quello di trovare assassini, fiuta l’omicidio. Io avrei pensato come tutti ad un attacco di cuore, se mi fossi trovato lì: ma io sono io e lei è Miss Withers (è il suo sesto senso a farle dubitare del normale). Sarebbe troppo bello se un testimonio, inviso a politicanti corrotti e gangster, morisse di morte naturale. Pertanto la zitella chiede che se ne occupi il medico legale, e il coroner (in sua mancanza il capo della polizia Amos Britt). Nessuno le crede, tutti la bollano come una vecchia zitella impicciona, e solo una persona, Barney Kelsey, guardia del corpo di Forrest, che ha preso il battello tramite il quale è giunto a Catilina.

La zitella sospetta che qualcuno possa avere avvelenato il testimonio, ma non si sa con cosa: sarà stato il pilota? Oppure il cineasta che gli ha fatto bere qualcosa da una fiaschetta che porta sempre con sé? Ma entrambi sembrano essere al di là dei sospetti, nonostante la fiaschetta in realtà è davvero truccata, contenendo due bottigliette distinte, con due diversi tipi di Scotch: uno ottimo (che beve lui) ed uno scadente (che propone agli altri).

Nessuno le crede, e tra questi anche il medico che dovrebbe fare un’autopsia che non vuole fare. Fatto sta che mentre tutti sono andati a ballare al Casinò di Catilina, compresa Miss Hildegarde, qualcuno ruba il cadavere dall’ambulatorio di Rourke, e lo porta altrove tramite una carriola che poi si ritroverà in mare.

Da quel momento si scatena la caccia al cadavere, tanto più che un idraulico ha trovato in un collettore dei tubi di scarico dei bagni del Casinò, due pacchetti interi di gomme da masticare. Lei fa di tutto perché vengano analizzati, e successivamente si scopre che i chewin-gum, che non corrispondono alla marca della carta in cui sono incartati, sono impregnati da aconitina e digitale, in tale quantità da ammazzare un cavallo. Tuttavia il cadavere non si trova.

Lo cercano in acqua, sulla terraferma, rivoltano un campo da golf, sconvolgono un vecchio cimitero indiano, sondano una serie di canyon presenti nell’isola: addirittura durante una di queste perlustrazioni, Hildegarde accompagnata dalla sua vicina di stanza Phyllis, una ragazza ventenne che ha vissuto già troppo, e campa facendo la mantenuta, è sorpresa da una perturbazione.

La scomparsa del cadavere ha finito per spostare Britt dalla parte di Withers che è l’unica capace di trovare corpo e colpevole, tanto più che della morte si è impadronita la stampa e le autorità di polizia premono perché le indagini giungano a buon fine.

In questo turbillon di eventi, si inserisce Kelsey, che ha una condotta ambigua, tanto da insospettire Britt (ma non Hildegarde), e Patrick Mack, un tipo a metà tra politicante corrotto e gangster che sospetta la zitella, deve essere il mandante dell’omicidio, probabilmente lì per pagare il killer. Tenendolo d’occhio, Hildegarde viene in possesso di una busta contenente quindicimila dollari, il prezzo secondo lei dell’omicidio.

Affrontato Mack e messolo al muro, la zitella fa male i suoi conti e si ritrova bell e imbavagliata chiusa in un armadio della camera del gangster, in attesa di esalare l’ultimo respiro. La sua fortuna è che qualcun altro, il killer, non avendo ricevuto il compenso pattuito, uccida il gangster, simulando il suicidio: tuttavia il guanto di paraffina dà esito negativo sul cadavere, e del resto su nessuno dei dieci sospettati (piloti e viaggiatori) vengono trovate tracce di polvere da sparo (che supera anche i guanti di pelle e di gomma).

Tuttavia il killer, che agisce con un complice, verrà individuato da Hildegarde, sulla base di un tenue indizio, una cosa rivelatale da Phyllis, che nel frattempo si è innamorata di Kelsey (ricambiata), così come Olive del suo medico, non prima che il cadavere venga ritrovato dalla sagace Hildegarde, sotto un albero del pepe (Pepper Tree) che qualcuno di notte ha tolto dal terreno, non rimettendolo nell’esatta posizione iniziale, cioè con le fronde rivolte non verso il mare, così come è dopo. Hildegarde l’aveva, prima che accadesse la tragedia, ritratto su un album da disegno ed il raffronto tra le due posizioni della pianta rivela alla furba maestra una possibilità rivelatasi vera: tuttavia il corpo, in decomposizione e sfigurato dalla carica acida del terreno vulcanico dell’isola di Catilina, rivelerà consistenti tracce di veleno.

E sarà Oscar Piper, arrivato giusto per l’epilogo, a riuscire ad arrestare uno degli assassini, mentre tiene sotto tiro tutti i presenti (altri viaggiatori e poliziotti).

Ah, già. Me ne dimenticavo. Il cadavere non era di Forrest, perché Forrest è in realtà…

Questo lo lascio all’intuito del lettore. Io c’ero già arrivato, per intuizione. All’assassino, anzi agli assassini, no. In un certo senso gli assassini scendono dal cielo. Perché l’indizio che lega uno dei due al primo delitto, è molto sottile, ed nella rivelazione di Phyllis che aveva visto qualcuno durante il viaggio. Durante il romanzo ad uno dei due si guarda, perché aveva lasciato una certa traccia, ma poi il tutto era stato superato dalla convinzione che lui, proprio lui, non poteva essere l’assassino, mentre lo è. Il secondo assassinio, è più impossibile che il primo, perché l’escamotage usato dal killer è tale che egli svanisca, in un certo senso, perché le tracce lasciate dalla polvere da sparo non hanno potere sul collodio. Ora questo effetto francamente non so se sia stato inventato da Palmer oppure no: è vero però l’uso medico del collodio che in effetti forma una sottilissima pelle che aderisce alla pelle stessa, quanto unito all’olio di ricino.

Al di là di questo, il romanzo è godibilissimo: il merito è dato dalla scrittura, a metà tra l’ironico e il sarcastico, da una girandola di situazioni che fanno vibrare la storia, e dal plot strutturato in due delitti, che sono al limite del delitto impossibile. Infatti finchè non viene ipotizzato l’uso del chewingum come antinausea negli attacchi di mal d’aria, nessuno aveva capito come il delitto avesse potuto aver luogo. Il secondo è ancora più difficile da collegare, in quanto le informazioni sono tenute nascoste sino alla fine, sulla ex professione di uno dei due responsabili. In questo sicuramente Palmer non è leale nei confronti del lettore.

Però il primo omicidio è molto difficile da inquadrare in quanto la vittima aveva preso il volo perché in ritardo: in sostanza se è stato ucciso con premeditazione, come ha fatto l’omicida a sapere che in effetti Forrest, anzi lo pseudo Forrest avrebbe veramente preso quel volo? Questo è il punto, che poi viene risolto sempre alla fine.

Hildegarde Withers è un personaggio originalissimo che non ha eguali: Palmer disse che il soggetto l’aveva tratto dalla sua maestra elementare. La seguente è una specie di rivelazione sulle sue origini, in una lettera scritta a Fred Dannay nel 1949: “The origins of Miss Withers are nebulous. When I started Penguin Pool Murder (to be laid in the New York Aquarium as suggested by Powell Brentano then head of Brentano’s Publishers) I worked without an outline, and without much plan. But I decided to ring in a spinster schoolma’am as a minor character, for comedy relief. Believe it or not, I found her taking over. She had more meat on her bones than the cardboard characters who were supposed to carry the story. Finally almost in spite of myself and certainly in spite of Mr. Brentano, I threw the story into her lap. She was based to some extent on Fern Hackett, an English teacher in Baraboo High School who made my life miserable for two years. Once I came to get her permission to transfer to another class and she said okay, only she’d be lonesome and bored without our arguments; that I was the only student in the class whom she thought enough of to bother with. I think she started me as a writer. Fern was a horse-faced old girl, preposterously old-fashioned, fine old New England family run to seed, hipped on Thoreau and Emerson.”

Come personaggio, forse solo Miss Silver di Patricia Wentworth e Miss Marple di Agatha Christie le si avvicinano: però sono pur sempre persone dolci ed riservate, tipici tipi inglesi, non il tipo yankee di Hildegarde, impicciona, invadente e anche autoritaria. In questo non ha eguali nel panorama di detectives del tempo, imperniati quasi tutti sul personaggio di Philo Vance. Un altro vandiniano assai poco conosciuto e sconosciuto in Italia, Torrey Chanslor derivò probabilmente da H.Withers, The Beagle Sisters, Amanda e Lutie. Non ha nulla di Philo Vance questa maestra, e non ha neanche la cultura enciclopedica.

Gli unici due caratteri che indicano la derivazione di Palmer da Van Dine, sono: l’accoppiata detective dilettante-poliziotto, la struttura del titolo dei romanzi.

Hildegarde Withers e Oscar Piper, ripropongono l’osannata coppia Philo Vance-Markham, riportata anche da Ellery Queen (Ellery/Richard Queen), e variata da C.Daly King e Anthony Abbot nella sintesi delle due figure in una sola che è nel primo caso un Tenente di polizia, Michael Lord, e nel secondo addirittura un Commissario, Thatcher Colt.

Il titolo di alcuni romanzi, quelli dal 1933 al 1941, riprendono, variandolo, lo schema di Van Dine ( The + Nome identificativo che varia ogni volta + Murder + Case ), come aveva già fatto Ellery Queen (The + Nome e Aggettivo identificativi del romanzo + Mystery), e A. Abbot (About + The + Murder + of + Nome + Aggettivo identificativi del romanzo). Infatti lo schema del titolo di Palmer in una serie di quattro romanzi è : The + Puzzle + of + Nome (+ Aggettivo).

Il romanzo è interessante anche per altri motivi: innanzitutto per il mezzo usato. L’idrovolante fino ad allora non era stato utilizzato per commettervi un omicidio, anche se un aeroplano è il luogo dove, in alcuni romanzi anni ’30, può avvenire un omicidio: Delitto in  cielo (Death in the Clouds), di Agatha Christie, è del 1935; Il dramma della carlinga o Morirai a mezzogiorno (Obelists Fly High) di C. Daly King è del 1935; Il mistero dell’idrovolante, di Franco Vailati, è del 1935. In sostanza quindi il romanzo di Palmer parrebbe che sia stato il primo ad aver posto un assassinio in un aereo. Inoltre il romanzo ha affinità con altri:

per il cadavere che scompare, almeno con La dama della Morgue (The Lady in the Morgue, 1936)di Jonathan Latimer o con The Corpse Steps Out, del 1940 di Craig Rice;

per il luogo chiuso dove sono sedute delle persone, almeno tra i vandiniani, con l’Ellery Queen di The Roman Hat Mystery, 1929  o con il  F.G.Parke  di First Night Murder, 1931; oppure con il Carr di  The Black Spectacles, 1939

per il mezzo di trasporto, con altri scrittori vandiniani: Ellery Queen (The Tragedy of X, 1932: autobus; The Four of Hearts, 1938: aereo ) e Charles Daly King (The Obelists Fly High, già ricordato, ma anche Obelists at Sea, del 1932 in cui il delitto avviene su un nave, e Obelists en Route, 1934, in cui il delitto avviene su un treno); Rufus King (parecchi romanzi si svolgono su navi)

per la parola Puzzle nel titolo soprattutto coi romanzi ad enigma di Patrick Quentin degli anni 30’-40’ : Puzzle for Puppets,  A Puzzle for Fools, Puzzle for Players, Puzzle for Wantons etc..

Insomma, un romanzo che appaga sotto molti aspetti, non fosse altro per l’humour nero e i toni da commedia che pervadono lo storia, e che lo apparenta anche ad opere cinematografiche degli stessi anni, per es. Arsenico  e Vecchi Merletti di Frank Capra.

 

Pietro De Palma

James Hadley Chase – La tratta delle bianche (Miss Callaghan Comes to Grief, 1941) – trad. Mauro Boncompagni – Il Giallo Mondadori Extra N.27, Agosto-Settembre 2017

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Miss Callaghan Comes to Grief è tutto fuorchè un libro pornografico. Tuttavia nel 1941, il romanzo (il quarto in ordine cronologico) fu bollato come tale, e per settant’anni è rimasto un grande punto interrogativo. Persino a tutt’oggi, nell’ Inghilterra del XXI secolo, dove di prostitute sono pieni i marciapiedi delle periferie, quando non le case tenute da mistress, il romanzo è ancora vietato. Eppure, ripeto, di pornografico non ha nulla. Nel 1941,  il lettore che avesse voluto leggere davvero qualcosa di pornografico aveva l’imbarazzo della scelta. Poteva persino leggere Opus Pistorum di Miller, che non è un romanzo allusivo, è proprio pornografia pura. Talmente pornografico, da fa sorridere per certe situazioni al limite. E allora, per quale motivo questo romanzo di James H. Chase fu tolto di mezzo?

Non so. Ma potrebbe essere per aver descritto, in maniera troppo veritiera, l’ascesa di un delinquente in un mondo di corruzione; oppure per essere stato estremo nella sua violenza: una specie di Mickey Spillane ante litteram.

Chase era da poco salito agli onori della cronaca, per aver scritto nel 1939 un romanzo quale No Orchids for Miss Blandish, un Hardboiled che trattava di un rapimento, che ebbe un successo travolgente e consacrò Chase. Quindi al tempo di Miss Callaghan Comes to Grief,  era uno scrittore sulla bocca di tutti, uno come – facendo un paragone esemplificativo – un Glenn Cooper o Ken Follett o Dan Brown di oggi. Perché un suo romanzo fu bollato come pornografico e sopportò un ostracismo così marcato?

Cominciamo col dire che è un hard boiled duro, antipatico, violento, e forse anche un po’ noioso all’inizio, per la ripetitività di certe situazioni, anche se in seguito diventa sempre più appassionante.  Il titolo italiano è fin troppo esplicativo e abbastanza indelicato (“La tratta delle bianche”, neanche troppo originale) laddove quello originale era abbastanza ironico, cinico quasi: Miss Callaghan Comes to Grief ossia “Miss Callaghan si fa male”.

Chi è Miss Callaghan? E’ una puttana che adesca per strada e ha la sfortuna di adescare il tipo sbagliato, cioè Raven, un piccolo ma agguerrito gangster che, venuto da Chicago, ha chiesto a Mendetta, il gangster che detiene nella città il traffico della prostituzione, di poter entrare in società con lui, ricevendo rifiuto. Per la qual cosa gliel’ha giurata, e quella povera donna fino al momento che viene strangolata, non capisce di aver scelto l’unico cliente che non avrebbe dovuto adescare. Perché Miss Callaghan è solo il primo passo di Raven per impadronirsi del racket di Mendetta.

Il romanzo ha un inizio folgorante, in un obitorio che ricorda in certo senso The Lady in the Morgue di Jonathan Latimer e  non è detto che non la citi volontariamente.

In città fa caldo, talmente caldo che uno diventa pazzo (come è stato in questo pazzo agosto, da noi, in Puglia). Fa così caldo che due giornalisti Phillips e Franklin del  St. Louis Banner, concepiscono la più pazza delle idee per trovare refrigerio: passare la notte nell’obitorio della città. Sanno come entrare (Phillips conosce il custode) e quindi in breve tempo si ritrovano loro due, e il tassista che li ha condotti sino lì, in quell’ambiente di marmo, gelido, in cui aleggia un vago sentore di decomposizione ed uno forte di formaldeide: seduti sulle panche di fronte ad una serie di sarcofagi neri (le celle frigorifere), un po’ per noia un po’ per curiosità, cominciano ad aprire le celle e a guardare i defunti. Vorrebbero trovare una bella donna, e alla fine la trovano: bella, giovane, con un corpo sexy, uccisa per una pugnalata.

Quella ragazza, morta nel fiore degli anni, che il cartellino indica essere stata una prostituta, fornisce ai due giornalisti il “la” per ricordare la storia di Raven e delle sue ragazze.

A questo punto comincia il vero e proprio romanzo, che nella versione originale, si compone di due parti, come in quella italiana: in sostanza la prima illustra l’ascesa di Raven, la seconda la sua fine.

Raven è un piccolo gangster, sadico, cattivo sino nell’essenza e avido. Con lui si muovono tre uomini: Maltz,Lefty, Little Joe, che formano la sua piccola ma agguerrita gang. Uomini abituati ad uccidere, che sono fuggiti con lui da Chicago, dove l’aria era divenuta irrespirabile.  Ha deciso di soppiantare Mendetta e creare un impero basato sulla prostituzione.

Mendetta gestisce il Club nella 22^ strada assieme a Grantham, ma chi comanda è lui: Grantham dirige il posto, famoso perché si balla, ma in realtà all’ultimo piano è attivo un bordello dove le ragazze vengono comandate da una megera di colore, Carrie, una maitresse implacabile che per avere l’obbedienza delle ragazze non esita a batterle con una sottile stecca di balena sulla schiena.

La cosa va avanti sino a che non entra in ballo Jay Ellinger, un giornalista di cronaca nera del St. Louis Banner.

Gerry Hamsley è un meccanico che arrotonda facendo il gigolò e opera nel club di Grantham. Per settimane si è cotta la moglie di Poison, l’editore del St. Louis Banner, una vecchia megera che non ne può più e intende farsi il giovane accompagnatore; sul più bello però lui ha un moto di stomaco a guardarla e scappa lasciandola in auto fuori di sé. L’essere stata abbandonata, fa andare fuori di senno la donna che accusa Hamsley di averla violentata. Poison, pur di farla stare zitta, chiede a Harry, il direttore, di scavare alla ricerca di scheletri negli armadi di Grantham, perché vuole distruggere lui e Hamsley. Harry si rivolge a Jay Ellinger, che comincia a scavare.

Ben presto però l’azione dovrebbe finire, perché lo stesso Poison viene a sapere che il socio di Grantham è Mendetta, il capo di una gang dedita alla prostituzione; e del resto lui, Poison, ha investito metà del suo capitale negli affari di Mendetta. Ma Ellinger non ubbidisce perché è venuto a sapere delle cose: un tale Fletcher ha accusato Grantham di aver rapito sua figlia e averla indotta a prostituirsi mediante frustate inflittele all’ultimo piano: lui ha visto come trattano delle ragazze all’ultimo piano, essendo riuscito ad  arrivare molto  vicino al luogo. Ma nessuno gli ha dato credito, tranne Ellinger, che ha saputo queste cose tramite un tipo che vende auto, Parminger. Parminger, abita nello stesso palazzo di Mendetta, sullo stesso piano, di fronte; e ha una moglie incredibilmente graziosa, ma che non riesce a rendere felice, essendo chiuso nella sua meschinità, di “gallo” latino, sempre a fare commenti grassi sulle doti fisiche di tutte le donne che incontrano, facendo montare una rabbia repressa nella moglie.

Ellinger si reca da Fletcher che gli racconta filo per segno tutto.

Raven ha deciso di uccidere Mendetta.

Prima uccide Miss Callaghan. Poi parla con Jean Mendetta, sua moglie, stanca di essere usata come una schiava: in sostanza si allea con loro. Mendetta ha il suo appartamento guardato a vista da una serie di guardie armate. Jane ne allontana una, e fa entrare Raven, sicura che lui la libererà da Mendetta: non sa che Raven, dopo aver ucciso Mendetta ucciderà anche lei.

Il caso vuole che Raven sia visto da Sadie Parminger, la moglie di Bill Parminger: dopo un’ennesima lite, dopo che lei si è rifiutata di fare l’amore con lui, lui se n’è andato e lei è sola. E’ la sua fine, perché Grantham, che sospetta essere accaduto qualcosa, ha chiesto ad un poliziotto corrotto sul suo libro paga, di andare a curiosare nel palazzo. Dopo aver visto la mattanza nell’appartamento di Mendetta, vede la coinquilina Sadie Parminger che si lascia sfuggire di aver visto Raven, uscire insanguinato dall’appartamento, dopo aver sentito degli spari. Il poliziotto, capisce che può essere una cosa esplosiva e quindi dopo aver parlato con Grantham, convince la donna a deporre, ma invece di condurla in una stazione di polizia, la conduce laddove la narcotizzano e portano all’ultimo piano del Club di Grantham, dove Carrie usa “le buone maniere” con lei frustandola ogni giorno finchè lei accetta di prostituirsi. Grantham, che ora è sul libro paga di Raven, intende non dichiararla come le altre ragazze, perché intende servirsene come  extrema ratio per incastrare Raven al momento opportuno.

Raven però riesce ad impadronirsi di Sadie e ne fa la sua concubina dopo averla torturata versandole addosso olio di trementina.

Qui finisce la prima parte: Raven ha coronato il suo sogno di diventare qualcuno e ha messo le mani sul piccolo impero di Mendetta, trasformandolo in un Impero colossale, stipendiando reclutatori che rapiscono ragazze sole, senza fidanzato né parenti,e le mandano a prostituirsi in bordelli, avendo preventivamente ripulito le strade dalle prostitute, perché attraverso i bordelli le ragazze e i loro profitti siano più facilmente gestiti. Quando le ragazze si rifiutano di farlo, vengono convinte sfigurandole col vetriolo.

La seconda parte di apre con l’assassinio di Spade, il capo di una ditta di taxi, associato al sindacato die tassisti ed influente in città: anche lui traeva vantaggio dalla prostituzione nelle strade perché clienti e battone usavano i suoi taxi per recarsi negli appartamenti; ora però il traffico e quindi i ricavi si sono drasticamente abbassati e quindi Spade, che  un tipo furbo, vuole essere pagato da Raven.

Raven per tutta risposta, avendo sul libro paga poliziotti corrotti, Grantham, persino un giudice che aveva sempre fatto rilasciare le battone di Mendetta ad ogni processo, non vuole trovarne un altro e quindi lo fa uccidere.

Intanto Fletcher è stato fatto uccidere, Sadie è diventa suo malgrado l’amante di Raven, e Bill Parminger ha perso ogni speranza di rivedere sua moglie perché si è convinto del fatto che sia stata lei a lasciarlo di sua volontà e non perché rapita. Ellinger, pur essendosi dimesso pur di essere libero di mettere la parola fine a tanto scempio, si trova da solo a dare la caccia a Raven. Saputo dove abita Raven, assieme ai suoi uomini, si installa sullo steso piano, e riesce rocambolescamente a salvare la vita a Sadie dopo che Lou, il braccio destro di Grantham ha tentato di ucciderla. Avendone ottenuto la collaborazione, si mette in contatto con la FBI, già da tempo sulle tracce di Raven.

Ora i fatti si succedono con ritmo incalzante.

Grantham e Lu (il suo braccio destro), mentre stanno cercando di eclissarsi, dopo aver saputo che Ellinger ha salvato la vita a Sadie e questa probabilmente sta spifferando tutto, vengono assaltati da tutte le donne che a mani nude li fanno a pezzi, per poi scannarli.

Raven dopo aver saputo la notizia vorrebbe rientrare nel suo appartamento ma viene a spaere che è presidiato dalla polizia e che Sadie ha parlato: ha in tasca solo duecento dollari, eppure nella piccola cassaforte del suo appartamento c’è un milione di dollari in contanti. A questo punto concepirà un piano disperato per rientrarne in possesso, a suon di mitra e dopo una serie di vicende, lasciando il suolo lastricato di cadaveri, finirà per essere arrestato per aver voluto “farsi una pollastrella” che credeva che lui fosse un regista. E da lì si ritroverà sulla sedia elettrica, con Sadie che gli riserverà un oltraggio post mortem.

E’ un hardboiled disturbante, e cattivo, che testimonia l’ascesa e la caduta di un piccolo gangster, che uccide, violenta, tortura non solo perché costretto ma anche per piacere.

Prima parte un po’ noiosa e ripetitiva, poi, dalla seconda, il ritmo si acuisce, l’azione diventa frenetica., fino al climax, come in una tragedia greca, in cui tutti i mali che i malvagi riversavano sulle creature indifese oltre che su altri lestofanti, vengono,  come una pena del contrappasso, restituiti “ai legittimi proprietari”: Grantham e Lu linciati da una folla di menadi assetate di sangue; Maltz, Little John e Lefty, uccisi in un conflitto a fuoco; Raven, bollito sulla sedia elettrica.

Il romanzo non dice cosa accada a Sadie, se ritorni dal meschino marito oppure no; dice cosa accade a Jay Ellinger, questo sì. Lui, il Don Chisciotte che si è gettato contro i mulini a vento, solo contro tutti e che alla fine ha vinto, rischiando di essere ucciso, è premiato e arruolato nella FBI.

E’ lui l’unico puro, l’unico eroe buono, in un romanzo di malvagi, corrotti, sadici, sfruttatori, avidi, traditori (poliziotti e giudice, hanno tradito il loro giuramento di difendere i cittadini; l’editore, di dire la verità sui suoi giornali), di donne indifese, rapite, violentate, e di donne cattive e dure, come Carrie.

Il romanzo si muove tra citazioni volute o non, dalla visita all’obitorio già citata (con annessa paventata necrofilia o quasi) di The Lady in the Morgue di Jonathan Latimer (1936), all’ascesa di un piccolo gangster (come non ricordare Little Caesar , del 1929, di W.R. Burnett, il romanzo che lanciò il genere Hardboiled, da cui Mervyn LeRoy trasse un memorabile film con Edward G. Robinson), all’azione impavida di un giornalista che si improvvisa detective dopo essersi dimesso, pur di denunciare un modo fatto di corruzione, disonestà e malvagità (come non ricordare il capolavoro di Horace McCoy, No Pockets in a Shroud, del 1937, in cui c’è a sua volta il giornalista Mike Dolan, altro Don Chisciotte che si lancia contro i mulini a vento del malaffare?).

Il romanzo fu tacciato di pornografia, ma di pornografia non ha nulla; semmai è violentissimo, nauseante nella sua isteria, morboso. Prima parte un po’ noiosa,; seconda, frenetica, fino al massimo.

Hardboiled con movenze di Thriller.

Disturbante per l’elevata carica di cattiveria, odio, malvagità, avidità, corruzione, ma appassionante per vedere come tutti i mali di questo mondo, riuniti in un romanzo, siano prima usati per sfruttare, e poi come in un contrappasso siano rivolti contro gli stessi sfruttatori.

Si gioisce quasi quando le ragazze tutte coalizzate, fanno a pezzi i cattivi: il male viene sempre sconfitto. Ma l’odio no. Chi ha avuto la vita distrutta, cova un odio che non si ferma neanche davanti alla morte. L’oltraggio a Raven, cotto sulla sedia elettrica, è anche l’oltraggio riservato a Claretta Petacci, a Mussolini, Bombacci, Pavolini, appesi già per i piedi a Piazzale Loreto.

In questo il romanzo è disturbante. Non ha un finale di amore, o melanconico, un finale in qualche modo positivo come nei mystery: qui  il finale è durissimo e spietato.

Non c’è perdono,  ma nemmeno pietà, ma odio, solo odio. Odio che supera persino la morte, irridendola.

Traduzione fedele di Mauro Boncompagni-

Capolavoro.

 

Pietro De Palma

 

Quentin Patrick : Delitto al club delle donne (Murder at the Women ‘s City Club, 1932) – trad. Maria Antonietta Francavilla – Il Giallo Mondadori N.1799 del 1983; I Classici del Giallo Mondadori N.933 del 2002

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Di Patrick Quentin ho parlato molto tempo fa. L’occasione fu un suo romanzo breve. Oggi invece parlerò di un romanzo, uno dei primi. Riprendendo quello che dissi al tempo, Patrick Quentin è stato un caso letterario, più che uno pseudonimo. Infatti sotto di esso si celava un autore principale, che è rimasto sempre eguale fino agli anni ’50, ed una serie di altri autori meno fissi, che si alternavano, fino ad arrivare ad un altro che poi col primo costituì un’accoppiata.

Come abbiamo detto altrove, Patrick Quentin o Quentin Patrick, non fu solo pseudonimo, ma anche ditta, formata di volta in volta dall’unione di 4 coppie di scrittori, che si firmarono diversamente: quella più prolifica fu formata da Richard Wilson Webb (1901 – 1966) e Hugh Callingham Wheeler  (1912 – 1987), che firmarono assieme alcuni romanzi con la sigla Quentin Patrick, quasi tutti con Patrick Quentin, e tutti con Jonathan Stagge: in pratica, l’inizio di questa fortunatissima collaborazione data il 1936, quando Webb, che, firmandosi Quentin Patrick, aveva scritto alcuni romanzi sia  con Martha Mott Kelley (1906–2005) che con  Mary Louise White Aswell (1902 – 1984), ritrovò Wheeler, un suo vecchio amico. Va detto che sia Sia Webb che Wheeler, erano britannici per nascita, ma poi, in seguito, emigrando ambedue negli Stati Uniti, ne diventarono cittadini.

I primissimi romanzi furono scritti con lo pseudonimo Quentin Patrick. Gli autori che firmarono i primi due (Cottage Sinister del 1931 e Murder at the Women ‘s City Club del 1932) furono Richard Wilson Webb e Martha Mott Kelley. Dei due romanzi del 1933, uno fu firmato da Richard Wilson Webb  e Mary Louise White Aswell (S.S. Murder), mentre l’altro, Murder at Cambridge, dal solo Webb. Il sodalizio terminò con The Grindle Nightmare del 1935, in quanto a partire da Death goes to School del 1936 cominciò il grande sodalizio con Hugh Callingham Wheeler  che si perpetuò con tutti i romanzi successivi, tanto da essere avvicinati istantaneamente a loro gli pseudonimi Patrick Quentin e Jonathan Stagge, le cui serie cominciarono entrambe nel 1936: la prima con A Puzzle for Fools (protagonista Peter Duluth), la seconda con Murder Gone to Earth (protagonista dr. Hugh Westlake). Tutto questo fino al 1952, quando con Black Widow, il sodalizio letterario che durava da sedici anni finì per il ritiro del fondatore Richard Wilson Webb. A partire dal 1954 (My Son, the Murderer ) fino al 1965, anno del termine della carriera letteraria (Family Skeletons), tutti i romanzi furono scritti dal solo Wheeler.

Oggi parleremo di uno dei romanzi scritti con pseudonimo Quentin Patrick.

Innanzitutto diciamo che la serie consta di 11 titoli:

 

1931, Tè e veleno (Cottage Sinister), Giallo Mondadori 1812 del 1983

1932, Delitto al club delle donne (Murder at the Women ‘s City Club), G.M. 1799 del 1983

1933, Dramma universitario (Murder at Cambridge), Libri Gialli 176 del 1937; Prima che il temporale finisca, nuova traduzione, in I Classici del Giallo 778 del 1996

1933, In crociera col delitto  (S.S. Murder), G.M. 1829 del 1984

1935, Presagio di morte  (The Grindle Nightmare), G.M. 1472 del 1977

1936, La morte fa l’appello (Death Goes to School), G.M. 263 del 1954

1937, Il segreto della grande Clara (Death for Dear Clara), Libri Gialli 223 del 1939; I Classici del Giallo 1066 del 2005

1937, The File on Fenton and Farr

1938, Il caso Cragge (The File on Claudia Cragge), Dossiers Gialli, 1986

1939, Troppe lettere per Grace (Death and the Maiden), G.M. 156 del 1952

1941, La casa dell’uragano (Return to the Scene), G.M. 214 del 1953

1952, Soluzione estrema (Danger Next Door), C.G.M. 847 del 1999.

Però dobbiamo anche sottolineare che di questi 11 titoli, The File on Claudia Cragge (Il caso Cragge), come il precedente The File on Fenton and Farr (inedito in Italia) non è un vero e proprio romanzo, quanto piuttosto un dossier con tanto di prove materiali, fotografie, testimonianze e reperti, che avrebbe dovuto  portare il lettore a formulare un’ipotesi accusatoria. Nell’edizione del 1964, fu offerto agli abbonati Mondadori, ma nel 1986 ne fu fatta una ristampa (quella che posseggo io, anche rara). Non è purtuttavia un unicum. Infatti nel 1936 Dennis Wheatley aveva inventato questo nuovo prodotto letterario presentando un romanzo nella dimensione di elenco di prove, ritagli di giornali, fotografie e quant’altro: Murder Off Miami. L’esperimento ebbe un risultato eccezionale in termini di vendite (12000 in sei mesi) e per questo Wheatley, realizzò altri tre Dossiers: Who Killed Robert Prentice? del 1937, The Malinsay Massacre del 1938 e Herewith the Clues del 1939. Il Caso Cragge di Quentin Patrick ricalca questo tipo di prodotto.

Oggi presenterò il secondo dei romanzi firmati come Quentin Patrick, Murder at the Women ‘s City Club (Delitto al club delle donne) del 1932 .

In sostanza l’azione si svolge al Club delle Donne di Desborough.

Il Club delle donne è un pensionato in cui i maschi non sono ammessi, tranne Rudy il tuttofare di colore sposato a Cornelia, la cameriera, pure di colore.

I maschi non sono graditi in quanto tutte o quasi le pensionate hanno avuto trascorsi più o meno deludenti, per colpa loro o dell’altrui sesso, col sesso maschile. Il Club è presieduto da Mabel Mulvaney, donna piuttosto abbiente. Mulvaney è ostile ad un’altra pensionante, Diana Saffron, Medico e Docente di medicina all’Università, molto conosciuta e apprezzata nell’ambiente per la sua onestà e inflessibilità, donna incorruttibile e giusta, oramai costretta però al letto per una artrite reumatoide molto avanzata, e per problemi seri di cuore.

Diana Saffron è molto legata alla Dottoressa Freda Carter, una giovane e bella ragazza che lei, con il suo aiuto, i suoi consigli, e la sua piccola rendita, è riuscita a far laureare e ora è ben vista per la sua attività nell’ospedale cittadino. Tuttavia con lei è contrita, perché, contrariamente alle sue aspettative, Freda si è unita in fidanzamento con Sebastian Thurlow, un giovane rampollo, abituato alla bella vita, ma di scarse ambizioni.

Sebastian è stato presentato a Freda da Deborah Entwistle, la terza potenza del pensionato: amica carissima di Thurow, in passato Deborah aveva partecipato a lavori teatrali e lì aveva conosciuto Sebastian. Nella sua camera, che è una sorta di territorio neutrale, le altre pensionanti si ritrovano per parlare, discutere e rappacificarsi: la Signorina Hoplinger, scrittrice di gialli, nota con lo pseudonimo di Gerald Strong; la signorina Millicent Trimmer, segretaria del Club, donna molto ricca in gioventù ma poi inopinatamente trovatasi a mal partito dopo la bancarotta paterna ed il conseguente suicidio; Amy Riddle, assistente sociale.

Le sette donne vivono in stanze ubicate ai vari piani del Club: le stanze sono prive di bagno, e quindi le pensionanti utilizzano uno comune posto sul piano; quello posto al secondo piano tuttavia è rotto, in ristrutturazione e chiuso a chiave, e quindi le pensionanti spesso utilizzano quello al terzo piano.

Il bagno chiuso a chiave ed inagibile è quello che figura marchiato da una X nello schizzo approntato successivamente dall’Ispettore di polizia Boot. Sì, perchè, in una data mattina, viene scoperto il cadavere senza vita della Dottoressa Saffron, nella sua camera satura di gas. E’ la dottoressa Freda Carter, sua protetta, che con la sua protettrice aveva avuto la sera prima un alterco relativo alla sua relazione con Thurow, a scoprire il corpo esanime, a chiudere il rubinetto del gas, aprire le finestre e romperne il vetro lanciandovi qualcosa contro, così da far disperdere il gas.

Siccome la dottoressa Saffron era incapace di camminare da sola causa dell’avanzatissimo stadio di artrite, e anche se l’avesse fatto, avrebbe provocato una serie di rumori che nessuno aveva sentito la sera prima o durante la notte, ne consegue che dev’essere stato qualcun altro ad azionare il rubinetto del gas e chiudere le finestre, giacchè quando era andata la dottoressa Carter, il camino era spento e le finestre erano aperte. Trattasi quindi di assassinio. Viene chiamata quindi la polizia, e incaricato delle indagini, viene chiamata la persona meno indicata in assoluto, il misogino Ispettore Boot. Che trova subito un ambiente ostile e omertoso.

La sospettata numero uno sarebbe la Dottoressa Carter, ma guarda caso è stata proprio lei, assieme al dottor Sibley, il medico legale, a formulare l’ipotesi che sia stata assassinata: per quale ragione poi avrebbe dovuto rivelare che il camino era spento e le finestre aperte se fosse stata lei l’assassina? Sarebbe bastato dire che le finestre erano chiuse e il camino acceso: per una fatalità si sarebbe spento e quindi..l’incidente.

La Signora Mulvaney non è presente al momento della scoperta del corpo, perchè poco prima è andata via in città per questioni legate al Club; lasignorina Trimmer è assente da alcuni giorni; il signor Thurow non c’era (arriverà dopo). Quindi in sostanza le sospettate sono al momento Riddle, Hoplinger, Carter e Entwistle.

L’ispettore comincia ad interrogarle ma non cava un ragno dal buco. Per di più tutte le pensionanti hanno l’abitudine di chiudersi a chiave dal di dentro, e quindi per forza o è stato uno strano suicidio (le stampelle sono abbandonate in un angolo della stanza con un sottile strato di polvere sopra) oppure è stato un assassinio e la Dottoressa si fidava del suo assassino. Peraltro non aveva altri buoni rapporti, tranne con la signorina Entwistle.

La sera prima della tragedia, prima che arrivasse la Dott.ssa Carter, la vittima e la signora Mulvaney avrebbero dovuto parlare di qualcosa di importante: questo perchè i rapporti tra le due donne (La saffron era la tesoriera del Club, la Mulvaney la presidentessa) erano quasi inesistenti, e pertanto un incontro a quattr’occhi nella camera di una delel due presupponeva che ci fosse qualcosa di estremamente importante di cui parlare.

La Mulvaney era andata poi a consultare un’agenzia che si occupava di rendicontare i conti del Club, e si saprà perchè era stato trovato un ammanco importante. La Signora Mulvaney  appena arrivata esprime il desiderio di parlarne, libro di esercizio alla mano, all’ispettore Boot quanto prima, ma nella notte, nonostante un poliziotto a guardia dell’entrata, si odono dei passi per le scale.

La signorina Entwistle, che ha di tanto in tanto delle premonizioni, collega quei passi nel cuore della notte (ma potrebbero essere anche di gente che va al bagno, anche se tutti negano di esservi andate) a “qualcosa che sta per accadere”, di cui lei ha paura. Lo stesso Rudy li sente, va a verificare, dice di aver visto una figura ammantata di bianco davanti alla porta della signora Mulvaney al quarto piano (lui è sceso dalla soffitta dove hanno la stanza di servizio lui e la moglie), che ne parlerà quanto prima all’ispettore. Fatto sta che la mattina dopo viene trovata morta asfissiata dal gas nella sua camera proprio la signora Mulvaney, dopo essere stata tramortita con un oggetto contundente. Un secondo assassinio. L’ispettore Boot vede sempre più rosso, tanto più che quell’ambiente di donne saccenti non gli piace: già uno dei romanzi di Gerard Strong alias Constance Hoplinger, dal titolo “Il serpente nero”, ha curiose rassomiglianze col delitto della Safron e poi della Mulvaney; ma poi ha il sospetto che la signorina Entwistle gli nasconda qualcosa, visto che sospetta che abbia fatto in modo che l’ascensore che li stava portando sopra, si bloccasse, permettendo a qualcuno di introdursi furtivamente nella camera della Saffron.

L’ispettore interroga di niovo tutti i presenti, e nel corso della riunione, i due domestici vengono accusati dalal signorina Riddle: Cornelia di furto e Rudy di omicidio, per aver cercato di coprire il reato della moglie. Mentre Deborah si produce in una difesa appassionata della cameriera, l’ispettore vorrebbe parlare con Rudy, perchè l’ipotesi accusatoria è meglio della sua. Ma poi, deve fare dietrofront, quando nell’ascensore viene trovato pugnalato a morte, proprio Rudy.

La sera la signorina Entwistle, rivela all’ispettore la sua ipotesi: cioè che la Saffron si sia suicidata e un assassino abbia ucciso la Mulvaney nello stesso modo, tentando di far apparire le due morti collegate ad uno stesso omicida. Questo ovviamente è in relazione agli alibi. Ma l’ispettore non le crede.

La mattina successiva ripeterà la stessa teoria davanti a tutti quanti, compresi Thurow e l’ispettore, e indicherà l’assassino anche di Mulvaney e di Rudy.

Questo secondo romanzo non riportò il successo del primo, e in sostanza determinò la fine del rapporto letterario tra Richard Wilson Webb e Martha Mott Kelley. Per quale ragione?

Innanzitutto nel romanzo manca una dimensione temporale legata agli omicidi: si sa che accadono di notte, o di mattina, ma il non sapere quando gli eventi si svolgano, in che giorno della settimana, in che periodo dell’anno, anche in quale anno, crea indubbiamente un certo spaesamento.

E poi al lettore vengono taciuti degli indizi: la chiave di cui si appropria la signorina Entwistle non si sa cosa sia, se non che sarebbe alla base delel soluzione del mistero; viene taciuto il fatto che le chiavi delle stanze avevano dei duplicati : come avrebbe fatto l’assassino ad introdursi nella stanza della Mulvaney chiusa a chiave dall’interno, se non avendo una chiave identica e operando e trafficando dall’esterno? E lo stesso modo di introdursi nella camera ha in sè un che di pericoloso: l’assassino avrebbe potuto aprire la porta dall’esterno introducendo la chiave e facendo cadere sulla spessa moquette la chiave dall’interno ma solo se la chiave, dopo aver chiuso, fosse stata lasciata non girata; se invece fosse stata girata, l’assassino avrebbe dovuto, in tempi estremamente veloci girare prima la chiave con una pinzetta, facendosi luce ( e luci non erano state viste ma sentiti solo passi) e poi spingerla, correndo dei rischi enormi.

C’è solo un indizio che viene lasciato là a girare, lanciato all’inizio del romanzo, che non ha rapporti con l’assassinio, ma con la vita privata della Saffron, che determinerà il colpo finale: quello l’avevo inquadrato a dovere, e mi aspettavo che prima o poi venissa lanciata la bomba.

C’è una falsa pista anche piuttosto evidente: dalla piantina si nota il bagno indicato da una X, e Deborah si appropria di una chiave. Perchè non pensare che l’assassino si sia nascosto dentro e poi sia uscito al momento opportuno?

Quindi in sostanza il romanzo non è affatto male: è un mystery più classico che mai, con una soluzione anche piuttosto centrata, e l’inquadramento dell’assassino funziona sulla base che agendo in maniera tale che le due morti nelle stanze venissero prodotte da una stessa mano, per una delle due aveva un alibi di ferro e come tale per entrambe; e l’attribuzione del suicidio alla prima morte è spiegata sulla base della piantina (lo shut-off cock, è la manopola di stop del gas che è vicino al letto).

Tuttavia le caratteristiche più interessanti del romanzo sono: la vena misogina dell’ispettore Boot che si trova a fronteggiare varie donne e soprattutto una che gli è profondamente antipatica non solo, ma che anche ha la soluzione che manca a lui; i continui battibecchi tra lui e le donne; il fatto che l’ispettore di polizia sia un imbranato e presuntuoso colossale, che opera assieme ad un giornalista, Dunn, che lo appoggia dall’esterno. Ma soprattutto le critiche stilistiche di Quentin Patrick a Van Dine.

Come afferma giustamente Boncompagni in un suo scritto di trentatre anni fa : “…. Chi non ricorda gli aridi resoconti, precisi sino all’ossessione e rigidamente asettici, dei romanzi di Freeman? Ma quale modo migliore, del tutto privo di sussulti, per introdurre i lunghi e snervanti esperimenti da laboratorio con i quali il dr. Thorndyke conclude i suoi casi? E gli smisurati, sublimemente irredimibili o grandiosamente gratuiti interrogatori ai sospetti che percorrono capitolo dopo capitolo, con la stessa grave lentezza, i romanzi di Rhode o di Connington? Come non vedere in questo culto della parola neutra, in questa ipertrofìa dell’osservazione distaccata, in questa pratica ossessiva dell’interrogazione inquisitoria, con tanto di bilancio provvisorio ogni sette od otto capitoli, la cifra rivelatrice di un preciso modo di concepire il giallo, quello a cui pensava anche Van Dine quando, nella terza delle sue venti regole, osservava ironicamente che lo scopo di un romanzo poliziesco è «di condurre un criminale davanti alla giustizia, non due innamorati all’altare?» Ebbene, la scommessa di Peter Duluth, già dal primo romanzo che lo vede protagonista, Manicomio (Puzzle for Fools, 1936), si impegna proprio sull’esatto contrario rispetto alla convinzione di Van Dine secondo la quale indagine e psicologia farebbero a pugni“. In sostanza si afferma che l’indagine per indizi può servirsi di quella psicologica, per riuscire a risolvere l’arcano. E qui, è proprio il modo di affrontare la situazione della signorina Entwistle, che le consente di risolvere il problema: lei che viene a capo della situazione sulla base dell’inquadramento psicologico dell’assassino (poi esplicitato da esso stesso) e sulle circostanze per cui, solo lui, avrebbe avuto il maggior vantaggio possibile se la seconda morte fosse stata sovrepposta alla prima, è il detective; mentre l’ispettore Boot, che non va avanti perchè si basa su indizi che non riesce a trovare e pensa che gli siano stati sottratti, è l’elemento sconfitto.

Per di più Quentin, apposta, quando introduce un brano dall’ipotetico romanzo di Hoplinger, “Il serpente nero”, in cui il detective effeminato è un’enciclopedia vivente, ama le camicie viola e fuma sigarette sudanesi, elabora teorie accusatorie solo nutrendosi di cozze e succo di pompelmo, tiene conferenze sulle odi saffiche e sul simbolismo di Picasso, e ha un amico procuratore, evidentemente fa il verso a Philo Vance, irridendolo.
Pietro De Palma

Ngaio Marsh – I Guanti dell’assassino (Hand in Glove, 1962) – trad. Mauro Boncompagni – G.M. 3138 del Dicembre 2015

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Che a me piacciano i romanzi di Ngaio Marsh è cosa risaputa. Prima ancora che piacessero a me e che io ne parlassi, ne avevano parlato altri, come Luca Conti, rimarcando il dato principe della prosa della Marsh, cioè la raffinatezza dello stile. A parere mio c’è un’altra caratteristica peculiare delle opere della Marsh, che rivela la sua maestria nel trattare la materia: la grande varietà dei personaggi. Se si osserva e si mette a raffronto la scuola poliziesca francese e quella anglosassone, in generale già si noterà come i francesi degli anni ’30 creassero i loro romanzi non sulla base di molti personaggi, perchè il loro scopo era principalmente quello di sondare un mistero, risolto il quale, veniva inquadrato immediatamente il responsabile; il giallo anglosassone pur con i suoi ovvi distinguo, è molto più complesso, e sofisticato, in quanto non pone al centro del plot un mistero partciolarmente intricato (un omicidio impossibile o una camera chiusa), che può anche esserci, ma che non è il soggetto primo quanto invece il prodotto delle ramificazioni di contatti tra i vari personaggi. Carr forse sfugge a questa casistica, ma comunque in Carr, la caratterizzazione dei personaggi è sempre mirabile. Ngaio Marsh, tra i vari romanzieri anglosassoni, è quella che più di altri è riuscita secondo me, nella difficilissima arte di riuscire a gestire una selva di personaggi diversi, dando a ciascuno di essi una sua propria caratterizzazione efficace. E “Hand in Glove“, del 1962,(I Guanti dell’assassino) è uno dei suoi romanzi migliori.

Tutto ruota in questo romanzo sulla figura di Period Pyke, un anziano gentiluomo di nobili origini, che fa del lignaggio la sua fissazione. Assume come dattilografa, Nicola Maitland-Mayne, nipote dell’omonimo generale, amico di Pyke, perchè lo aiuti a scrivere un libro. Pyke divide la sua casa con un amico, Harold Carter, un grande avvocato in pensione, che ha pessimi rapporti con molta gente: a causa della sua cagna, Pixie, un boxer in calore; a causa del suo rifiuto ad acconsentire al figliastro, Andrew Bantling, di ereditare prima del consentito, il lascito assegnatogli da suo padre Bobo Bantling, settimo Barone di Bantling, in punto di morte: infatti Harold Carter assieme a Period Pyke è uno dei tutori del ragazzo. Inoltre Harold è stato secondo marito della madre Desirèe Bantling, ora sposata con Bimbo Dodds, ed è anche con lei in rotta. E’ in non buoni rapporti anche con la sorella Constance, a causa dell’adozione da parte di lei, di una ragazza, Mary Ralston, detta “pupa”, che Harold giudica una poco di buona, anche a causa dell’unione con un tipo poco raccomandabile, quale Leonard Leiss. Non bastasse tutto questo, Harold Carter riesce anche a bisticciare proprio con il suo ospite, Period Pyke, a causa di una sua uscita velenosa – durante il party dato da Desirée e Bimbo che terminerà con una caccia al tesoro – con la quale vuole attaccare coloro che desiderosi a tutti i costi di nobili origini, sono capaci anche di alterare documenti pubblici pur di conquistarle.

Durante il party accade un fatto che predispone ancora peggio Harold nei confronti di Pupa e di Leiss: i due, millantando l’appoggio inesistente da parte di Harold Carter e di Period Pyke, avrebbero voluto cambiare la propria “carretta” con una macchina sportiva. Non bastasse questo, durante il party, scompare il prezioso portasigarette d’oro con brillanti che Pyke aveva avuto in dono da una nobildonna sua amica:gli unici ad averlo avuto in mano sono stati i due giovani che però negano ogni responsabilità nell’accaduto. Il party potrebbe a questo punto almeno avere un termine felice, ma invece, dopo la caccia al tesoro, la cagna di Harold, Pixie, che lui ogni notte porta a fare i bisogni, scatena un furibondo casino, con tutti i cani del vicinato, di cui fa le spese Bimbo, così come prima aveva fatto le spese Connie Carter, morsa dal suo pechinese Li, anch’egli innamorato di Pixie.

L’indomani mattina, il 1 aprile, la sorella di Harold riceve una lettera di condoglianze splendida, da parte di Pyke, famoso nel ristretto ambito nobiliare della provincia, per le sue condoglianze. Ma condoglianza per chi? Per Harold sembrerebbe, perchè si parla del fratello. Ma Harold è vivo. Anzi no. Viene trovato sepolto nel fango putrido di uno scavo che operai stanno compiendo sul terreno adiacente alla villa dove lui vive assieme a Pyke, per la costruzione di uno scarico fognario: qualcuno lo ha fatto cadere nella buca, cambiando la posa delle assi a protezione del fosso. E poi gli ha fatto rotolare addosso il collettore che gli ha sfondato il cranio e affondandogli il volto nel fango, lo ha soffocato. Come sapeva Period della sua morte prima che la scoprissero altri? Chi gli ha fatto uno scherzo d’aprile, orribile?

Non è questo l’unico quesito a cui  Roderick Alleyn, fratello di un baronetto, e sovrintendente di Scotland Yard, dovrà dare una risposta. Dovrà anche scoprire chi abbia rubato il portasigarette, e se siano stati effettivamente i due ragazzacci, visto che anche quello è stato trovato nel fango vicino alla vittima. E dovrà capire perchè Period abbia spedito, prima della scoperta del cadavere, una seconda lettera di condoglianze a Connie, esattamente identica alla prima. E quale significato abbia un’altra lettera ma di tenore assai diverso, riguardante il suo lignaggio, che Period Pyke ha spedito a Desirée Bantling. Roderick farà un salto nella canonica della città natale di Pyke per controllare il libro battesimale e controllare in effetti i suoi natali. Dovrà anche dare anche un nome a tutti coloro che hanno sostato vicino al fosso nelle immediate vicinanze temporali a quelle stabilite per la morte di Harold: in partica pare che tutti si siano dati appuntamento lì, per una ragione o per l’altra, per ricordare una guerra in atto tra Desirée e il suo secondo marito a riguardo della negata eredità del figliastro, oppure solo per baciarsi (Nicola e Andrew), o anche per ritrovare il famoso ultimo indizio che porta al tesoro, una bottiglia di spumante tenuta bagno nello sciacquone del water di casa Bantling.

E dovrà anche capire chi si sia appropriato dei pesanti guanti da guida del fidanzato di Pupa, che i due pensano abbia sottratto proprio lui assieme all’ispettore Fox e ai sergenti investigativi, perchè quei due guanti sono stati probabilmente usati per compiere l’omicidio.

Non prima di  essere accorso a casa di Period che gli voleva parlare perchè ha sentito qualcosa di allarmante al telefono: troverà il vecchio riverso sulla scrivania: qualcuno gli ha lanciato un fermacarte a forma di pesce (il suo stemma araldico) volendolo centrare alla testa. Non è morto ma ha una grave commozio cerebrale: riuscirà a parlare di un motivetto che qualcuno canticchiava al party e poi la notte dell’omicidio di Carter presso il fosso. Nella sorpresa generale, eliminando tutti coloro che per un potivo o per l’altro non potevano aver commesso il fatto, inchioderà il più insospettabile degli assassini.

Stupendo romanzo. Si contraddistingue per una prosa estremamente raffinata, che affascina. Cito uno dei tanti passaggi: “Nicola avrebbe appreso ben presto che la compilazione delle lettere era una materia di vitale importanza per il signor Pike Period. Perchè lui, in effetti, andava famoso per le sue lettere di condoglianze” (pag.22).

Quando leggi questo passaggio ti chiedi – mi son chiesto – cosa c’entrassero le lettere di condoglianze: eppure le lettere di condoglianze, le due che arrivano a Connie Carter, hanno un’importanza strategica. Assieme ai guanti. Per il contenuto delle lettere ed il contenuto dei guanti.

E’ bene dire che le due lettere arrivano per sbaglio, almeno una: l’altra era rivolta a Desirée perchè ex signora Carter, in qaunto anche lei aveva perso un fratello, Ormsbury. Nel romanzo accadono tantissime altre cose che non cito, e alcune hanno importanza nella soluzione, altre no. Per esempio c’è anche il maggiordomo, Alfred Belt, che ha motivi di rancore nei confronti della vittima, per essere stato accusato, assieme a Leiss, di essersi appropriato del famoso portasigarette d’oro. Del resto nelle tasche di uno dei sospettati verrà trovato del tabacco turco, delle sigarette contenute nel gingillo di Period.

L’inizio del romanzo è lento ma affascinante: una serie infinita di chiacchiere, che celano però motivi più che validi per sopprimere una persona. Poi c’è il party, e poi..le conseguenze del party. Poi altre cinque parti. Alleyn, il deus ex machina compare nella terza parte, ma ancora prima che egli  appaia nelle parti di funzionario di Scotland Yard, la sua presenza viene invocata da Nicola, amica della moglie di Roderick, la pittrice Troy. La settima parte è addirittura dedicata alla pestifera cagna di Harold che è essenziale per la storia in quanto troverà i guanti.

Come si vede nulla è lasciato al caso: dal caos delle tante persone coivolte apparentemente o realmente nella morte di Harold, Alleyn deve trarre delle prove certe di quello che è successo, eliminando uno ad uno gli indiziati: tra di loro persino Bimbo Dodds, ha qualcosa che non vuole si venga a sapere del suo passato.

Il colpevole non cade dal cielo: è uno dei sospettabili,che Marsh molto abilmente tralascia di inquadrare sotto i riflettori. Mette invece altre persone che molto più coerentemente avrebbero avuto motivi per uccidere. Semina indizi veri, vitali (la cenere pestata sotto dei tacchi a spillo in casa Pyke, il riferimento a tutte le persone che per un motivo o per l’altro erano andati a acsa di Pyke prima che qualcuno tentasse di ucciderlo, i guanti) assieme a falsi (il portasigarette, perchè chi l’ha rubato non è l’assassino; l’eredità di Andrew, che fa sospettare varie persone; il lignaggio vero o presunto che sia di Pyke).

In realtà tutto gira proprio intorno alle origini nobiliari di Period Pyke: egli tace un indizio importante su chi lui ha sentito fischiettare un certo motivetto la sera che Harold è stato ucciso, perchè chi lo fischiettava lo ha ricattato di rivelare cosa lui aveva fatto molti anni prima.

La particolarità di questo romanzo è di avere inoltre oltre ad un plot riconoscibilissimo (il lignaggio di Period), molti subplot che per un motivo o per l’altro vi si intersecano (Pixie, il portasigarette, il motivetto volgare, lo scavo fognario, le brutte abitudini di Leiss e Mary, l’intraprendenza con gli uomini di Desirée e l’eredità di suo figlio), ma anche uno estremamente difficile ad essere inquadrato e perciò nascosto: questo è  un romanzo sulle relazioni, sociali e amatorie. Parafrasando de Laclos, si potrebbe intitolare anche questo romanzo “Les dangereuses liasons”, Le relazioni pericolose. Come nel romanzo, le relazioni di cui qui si parla possono anche essere pericolose; e sono relazioni che in un modo o nell’altro, fanno riferimento alla famiglia vera o presunta che sia: il legame tra Leiss e Mary, quello tra Nicola e Andrew, quello tra Roderick Alleyn e Agatha Troy, la tresca tra Alfred Belt (il maggiordomo) e la signora Mitchell (la cuoca di Pyke), l’ex legame di Desirée con Carter e ora quello con Dodds, la relazione pericolosa che lei tenta di avere di Roderick, invano. Ma anche la relazione madre-figlio Desirée -Andrew, quella Connie-Pupa (adottante-adottata), la relazione di Pyke con la sua vera o falsa famiglia (e quindi la questione dell’eredità del titolo nobiliare), le relazioni fratello-sorella, Ormsbury-Desirée, Harold-Connie; le relazioni padrone-cane, anche queste importanti in un certo senso: Connie-Li, Harold-Pixie; e infine le relazioni cane-cagna, perchè Pixie, in calore, attrae sessualmente tutti i cani del vicinato, tra cui il pechinese Li.

E c’è anche un motivo che sottende a tutto: è come se Marsh volesse dire di non fermarsi alle apparenze: tutti, ma proprio tutti, i sospettati hanno uno scheletro nell’armadio. E mi piace sottolineare come Ngaio Marsh, cittadina del Commonwealth, neozelandese, legata più o meno all’ambiente britannico, voglia sottolineare che persino nelel casate nobili, non tutto e non tutti, sono veramente nobili. Lo fa a proposito delle pretese origini nobiliari di Pyke, che poi risulterà essere veramente un nobile anche se ha fatto qualcosa di cui vergoganrsi, e lo fa a proposito di quelle acquisite da Desirée. Che è raffinata, o almeno vorrebbe esserlo, ma poi si manifesta una cougar, mentre il marito sta dormendo, quando vorrebbe fare qualcosa di sconveniente con Roderick che è stato invitato da lei a pranzare a casa sua; che beve come una spugna; e che addirittura, assieme al marito, un altro arricchito, ma senza alcuna raffinatezza interiore, quando devono elaborare le tracce per la caccia al tesoro, l’ultima a cui pensano è una di nessuna raffinatezza: “Se non sai che fare adesso, magari pensaci nel cesso“, che un vero nobile non avrebbe mai composto, davanti al quale Pyke sarebbe rabbrividito.

Come in tutti i mysery c’è un finale in cui tutto va a posto.

L’indizio del guanto, che diventa prova effettiva, è straordinario, perchè è macchiato da un certa sostanza di cui si parla ad un certo punto, che qualcuno ha usato per uno scopo ben preciso, solo che quando se n’è parlato, nessuno poteva pensare che sulla base della presenza di esso, l’assassino venisse smascherato. In questo Marsh è veramente straordinaria: nasconde tra tante schiocchezzuole, una che diventerà basilare.

Quando lo lessi, rimasi stupito: avevo scoperto già delle cose che poi Roderick spiegherà, ma questo no, non l’avevo proprio inquadrato.

E l’assassino uccide per un motivo che a suo modo è importantissimo, ma non è per gelosia, nè per soldi: vuole proteggere  qualcuno; e tenta di uccidere, per un motivo connesso. E’ vile, ed è anche stupido. E una volta scoperto, verrà inquadrato anche come pazzo, in fondo. Perchè se la cosa che non voleva si scoprissenon fosse mai accaduta, Harold non l’avrebbe mai ucciso. O forse sì, un giorno?

Grande, Ngaio!

Pietro De Palma

 

 

Antologia delitti impossibili “The Realm of the Impossible”

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Due giorni fa è uscita negli USA, un’antologia, cui ho collaborato fornendo un mio racconto che ho dovuto tradurre in inglese, curata da John Pugmire e Brian Skupin.

L’antologia s’intitola The Realm of the Impossible, in quanto contiene solo racconti con Delitti Impossibili o Camere Chiuse. Sarebbe dovuta qualche mese fa, poi c’è stata una serie di rimandi sino ad avantieri. Compaio con il De trasformato nel nobiliare de: un altro atto di gentilezza oltreoceano che mi ha ridato quel tanto di nobiltà che ci apparteneva qualche secolo fa.  Comunque sia, quel Pietro de Palma, autore del racconto The Barese Mystery sono proprio io.

Il racconto che è stato scelto nell’ambito di una rosa che ho fornito a richiesta, aveva come presupposto innanzitutto di non essere troppo lungo: doveva essere massimo di dieci cartelle, e io l’ho ristretto a 9,e poi doveva contenere degli elementi di folklore o paesaggistici tanto da identificare un certo luogo di una certa nazione. The Barese Mystery, ovviamente parla di un delitto impossibile con Camera Chiusa a Bari.

Ho dovuto trasformare un mio racconto molto più lungo, di una quarantina di pagine, che aveva doppio finale fantastico e razionale, “alla Carr”, scritto ai tempi in cui io e Igor Longo avevamo una intensa amicizia epistolare: mi ricordo che a lui piacque molto, e disse che si inseriva in quei lavori tipo H. Resnicow o C. Wilhelm; e poi l’ho dovuto tradurre in inglese. Probabilmente John e Brian hanno a loro volta trasformato delle espressioni troppo inglesi in un americano corrente.

La sorpresa massima che ho ricevuto stamattina, quando John mi ha inviato la lista degli altri autori, che avevo richiesto, è stata trovarmi insieme a P. Halter, U. Durling, E. Hoch, S. Shimada, C. Brand, M.D. Post, F.W. Crofts, E. Peters,unico italiano ad essere stato scelto. Devo dire in tutta onestà che la cosa mi ha fatto un enorme piacere.

Questo l’elenco completo dei conteneuti:

Foreword Otto Penzler 7
Introduction John Pugmire and Brian Skupin 9
France: Jacob’s Ladder Paul Halter 12
United Kingdom: Cyanide in the Sun Christianna Brand 29
Real Life Impossibility: United States Louis Calhern’s Weakness 48
Sweden: Windfall Ulf Durling 49
Czech Republic: The Case of the  Horizontal Trajectory Joseph Škvorecký 68
Real Life Impossibility: Barbados Moving Coffins 86
Ireland: The Mystery of the  Sleeping-Car Express Freeman Wills Crofts 87
Australia: Dead Man in the Scrub Mary Fortune 109
Real Life Impossibility: Austria Bridge to Nowhere 120
United States: The Hidden Law Melville Davisson Post 122
France: House Call Alexandre Dumas 133
Real Life Impossibility: Switzerland Death of the Empress Elisabeth 150
Argentina: The Twelve Figures of the World Jorge Luis Borges & Adolfo Bioy Casares 151
Greece: Rhampsinitos and the Thief Herodotus 165
Real Life Impossibility: Germany Mass Murder in the Basement 170
Outer Space: Martian Crown Jewels Poul Anderson 171
Lebanon: Leaving No Evidence Dudley Hoys 188
Real Life Impossibility: Scotland Houdini Defeated 195
India: The Venom of the Tarantula Sharadindu Bandyopadhyay 196
United Kingdom: Sir Gilbert Murrell’s Picture Victor L. Whitechurch 213
Real Life Impossibility: France The Impossible Theft of 1,000 Rare Books 226
China/Taiwan: The Miracle on Christmas Eve Szu-Yen Lin 227
Finland: Seven Brothers (extract) Aleksis Kivi 251
Real Life Impossibility: France Murder on the Metro 254
Portugal: Lying Dead and Turning Cold Afonso Carreiro 256
Canada: The “Impossible” Impossible Crime Edward D. Hoch 276
Real Life Impossibility: France Hanged Too High 284
Egypt: The Locked Tomb Mystery Elizabeth Peters 286
United States: Deadfall Samuel W. Taylor 301
Real Life Impossibility: United States The Murder of Isidor Fink 312
Japan: The Lure of the Green Door Rintarō Norizuki 313
Italy: The Barese Mystery Pietro de Palma 340
Real Life Impossibility: United Kingdom The Murder of King Edward II 349
Germany: The Witch Doctor’s Revenge Jochen Fueseler 350
Iraq: All the Birds of the Air Charles B. Child 364
Real Life Impossibility: United States Miracle on 42nd Street 379
Ireland: The Warder of the Door L.T. Meade & Robert Eustace 380
Japan: The Locked House of Pythagoras Soji Shimada 397
Permissions and Acknowledgments 428

 

L’antologia può essere ordinata al link
www.amazon.com/Realm-Impossible-Pugmire-Skupin/dp/1545339228/

Pietro De Palma

Melville Davisson Post : Il mistero di Doomdorf (The Doomdorf Mystery, 1914) trad.Gianni Pilo – in “Tempo di delitti” a cura di Mike Ashley, Grandi Tascabili Economici Newton, 1996

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Melville Davisson Post dirà poco al lettore italiano; eppure è uno scrittore di straordinaria intensità, amato da John Dickson Carr, Ellery Queen, Howard Haycraft.

Nato nel 1869 in West Virginia, svolse per parecchi anni la carriera di avvocato. La moglie morì di polmonite, il figlio in tenera età. Visse vedovo fino alla morte avvenuta nel 1930, per una caduta da cavallo (era un abile cavallerizzo). Scrisse romanzi e racconti.

In particolare dal 1911 al 1928 scrisse la serie di 22 racconti che più gli dette fama, quella di Uncle Abner, “the greatest American contribution” to the list of fictional detectives after E.A.Poe’s C.Auguste Dupin.

Zio Abner non fu il solo personaggio creato. Gli altri furono Randolph Manson (di cui consegnò alle stampe tre volumi di racconti), Monsieur Jonquelle Prefetto di Parigi, il Colonnello Braxton (avvocato e virginiano, come l’autore). Ad un altro ancora, Sir Henry Marquis, pensò JDCarr per un suo personaggio, il Colonnello Marquis protagonista di un suo grande racconto/novella, The Third Bullet. I 22 racconti di Zio Abner furono pubblicati su molti magazines dell’epoca: dal 1911 al 1916. Nel 1918 furono raccolti nell’ antologia  “Uncle Abner, Master of Mysteries“. Ellery Queen li definì “an out-of-this-world target for future detective-story writers”.

In Italia, ben poco è stato pubblicato ad oggi, oltre al racconto da me analizzato. Mi  risultano:  Il mistero della morte di Bradmoore (“The Bradmoor Murder”1929), edito dalla Compagnia del Giallo Classico nel 1996, in un’antologia coi racconti di Sir Henry Marquis; ; La notte oscura (Antologia Einudi “I Gialli di Mezzanotte”, 2014); Un atto di Dio (An Act of God, 1913), Antologia “Enigmi e Misteri” di Polillo, 2009; La grande finzione (Monsieur Jonquelle; The Great Cipher su “The Red Book Magazine”, novembre 1921), in Antologia Polillo “Delitti in Codice”, 2009.

“The Doomdorf Mystery” è una camera chiusa. Un inizio col botto, potremmo dire. 

Fu pubblicato per la prima volta sul Saturday Evening Post del 18 luglio 1914, e poi riunito assieme ad altre storie di Zio Abner nel 1918.

Zio Abner, che opera nella Virginia all’inizio dell’Ottocento, è “uomo con spiccato senso di giustizia, timoroso di Dio, e fine osservatore della natura umana e che osserva la legge di Dio” , è impegnato in questa sua prima avventura, nella morte misteriosa di Doomdorf, un avventuriero che si è stabilito su un arido pezzo di terra, piantando con tenacia alberi di pesco, e dai frutti ha ricavato un liquore, che presto ha venduto a  parecchia gente: l’alcoolicità ben presto ha diffuso in quella terra, vizi di ogni genere, portando anche distruzioni e omicidi, quando ne hanno bevuto schiavi e indiani. Fatto sta che un’orda di predicatori e di gente che ne ha piene le tasche di Doomdorf si è mossa per fare giustizia e distruggere la distilleria dietro la casa dell’avventuriero. Anche Zio Abner e il signor Randolph, giudice, stanno andando lì per mettere fine alla faccenda. Quando arrivano, trovano lì il predicatore Bronson, un tale che minaccia castighi divini, che ha in programma di distruggere la distilleria. Doomdorf sta dormendo nella stanza che usa d’estate, come aggiunge una donnetta che si affaccia, intenta a raccogliere le pesche da utilizzare per ricavare il liquore. Dopo averlo chiamato invano, e avendo capito che si è chiuso da dentro, con una spallata Randolph spalanca la porta, tanto per trovare Doomdorf ucciso da una fucilata che gli ha forato il panciotto e lo ha colpito al cuore, mentre era a riposare sul divano. L’arma viene trovata poco in là: è un piccolo fucile da caccia, appoggiato ad una forcella e appeso al muro: ha appena sparato, e la cartuccia sotto il cane sta lì a testimoniarlo. Non c’è altro nella stanza oltre ad un tavolo, ed una bottiglia con del liquido trasparente, il liquore di pesche (probabilmente un tipo di grappa).

Verificano la stanza: è ermeticamente chiusa. Dal camino non sarebbe potuto entrare nessuno, e la finestra, oltre che essere chiusa dall’interno, non veniva aperta da molto tempo, come testimoniano le ragnatele al di fuori, e per di più la finestra non ha un davanzale, è su una parete a picco e liscia dove nessuno potrebbe arrampicarsi; non ci sono botole, e la porta era chiusa dall’interno con un chiavistello impossibile ad aprirsi dall’esterno.

Purtuttavia sia il predicatore Bronson che la donna, rivendicano la paternità della sua morte. Solo che non sono condannabili: il predicatore ha invocato la vendetta divina, che poi si è materializzata; la donna, lo ha tanto maledetto con bambole vodoo da avere finalmente giustizia. Perchè non lo sono?

Perchè all’ora in cui è morto Doomdorf, le ore13, come testimonia il suo orologio da panciotto, trapassato dal proiettile omicida, entrambi non erano in casa: il predicatore era di là a venire, e la donna era ancora impegnata a raccogliere pesche.

In sostanza nessuno avrebbe potuto ucciderlo: eppure il cadavere è lì a testimoniare che qualcuno o qualcosa debba essere stato ad uccidere.

Zio Abner, riflettendo su una cosa che ha detto Bronson (ha invocato Dio perchè lo uccidesse con il fuoco del cielo), riuscirà a dimostrare come la morte sia entrata dalla finestra senza che questa venisse aperta, o i suoi pannelli sostituiti, o il suo telaio tolto (impossibile: c’erano le ragnatele!) e rimesso a posto.

La soluzione di Melville Post, è perfettamente razionale ed è assolutamente una chicca: soprattutto quando appare, alle ore 13, l’assassino nel suo incedere, finisce per tenere il lettore e il giudice Randolph fissi e attenti sulla finestra, in attesa che qualcuno o qualcosa appaia. E appare. Ma non è condannabile sul banco degli imputati.

E’ un assassino che non è umano, perchè deve identificarsi in qualcosa che sia la vendetta di Dio. In certo senso se ci fosse un boia qui, sarebbe Dio stesso: perchè solo Dio poteva fare giustizia così.

Zio Abner si collega  al Dupin de Gli assassini della Rue Morgue di E.A.Poe: anche lì vi è una Camera Chiusa, anche lì l’omicida non è umano. 

Se vogliamo i due omicidi che non possono aver ucciso, possono invece averlo fatto: il racconto non lo dice, ma lo fa intuire. L’uomo può averlo fatto, perchè se non avesse invocato Dio, il suo fuoco distruttore non l’avrebbe ucciso (il fuoco dello sparo). La donna, perchè anche se al momento della morte, lei materialmente non era lì, potrebbe aver predisposto la stanza, sapendo lui dove si riposava, e in quale posizione, perchè morisse. In quest’ottica sarebbe non una morte dovuta ad un incidente, ma un omicidio premeditato. Impossibile però da accreditare in giudizio alla donna. Certo però, se davvero si fosse realizzato così come Zio Abner dice, sarebbe stato per un caso leggendario, una volontà divina.

RIVELAZIONE DELL’ARMA USATA PER UCCIDERE: 

Chi volesse leggere il racconto è pregato di non leggere da questo punto in poi. 

Perchè dico che  la vera arma usata per uccidere non è il fucile? 

Perchè esso non è l’arma quanto il mezzo. L’arma è un’altra: la bottiglia di liquore. 

Per un principio ottico, il  sole (l’assassino) con un suo raggio, appare all’una spuntando dalla finestra e cade sul tavolo laddove c’è la bottiglia. La bottiglia col liquore funziona come lente: riflette i raggi del sole focalizzandoli in un punto, la cartuccia opportunamente preparata nel fucile da caccia, che scoppiando, spara contro la figura distesa.

Se la morte di Doomdorf è dovuta al caso, il sole è l’omicida involontario o il latore della giustizia divina; se la morte invece è dovuta all’omicidio premeditato della donna, il sole è il complice.

Ma perchè la donna avrebbe voluto uccidere l’uomo tanto da premeditarne la morte (lei dice non la magia nera)? Perchè come spiega lei in un inciso, Doomdorf molti anni prima l’aveva comprata in cambio di una collana d’oro data ad un vecchio povero (il nonno) che forse si aspettava per la nipote un futuro di gioie e non di sofferenze, di soprusi, di stupri , a cui l’aveva condannata, a cui aveva condannato una bambina che coglieva fiori gialli nel prato. In parte quella bambina era rimasta nella donna, in quella donna distrutta.

Volete che io dica la mia tra le due opzioni? Non lo so. Opterei per la seconda perchè in sostanza,  quando normalmente si ripone un fucile da caccia, lo si depone scarico e non carico. E’ la presenza della cartuccia che non mi convince. Ma devo anche prendere in esame la dimenticanza ed il caso.

Il metodo usato, la riflessione della luce, un principio ottico, è tipico delle storie di quel periodo: dardi avvelenati, letti che uccidono, e ora anche un raggio di sole che spara una cartuccia, riflesso da una bottiglia di liquore. Non è un caso che  anche illustri scrittori posteriori (Carr, Commings,per es.) utilizzeranno principi di fisica ottica per realizzare alcune celebri messinscene dei loro lavori.

Sta al lettore a questo punto, indicare quale sia secondo lui il vero assassino. Anche se Melville D. Post conclude:

It is a world filled with the mysterious joinder of accident .

It is a world – replied Abner – filled with mysterious justice of God!  

Pietro De Palma 

 

Ellery Queen : Le tre vedove (The Three Widows, 1950) – Trad. Tina Honsel – in Agenzia Investigativa di Ellery Queen, Mondadori, 1984

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Quest’oggi cominciamo una serie di appuntamenti, nei quali verranno vagliati i racconti con impossibilità varie (documenti che spariscono, veleni che appaiono, delitti in stanze chiuse) di Ellery Queen: la cosa mi è stata chiesta nei giorni scorsi da Giordano Giorgi e mi è sembrata molto carina, anche perchè i racconti di Ellery Queen, nonostante in tempi non recenti siano stati messi a disposizione dei lettori italiani (non tutti), almeno quelli contenuti nelle antologie realizzate dai due cugini, da parecchi in Italia non sono stati letti.

Normalmente sono un miracolo di deduzione. Alcuni sono più famosi di altri, altri meno. Taluni sono molto corti, altri molto lunghi, altri ancora novelle. Insomma, il panorama è molto variegato.

Non seguirò un ordine cronologico, perchè anche il mio grado di gradimento non è costante e segue miei personalissimi spunti.

[  Prossimamente uscirà un mio lungo articolo di introduzione a I Racconti di Ellery Queen : non perdetelo!  ]

Cominceremo quindi da uno contenuto in Agenzia Investigativa Ellery Queen (Queen Bureau of Investigation).

Theodore Hood, vedovo, aveva due figlie: Penelope e Lyra. La prima non dava nessuna importanza al denaro, la seconda il contrario. Entrambe si erano sposate, ma entrambe erano rimaste vedove. Il padre le aveva riaccolte in casa, ma poi se ne era pentito, perchè risposatosi, aveva ben presto capito che le due figlie erano incompatibili con la moglie. Ben presto era morto, lasciando il patrimonio di due milioni di dollari, alla moglie, con la disposizione, di cui era garante il legale di famiglia, l’avv. Starck, che in caso di sua morte, esso sarebbe stato diviso in parti eguali alle due figlie. Quali miglior moventi per un omicidio? L’antipatia e la bramosia di riccchezza.

Fatto sta che un bel giorno la moglie si rivolge al medico di famiglia, il dottor Benedict, per degli esami di routine: nonostante egli l’abbia trovata in ottima forma, il giorno dopo si ammala e peggiora per cui lei, temendo di essere stata avvelenata, gli chiede che la esamini approfonditamente: in effetti il dottore riscontra che è stata avvelenata. Siccome non può dire chi l’abbia avvelenata, e le disposizioni testamentarie le impediscono di mettere fuori di casa le due figliastre, ne discende che il dottore annuncia alle due sorelle, che dovrà controllare giorno per giorno la matrigna al fine di evitare un nuovo avvelenamento.

Ma un secondo avvelenamento avviene comunque. A questo punto la donna fa chiamare Ellery Queen, nella speranza che egli riesca ad individuare l’assassino e come il veleno le sia stato propinato. La ragione è che: la signora si cucina personalmente tutto nella sua camera da letto, con le finestre ermeticamente chiuse e la porta sprangata dall’interno; beve solo acqua di provenienza certa, utilizza il suo spazzolino e il suo dentifricio che non possono essere stati presi da alcuno; per la cottura e utilizzo del cibo usa pentole e piatti che ha acquistato ex novo; non si trucca, non mette profumi, rossetti e quant’altro; la serratura della porta della camera è stata rifatta da lei da poco.

Ellery dopo aver interrogato anche i domestici, conclude che è matta, cioè simula il proprio stato. Ma tempo dopo, un terzo tentativo la uccide. Ellery è convinto del suicidio, ma lo fa cambiare idea proprio il veleno che non si trova. A questo punto per esclusione l’omicidio è l’unica possibilità, un omicidio impossibile: un affronto alla sua capacità di deduzione sopraffina.

Riuscirà a trovare un assassino diabolico, solo facendo  ricorso alla sua deduzione, dopo essersi persino ammalato a causa della sua incapacità a trovare l’assassino e il modo di uccidere in una stanza ermeticamente chiusa, dopo aver vagliato per l’ennessima volta tutti gli indizi e le testimonianze prodotte.

Gli indizi vengono infilati tutti, e il racconto potrebbe definirsi una mini-sfida al lettore, giacchè non esiste per nulla la sezione in cui interviene la polizia, quindi l’indagine a tutti gli effetti: è Ellery ad agire, solo lui. Questo è inconsueto, perchè l’indagine sulla morte della donna, che dovrebbe essere svolta da un ufficiale di polizia, quando non addirittura da un vice procuratore distrettuale, non si verifica (neanche da suo padre, col corollario dei suoi agenti).

La faccenda ha uno svolgimento surreale:nessuno avvisa la polizia, Ellery viene avvisato della morte della donna, ed interviene solo perchè qualcuno si è preso gioco di lui, della sua superiore intelligenza (e ovviamente della vittima). E finchè ragiona, nelle quarantasette ore in cui Ellery mette alla prova il proprio acume, invano, finchè il padre non lo smuove dal letto ficcandogli un termometro in bocca, mettendogli una borsa di ghiacco in testa, e facendogli uan scaloppina al burro (il non trovare la soluzione lo ha fatto ammalare), nessuno avvisa la polizia. E lui quando interviene e scioglie l’enigma, lo fa con una improvvisata riunione di famiglia, durante la quale si rivolge alle uniche persone che potessero trarre vantaggio dalla morte della donna.

Ma come il racconto (un mini racconto di poche pagine) manifesta una andamento surreale durante tutto il suo svolgimento, surreale è anche la fine, perchè Ellery rivela l’unico modo attraverso il quale la donna può esser stata avvelenata, ma noi non sappiamo cosa faccia il responsabile: ammette, si proclama innocente, ridicolizza la soluzione di Ellery? No, nulla. Il racconto finisce con Ellery che da la soluzione. Non si sa nemmeno chi sia il complice (perchè c’è un complice), perchè il complice potrebbe sapersi solo se fossero state svolte delle indagini canoniche da parte della polizia. E non sappiamo neanche se l’assassino verrà consegnato alla giustizia, perchè il complice non si sa cosa potrebbe fare (e non si sa neanche chi sia).

Ecco perchè dico che questo è un, come potrei dire…un esercizio di stile, più che un racconto vero e proprio, un rompicapo da settimana enigmistica, una mini sfida al lettore.

Nient’altro.

Il plot basato su un avvelenamento impossibile, ripetuto, di una donna sempre più malata, da alcuni è stato spiegato col fatto che in quel periodo pare che i due cugini avessero seri problemi di salute, che si siano riflessi in una storia volutamente pessimistica (ancor più pessimistica, quando si conosca la soluzione, ancor più per un malato).

La soluzione però, è geniale, su questo nulla da dire, tanto più che utlizza tutti gli indizi dati, ravvisabili in quello che io vi ho raccontato: solo in un modo l’assassino potrebbe aver colpito.  E’ bene dire però che gli indizi dati sono pochissimi, talmente pochi (oppure è uno solo) che un altro titolo del racconto è

Murder without clues (assassinio senza indizi).

Non vi rimane che leggere il racconto (difficile da trovarsi ) o lambiccarvi il cervello, ma…non sarà facile.

Pietro De Palma


Ellery Queen : A Scuola con Ellery Queen (Object Lesson, 1958) – trad. Tina Honsel – in Esperimenti Deduttivi di Ellery Queen, Mondadori, 1984

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Seconda puntata sui racconti e radiodrammi queeniani che contengono impossibilità varie. Sì è vero avevo parlato di racconti, e Giordano questi mi aveva richiesto. Ma credo di poter offrire un maggior contributo se parlerò anche di radiodrammi.

Orbene, oggi è la volta di un racconto tratto dalla raccolta Esperimenti Deduttivi di Ellery Queen,  A Scuola con Ellery Queen. Come fa capire il titolo, il racconto non contiene un delitto, ma altro: una sparizione impossibile. E’ questa una variazione interessante della Camera Chiusa: non sparisce il colpevole, bensì un oggetto. Carr avrebbe detto “vanished into thin air”. E’ quello che accade.

Ellery viene convocato da una combattiva insegnante di un liceo del quartiere di New York, dove egli vive: infatti la 92esima Strada Ovest è vicina l’87esima Strada Ovest dove abita lui.

Ellery è un eroe per i giovani del quartiere e così l’insegnante spera che attraverso il suo carisma possa aiutarla a redimere tre anime perse, tre suoi allievi che lei ha visto la sera prima scappare attraverso la vetrina infranta da una panetteria del quartiere (l’ennesimo colpito in poco tempo): David Strager, Howard Ruffo, Joey Bull. Il primo, biondo bello e robusto lavora in un supermercato; il secondo, bruno di capelli, lavora in una tintoria; il terzo, esile e coi capelli rossi, in una rivendita di cancelleria, giornali e tabacchi.

Quando Ellery arriva a scuola è la prima ora: pensa di fare un’apparizione, e di dover parlare solamente, ed invece l’insegnante gli dice di aver subito un furto: qualcuno ha sostituito nella sua ora, approfittando di un suo momento di distrazione, una busta che conteneva sette dollari (parte della colletta per il regalo di matrimonio ad una collega), con un’altra contenente ritagli di giornale, esattamente grandi quanto la banconota da un dollaro. Siccome quella è la prima ora, e i ragazzi non hanno avuto modo di uscire dall’aula, è evidente che la busta sia ancora lì.

Quindi Ellery prima invita a restituire la busta, poi davanti allassenza di azioni, perquisisce i tre (perchè guardandoli in faccia si è accorto che hanno un’aria colpevole) senza risultati; ma intanto passano i minuti, e a ogni minuto che passa, Ellery rischia sempre più di fare la parte del fesso, fregato da un/tre ragazzo/i di sedici anni. E ovviamente aumenta la tensione, e la rabbia di Ellery davanti all’ostentata sicurezza dei tre, che se la ridono. Poi Ellery passa alla perquisizione di tutte le suppellettili della classe, vedendo addirittura dietro l’altoparlante a muro, o il globo della luce, ma ancora nulla. E intanto mancano pochi minuti. Poi esamina il contenuto della falsa busta e trova attaccato ad un falso dollaro, ritagliato dall’albo di un fumetto la cui data è quella di quattro giorni dopo quello in cui si svolge la storia, una sottile strisciolina di quella che gli pare la filigrana di una banconota. Passa ancora del tempo: ora mancano quattro minuti allo scadere della prima ora e al suono della campanella. Allora Ellery si concentra spasmodicamente, toccandosi tutto quanto, Poi all’improvviso ha l’illuminazione e indica il responsabile.

Spiega come ha fatto ad individuarlo e facendosi dare un dollaro che quello ha con sè, dimostra che la sottile strisciolina che ha trovato, corrisponde ad una intaccatura della banconota: in sostanza il ladro si è servito della sua banconota di un dollaro come facsimile per tagliarne uno esattamente uguale, ma non si è accorto di aver asportato una sottilissima fettuccia di banconota.

Tuttavia c’è ancora una cosa da fare: trovare la busta con la refurtiva. Ed ecco che spunta misteriosamente da….

Non dico da dove, però i cinefili avranno un’altra traccia  da poter esaminare: c’è un film di qualche anno fa, con Anthony Hopkins, in cui un uomo uccide la moglie colpevole di averlo tradito e riesce a nascondere la pistola in un modo altamente ingegnoso. Ecco, non è la stessa soluzione, ma gli si accosta molto.

In più il racconto, oltre ad essere un mystery particolarmente brillante, ha una tensione palpitante che lo conduce spasmodicamente alla conclusione, minuto dopo minuto, e quindi in un certo senso è anche un mini-thriller.

Assolutamente delizioso.

Non è un caso isolato, la sparizione di un certo oggetto, in questo racconto, poichè in altri lavori di Queen scompaiono cose importanti: innanzitutto, la copia del testamento in The Greek Coffin Mystery del 1932, il romanzo più spaccacervelli in assoluto della storia del mystery anni ’30;  la pistola che ha sparato, in The American Gun Mystery, un romanzo con situazioni impossibili, del 1933; poi  invece in opere al limite dell’impossibilità, The Treasure Hunt del 1935 e Trojan Horse del 1939, scompaiono delle gemme rubate, mentre scompare del denaro anche in un altro racconto, Miser’s Gold.

Se ricordo bene, Igor mi disse anni fa, che il plot del film derivava da un racconto di Hoch; ma se questo è vero, Hoch a sua volta deve aver preso qualcosa da Queen, e il plot del film da lui. Che poi il modello indiretto sia stato Hoch, per come la penso io, può essere benissimo che la sceneggiatura del film abbia potuto avere, come proprio modello, proprio il racconto queeniano.

Pietro De Palma

Bernardo Cicchetti : Il rifugio dell’orco – Collana Oscura – Antonio Tombolini Editore, Loreto, 2016

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Orco

Bernardo lo conosco da tanto tempo, da quando conversavamo nel Blog Mondadori ai tempi di Altieri, quando c’erano premesse di cambiare l’impostazione della linea editoriale. Per cui c’era sempre fermento, e sempre idee.

Qualche giorno fa, grazie ad un’amica comune, che ne aveva parlato nel suo blog, Bernardo mi ha fatto recapitare il suo romanzo col quale aveva partecipato anni fa al Tedeschi: non avendo avuto la possibilità di essere pubblicato su Mondadori, si era creato lui quella di pubblicare il suo romanzo presso altro editore.

Il romanzo si situa nel 1964.

C’è un gruppo  di adolescenti che si ritrova nella Villa del paese (il giardino comunale) per parlare, giocare, amoreggiare. Un giorno casualmente qualcuno parla di un caso irrisolto: la sparizione di Don Raimondo, l’arciprete del paese. Era andato in chiesa per confessare e officiare la messa una sera, poi era uscito ed era scomparso. I ragazzi si interrogano; uno, il protagonista della storia, che parla sempre in prima persona, che poi rievocherà  a tanti anni di distanza la storia di cui era stato protagonista, davanti ad un ufficiale dei carabinieri, per effetto di una lettera speditagli dall’assassino ormai condannato alla morte da un cancro al polmone, non si capacita del fatto che lui quella sera della sparizione di Don Raimondo, dalla Cappella del Bambin Gesù, era proprio lì davanti alla cappella e Don Raimondo non l’aveva proprio visto uscire. In sostanza lui è il testimonio chiave di cui al tempo nessuno, tantomeno i carabinieri avevano sentito il bisogno di vagliare, tanto più che lui della sparizione di Don Raimondo non aveva mai sentito parlare dai suoi genitori. Era un fatto che si era preferito cancellare.

Così comincia un’indagine, che è anche un gioco all’inizio, un’avventura in cui i ragazzi si buttano a peso morto. Cominciano a chiedere in giro, a restringere il numero di coloro che avevano partecipato all’ultima messa di Don Raimondo. A condurli nel loro percorso di indagine è Il Maestro, un pazzo inoffensivo dell’ospedale psichiatrico locale a cui consentono di uscire, che diventa il loro vate, una specie di loro eroe ancor prima che si diffonda la notizia di Don Raimondo per la sua capacità di eseguire difficilissime divisioni a memoria. Il Maestro ben presto coordina le indagini del gruppo e fissa i paletti: il momento in cui il prete era arrivato in chiesa, quando aveva cominciato messa, le stranezze durante la messa per l’assenza del sagrestano Cicillo, il fatto che il prete fosse scomparso. Poiché per sapere il resto dovrebbero interrogare i testimoni, coloro che avevano partecipato all’ultima messa, stilano una lista e cominciano con vari sotterfugi a cercare di avere rapporti con loro. In sostanza non ricavano granchè tranne tre cose molto interessanti: il fatto che durante la permanenza di Don Raimondo fosse scomparso Vincenzino, un bambino di otto anni ritrovato poi strangolato, violentato e torturato; e che durante la Messa non ci fosse stata né la presenza di Cicillo sull’altare a fianco dell’officiante né tra i banchi a chiedere la questua nonostante il prete fosse avido. Questi tre fatti, uniti ad altri, cominciano a comporre un quadro orribile: il prete era un pervertito degenerato e qualcuno, ritenendolo direttamente responsabile della morte del bambino, lo aveva ucciso e fatto scomparire.

L’inchiesta si intreccia ben presto con il primo amore del protagonista, Lucia Davino, una ragazzina figlia di un professore di liceo classico, e con i sentimenti degli stessi ragazzi, che ben presto capiscono che nel quadro d’insieme,  nel puzzle in cui mano a mano le tessere stanno andando al giusto posto, ognuno ha qualcosa da perdere: perché in sostanza a quella messa avevano partecipato anche alcune persone che erano direttamente o indirettamente collegate ai ragazzi. Cosa c’entrano ora i testimoni? Vorrebbe spiegarlo un dono che Il Maestro fa al protagonista per il suo compleanno: Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie, storia dell’ assassinio premeditato di una persona che aveva rapito e ucciso una bambina, tramite una congiura di gruppo. In sostanza, coloro che apparentemente erano solo testimoni, avrebbero partecipato all’assassinio del prete, inserendo nella congiura Cicillo. Questa sarebbe la prima soluzione, quella cui vengono condotti i ragazzi. Perché si sarebbero svolti così i fatti? Perché il prete, non uscendo dalla chiesa con le sue gambe e nemmeno potendo essere nascosto da qualche parte, non essendoci nascondigli in sagrestia (il luogo dell’assassinio), sarebbe uscito in altro modo.

Questa prima soluzione però comporterebbe il sospetto di molte persone e quindi viene frettolosamente messa a tacere, e lo stesso protagonista e la sua fidanzatina vengono separati dalle rispettive famiglie: così il dolore di Vincenzino diventa il dolore di un’intera comunità.

Il romanzo finirebbe così se, nell’epilogo, tuttavia a distanza di molti anni una lettera non arrivasse al protagonista, diventato ormai adulto e sposato, raccontando un’altra storia, quella di un depistaggio, da parte di un Deus Ex Machina, e di un’altra soluzione, che comporta non la messa in stato di accusa di un’intera comunità ma di un solo uomo, dell’assassino che ha ucciso, con la collaborazione di Cicillo, il prete ( colpevole non solo della morte di Vincenzino, ma anche di Jacopo figlio dell’assassino e di un altro bambino in altri due paesi italiani dove il prete era stato mandato in missione): l’assassino ha scavato, quando il prete non c’era, sotto tre assi del ripostiglio della sagrestia, una fossa capace di contenere due uomini e vi ha nascosto il corpo, adagiandosi a sua volta sul cadavere, e rimettendo gli assi al loro posto e prima dell’ultimo anche le cianfrusaglie che vi erano poste sopra, finchè la chiesa non sia sgombra prima dei testimoni e poi dei carabinieri lì arrivati, confidando nella loro poca professionalità; e poi di notte è uscito dalla tomba, mutilando il cadavere e seppellendo nuovamente i pezzi divisi, ottimizzando quindi lo spazio ottenuto, e poi uscendo indisturbato dalla chiesa facendo perdere le sue tracce.

Dico subito che questo romanzo avrebbe meritato la vittoria del Tedeschi, ma si sa che le opere dei vincitori non sempre rispondono solo ai propri meriti ma anche ad altre incognite ambientali e personali, proprie di coloro che le giudicano:  magari al giudice il mystery non piace, magari piace una storia più truculenta, magari preferisce l’hardboiled, il noir nostrano al romanzo poliziesco alla Maigret. Ma come ho detto a Bernardo, difficilmente avrebbe vinto perché è un’opera troppo complessa, con troppi rimandi, che per essere apprezzati avrebbero dovuto richiedere una cultura di base poliziesca molto specifica, almeno nel mystery. In altre parole, se a giudicarlo fossi stato io, gli avrei dato la palma del vincitore; altri…

Perché complesso?

Il romanzo può essere visto sotto diverse prospettive.

Innanzitutto sotto l’ottica di un “come eravamo”, come la nostra storia, la storia dei cinquantenni e sessantenni come Bernardo e come me che in quegli anni erano adolescenti e vivevano proprio quelle situazioni, quei fatti storici, stagioni di pensiero, che cantavano quelle canzoni e vedevano quei film che tutti abbiamo visto, sentito, ascoltato, visto; i nostri primi amori giovanili, i nostri giochi tipo “i ragazzi della via Pal”.

Poi sotto l’ottica di un romanzo sociale, perché tratta della pedofilia, un male della società ancora più orribile perché partorito da chi dovrebbe difendere gli stessi bambini che invece diventano le sue vittime. In un tempo, gli anni sessanta, in cui queste cose erano tacitate, nascoste sotto il velo del silenzio, negli anni in cui la Chiesa mai avrebbe ammesso di avere tra le sue fina dei figli degenerati, perché la Chiesa era posta su un piedistallo e non viveva ancora le turbolenze della società in cui viviamo. Del resto il titolo del romanzo allude alla pedofilia: cos’è l’orco se non un mostro che mangia bambini? In questo caso la caverna dell’orco è la cappella.

Infine sotto l’ottica precipua del romanzo poliziesco vero e proprio, in cui confluiscono molteplici richiami: da Agatha Christie (dichiarato) a Poe (Il cuore rivelatore, dichiarato). In realtà alla base della modalità del delitto sta un richiamo non dichiarato, quello del Carter Dickson  di The House in Goblin Wood. Perché, e questa è la particolarità più interessante, il romanzo è un mystery classico con ceneri noir (la pedofilia, la solitudine dell’assassino, la tristezza di fondo) che si colloca non tanto nel genere del whodunnit ma in quello più particolare dei delitti impossibili . La prima soluzione, quella che viene rivelata nel corso del romanzo, rimanda direttamente al racconto di Poe, ma ancor di più a Carr, non so se volutamente o inconsciamente. Del resto già Carr aveva esplicitato l’unico modo possibile con cui un corpo potesse scomparire, senza poter essere nascosto in loco oppure sciolto. E le borse della spesa rimandano al cesto da picnic di carriana memoria. Tuttavia, al di là di questa soluzione apparente, vi è poi quella vera, confessata nell’epilogo, il finale a sorpresa, che in sostanza, a vedere bene potrebbe anche collocarsi come una Camera Chiusa anche se piuttosto semplice, non canonica come quelle di Carr, che si avvale di un nascondiglio: infatti l’assassino, apparentemente, scompare nella Sagrestia. Che è una Camera Chiusa perché anche se la porta non è chiusa, è tuttavia guardata a vista dalla gente che sta a messa: è in sostanza una modalità già espressa in altri romanzi precedenti, per es. in It Walks by Night, di Carr, in cui le uscite della stanza in cui avviene la decapitazione sono guardate a vista da testimoni fidati. Ma è anche un delitto impossibile, perché il corpo scompare. E proprio per questo, per un certo tempo, fino alla riesumazione dei resti, proprio perché non erano stati trovati, si è pensato che il prete fosse andato via.

Poi ci sono altre anime nel libro: c’è innanzitutto una vena di pessimismo molto accentuato, che si traduce in una sorta di nichilismo nietzchiano (il rifiuto di Dio, perché è morto) che va oltre esso stesso, perché il Superuomo la cui esistenza era giustificata dalla morte di Dio, non esiste. Esiste solo un’umanità debole e fragile,  condannata a soffrire: quasi un catarismo contemporaneo.

E infine c’è un appunto anche alla narrativa fantastica (non so se voluto dall’autore, o immaginato da me): l’assassino che si seppellisce in una tomba assieme al cadavere, potrebbe rimandare a The Greek Coffin Mystery di Ellery Queen, in cui nella stessa tomba ci sono il cadavere ed un altro sopra il primo, come nel nostro caso. E’ per me anche un rimando alla letteratura fantastica (o gotica), perché l’assassino che esce dalla tomba di notte, cos’è altro se non un cadavere vivente? E in realtà l’assassino che ha ucciso per vendetta, per vendicare il proprio figlioletto ucciso da quel prete ignobile, si è trovato dannato già in terra, ucciso dal dolore per la perdita della moglie e del figlio, e senza più anima, divorata da una sofferenza indicibile e sostituita dall’odio puro: e’ un uomo senz’anima, è un uomo che è già morto dentro, che vive solo per uccidere, come il morto vivente.

Il romanzo, figlio senza dubbio delle critiche sorte in seno alla Chiesa contemporanea in merito a quei preti che nel corso del loro mandato si siano resi  colpevoli di atti nefandi nei confronti di vittime innocenti (disabili, bambini), manifesta una tristezza e una melanconia di fondo molto accentuate. Anche forse dirette ad un mondo, quello della fanciullezza che non esiste più. Tuttavia nel romanzo non vi è solo un assassino, ma due: uno, il prete, è l’assassino dei bambini; l’altro, l’assassino del prete, è al tempo stesso, vergognandosene, un assassino di bambini: non li uccide nel corpo, ma nella coscienza, costringendoli a vivere una serie di conseguenze della loro indagine, che li porterà a soffrire: il protagonista, viene ridotto al silenzio dalla comunità mediante pressione sui suoi familiari; la sua fidanzatina, viene allontanata da lui, perché in certo senso da lui plagiata; e soffre sapendo anche che della gente ha ucciso e che si difende, attaccando lui, per non essere attaccata. Anche lui è un orco, un mangiatore di bambini: perché ha approfittato volutamente della loro ingenuità, e anche lui ha un rifugio: la sua indifferenza al dolore, tanto ha sofferto; e un rifugio vero e proprio, che si è scelto, per non poter essere inquisito: l’alibi perfetto.

Accadono tante altre cose in questo romanzo.

In cui la trama  non è il fine come comunemente accade nei romanzi polizieschi, ma solo uno strumentom per raccontare una storia.

Da leggere.

Non solo per distrarsi ma anche per riflettere.

Pietro De Palma

I Racconti e i Radiodrammi di Ellery Queen

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C’è stato un periodo che in Italia, almeno nelle pubblicazioni da edicola Mondadori che assorbivano la maggior richiesta di romanzi polizieschi in Italia (almeno secondo l’ottica del segmento editoriale inaugurato in Italia, che voleva il romanzo Giallo relegato a passatempo e quindi merce da utilizzare durante i viaggi e in genere nel tempo libero), Ellery Queen era un’indicazione di qualità e per di più appariva con regolarità negli scaffali; ora un po’ meno.

Conseguentemente a quest’amore mai completamente dimenticato del pubblico italiano verso una delle tre cuspidi del Whodunnit anglosassone (Agatha Christie, Ellery Queen, John Dickson Carr), nel 1984, la Casa Editrice Mondadori, vivente il vecchio presidente Arnoldo,  fondatore della cultura poliziesca in Italia con I Libri Gialli (le famose Palmine) alla fine degli anni ’20, pensò bene, attraverso i suoi straordinari collaboratori (Laura Grimaldi, direttore responsabile; Gian Franco Orsi, caporedattore; Lia Volpatti), di varare uno straordinario progetto editoriale, mai più pensato: I Racconti di Ellery Queen.

La pensata, era concepita sulla base del concetto che il pubblico italiano, da sempre affezionato ai libri firmati Ellery Queen, avrebbe ben gradito una serie di volumetti che avessero presentato non l’opera omnia di Ellery Queen, enorme in se stessa, bensì i primi dieci romanzi, quelli basati sul whodunnit puro e l’enigma deduttivo formale e sul ragionamento spacca-cervelli, caratteristico dei romanzi da The Roman Hat Mystery del 1929  a Halfway House  del 1936, e tutti i racconti facenti parte delle antologie realizzate e pubblicate dai due cugini. Il progetto editoriale era per certi versi assai ardito, e all’avanguardia, in quanto vennero proposte per i romanzi, per la gran parte, le traduzioni approntate da Gianni Montanari.

Per i racconti si pensò bene di approntare le serie così come erano state consegnate in America. Va detto che nel corso degli anni, non solo Mondadori si era imposta in Italia nel panorama del poliziesco; varie altre Case editrici erano apparse: alcune erano rimaste, altre erano scomparse. Nerbini, Giachini, Pagotto, Martello, Impero: chi le ricorda più? Eppure un tempo diffusero romanzi notevoli! Tra le varie case editrici si affermò anche Garzanti, che negli anni ’50 propose la sua collana più famosa, I Gialli Garzanti, volumetti con sovracopertina, come le Palmine anteguerra, che presentavano i più bei nomi della letteratura poliziesca mystery e hardboiled, tutti però in gran parte non presentati da Mondadori e comunque alternativi: tra questi Ellery Queen. Si assicurò l’esclusiva di alcuni romanzi (Il rovescio della medaglia, L’origine del male, Il re è morto e anche Il Calendario del Delitto) e racconti (Il calendario del delitto) .

Se tuttavia questa antologia era già uscita, Mondadori non la acquistò da Garzanti, ma invece pensò bene di proporla, tradotta da vari suoi collaboratori (che nel tempo avevano consegnato racconti per le Stagioni mondadoriane): Hilia Brinis, Marcella Dalla Torre, Tina Honsel, etc.. , opportunamente integrando i racconti mancanti con quelli già pubblicati da Garzanti (due tradotti dal mai dimenticato Bruno Tasso).

Così nell’aprile 1984, comparve la prima delle sei raccolte previste: Le avventure di Ellery Queen. Con cadenza mensile, si aggiunsero alla prima le altre cinque: Le nuove avventure di Ellery Queen, Il calendario del delitto, Agenzia Investigativa Ellery Queen, Full di Queen, Esperimenti deduttivi di Ellery Queen, Il Milionario assassinato (per quest’ultima raccolta, alcuni racconti inediti furono tradotti da Gianni Montanari). A seguire, l’elenco di tutti i racconti queeniani:

 Le  Avventure di Ellery Queen (The Adventures of Ellery Queen, 1934)

L’avventura del viaggiatore africano (The Adventure of the African Traveler)

L’avventura dell’acrobata impiccata (The Adventure of the Hanging Acrobat)

L’avventura dell’un penny nero (The Adventure of the One-Penny Black)

L’avventura della signora barbuta (The Adventure of the Bearded Lady)

L’avventura dei tre zoppi (The Adventure of the Three Lame Men)

L’avventura dell’innamorato invisibile (The Adventure of the Invisible Lover)

L’avventura del portasigarette di tek (The Adventure of the Teakwood Case)

L’avventura del cane a due teste (The Adventure of the Two-Headed Dog)

L’avventura dell’orologio sotto la campana di vetro (The Adventure of the Glass-Domed Clock)

L’avventura dei sette gatti neri (The Adventure of the Seven Black Cats)

L’avventura del tea-party da pazzi (The Adventure of the Mad Tea-Party)

 

Le nuove avventure di Ellery Queen (The New Adventures of Ellery Queen, 1940)

La lampada di Dio (The Lamp of God)

L’avventura della caccia al tesoro (The Adventure of the Treasure Hunt)

L’avventura del drago cavo (The Adventure of the Hollow Dragon)

L’avventura nella casa delle tenebre (The Adventure of the House of Darkness)

L’avventura del ritratto che sanguina (The Adventure of the Bleeding Portrait)

L’avventura della finale di baseball (Man Bites Dog)

L’avventura del buono a nulla (Long Shot)

L’avventura del soprabito rubato (Mind Over Matter)

L’avventura del cavallo di Troia (Trojan Horse)

Il calendario del delitto (Calendar of Crime, 1952)

L’avventura del Club Interno (The Adventure of the Inner Circle)

L’avventura del mezzo decacent del Presidente (The Adventure of the President’s Half Disme)

L’avventura delle Idi di Michael Magoon (The Adventure of the Ides of Michael Magoon)

L’avventura dei dadi dell’Imperatore (The Adventure of the Emperor’s Dice)

L’avventura della tromba di Gettysburg (The Adventure of the Gettysburg Bugle)

L’avventura del matrimonio di giugno (The Adventure of the Medical Finger)

L’avventura dell’angelo caduto (The Adventure of the Fallen Angel)

L’avventura della cruna dell’ago (The Adventure of the Needle’s Eye)

L’avventura dell’ABC… (The Adventure of the Three R’s)

L’avventura del gatto morto (The Adventure of the Dead Cat)

L’avventura della bottiglia della verità (The Adventure of the Telltale Bottle)

L’avventura della bambola del Delfino (The Adventure of the Dauphin’s Doll)

 Agenzia Investigativa Ellery Queen (Q.B.I. – Queen’s Bureau of Investigation, 1955)

La paura della signora Alfredo (Money talks anche The sound of blackmail)

Una questione di secondi (A matter of seconds)

Le tre vedove (The three widows anche Murder without clues)

I fratelli Mayfield (Driver’s seat anche Lady, you’re dead!)

Una zolletta di zucchero (A lump of sugar anche The mystery of the 3 dawn riders oppure Murder in the Park)

Dollari che scottano (Cold money)

Tagliato, tagliato, tagliato (The myna birds anche The myna bird mystery/Cut,cut,cut!)

Una questione d’onore (A question of honor)

L’accusato (The robber of Wrightsville/The accused)

Il mago del dollaro (Double your money/The vanishing wizard)

L’oro dell’avaro (Miser’s gold anche Love hunts a hidden treasure/Death of a pawnbroker)

Palla di neve (Snowball in July /The phantom train)

La Strega di Times Square (The witch of Times Square)

Giochi d’azzardo (The gambler’s club)

G I  Story (G I  Story)

Il libro nero (The black ledger/The mysterious black ledger)

E’ scomparso un bambino (Child missing! Kidnapped!)

Full di Queen (Queen’s Full, 1966 )

La morte di Don Juan (The Death of Don Juan, 1962)

L’eredità Wrightsville (The Wrightsville Heirs, 1956)

Il caso Carroll (The Case Against Carroll, 1958)

E = Delitto (E = Murder, 1960)

Fuochi verdi (Diamonds in Paradise, 1954)

Esperimenti deduttivi di Ellery Queen (Q.E.D.: Queen’s Experiments in Detection, 1968)

Parola d’ordine: mum (Mum Is the Word)

A scuola con Ellery Queen (Object Lesson)

Sosta vietata (No Parking)

Problemi di alloggio (No Place to Live)

I miracoli accadono (Miracles Do Happen)

La sposa solitaria (The Lonely Bride)

Mistero alla Biblioteca del Congresso (Mystery at the Library of Congress)

Il sosia (Dead Ringer)

La lettera rotta (The Broken T)

Un mezzo indizio (Half a Clue)

Vigilia di nozze (Eve of the Wedding)

L’ultimo a morire (Last Man to Die)

Il patto (Payoff)

Il Club dell’Enigma (The Little Spy)

In mancanza del Presidente (The President Regrets)

L’indizio di Abraham Lincoln (Abraham Lincoln’s Clue)

 Il milionario assassinato

L’avventura del milionario assassinato ( The Adventure of the Murdered Millionaire)

L’avventura del club dell’ultimo uomo  (The Adventure of the Last Man Club)

Il movente                                               (The Motive oppure Terror Town)

Lo zio d’Australia                                   (The Uncle from Australia)

Anniversario di Nozze                             (Wedding Anniversary)

I tre studenti                                            (The Three Students)

Un tipo strano                                         (The Odd Man)

L’avventura del truffatore onesto           (The Adventure of the Honest Swindler)

In pratica Mondadori consegnò al pubblico italiano la summa dei racconti queeniani ( in un periodo in cui si pubblicavano anche i racconti di Agatha Christie) e anche alcuni radiodrammi. O meglio, cercò di proporne la quasi totalità: dico quasi, perché alcuni racconti sfuggirono, e sarebbero rintracciabili solo in apposite antologie americane, se poi non fossero state raccolte, quasi tutte,  due antologie non firmate da due cugini, ma da due critici come Nevins e Douglas Greene.

Innazitutto, la prima versione di The Lamp of God. Qui c’è da aprire una piccola parentesi: infatti di questo famosissimo lavoro breve di Ellery Queen, esistono tre versioni: la prima, The House of Haunts, del 1935; la seconda, con il titolo The Lamp of God , del 1940 in Le nuove avventure di Ellery Queen, e una terza, con lo stesso titolo, come novella, nel 1950.

Un altro racconto di cui si sa poco, The Case of His Headless Highness (1973) fu pubblicato in Jigsaw Puzzle: alcuni critici ritengono sia un falso. Ma di esistere, esiste. Mauro mi ha detto che a quell’epoca Dannay non scriveva più e Lee era morto. Quindi.. booh.

Poi infine vi sono due racconti pubblicati nell’antologia The Best of Ellery Queen: Four Decades of Stories from the Mystery Masters, antologia curata da Nevins, non precedentemente serializzati: My Queer Dean del 1953, e Wedding Anniversary, del 1967.

Di Wedding Anniversary francamente nessuno sa per quale motivo non fosse stato compreso in antologia; riguardo al secondo, che è l’unico racconto inedito in Italia, c’è da dire che My Queer Dean lo resterà: infatti questo, che in termini critici, a parer mio, è uno dei più intelligenti racconti in assoluto, e che presenta forte e chiara la caratteristica di E. Queen, cioè “il messaggio del morente”, si caratterizza anche per far uso dello spoonerism, termine che sta ad indicare il lapsus linguistico, in base al quale la soluzione non sarebbe a tutti chiara in Italia (e mi ha detto Mauro, per consuetudine dell’editore, non potrebbe essere prevista una nota del traduttore che lo spiegasse).

Infine vi sono 6 racconti, pubblicati prima su varie riviste americane e raccolti poi su Tragedy of Errors (uno straordinario volume pubblicato da Crippen & Landru e curato da Douglas G. Greene nel 1999), in cui sono contenuti  anche contributi e il canovaccio con plot e soluzione di un romanzo non pubblicato): Terror Town, Agosto 1956; Uncle from Australia, Giugno 1965; The Three Students, Marzo 1971; The Odd Man, Giugno 1971; The Honest Swindler, estate 1971; The Reindeer Clue , Dicembre 1975 .

Sveliamo innanzitutto l’arcano: come potette fare la Mondadori del 1984 a pubblicare racconti non serializzati che lo sarebbero stati solo successivamente nel 1999? Mauro mi ha detto tempo fa che fu Gian Franco Orsi, che allora era caporedattore, a procurarsi i singoli racconti (evidentemente procurandosi le copie delle riviste). Tuttavia, non tutti sono autenticamente queeniani. Infatti avevo letto tempo fa, su qualche sito americano (non ricordo quale), che il racconto The Reindeer Clue non era accreditato come uscito dalla penna di Dannay (Lee era già deceduto). Lo chiesi a Mauro che mi spiegò che in effetti  il racconto è da intendersi quasi un apocrifo: infatti lo scrisse Edward D. Hoch che lo sottopose, una volta buttato giù, a Dannay (che già non scriveva più), il quale lo approvò e  gli diede il via libera.

Parallelamente ai racconti, sono stati in Italia, nel corso degli anni, tradotti e pubblicati anche dei radiodrammi queeniani.

Oggi, che la radio è diventata la sorella minore della televisione, e non ha più il riflettori puntati addosso, sembra quasi ovvio che i radiodrammi non siano più ambiti dal grande pubblico; ma una volta non era così. Una volta, soprattutto alla fine degli anni ’30 – inizio ‘40 , forse era l’unico momento in cui ci si potesse distrarre e non sentire sempre deprimenti bollettini di guerra. I Queen dettero al genere un grande contributo, un po’ come fece dall’altra parte dell’oceano l’altro scrittore statunitense del mystery più in vista: John Dickson Carr. Ovviamente, prima di debuttare in pompa magna coi loro sceneggiati, anche i due Queen fecero della gavetta: lavorarono in maniera oscura per parecchi programmi radiofonici, fornendo loro testi, in cambio di guadagni irrisori. Tuttavia, quando si inizia, il guadagno è l’unica cosa a cui si pensi: prima di tutto si cerca di farsi conoscere. E così fecero loro. E ben presto ebbero l’occasione di esordire lavorando per se stessi, in occasione di un programma sperimentale, in cui veniva raccontata una certa cosa che sembrava essere fuori senso, e poi le persone in studio, interpellate, fornivano la loro interpretazione. Una volta conosciuti definitivamente, i due Queen ebbero finalmente modo di esordire con uno sceneggiato radiofonico: come racconta Francis Nevins Junior nel suo fondamentale studio su Ellery Queen “Royal Bloodline”, il 18 giugno 1939 esordì il primo dei radiodrammi di una serie “The Adventures of Ellery Queen” che con l’omonima serie di racconti non avevano nulla da spartire. Il primo radiodramma, quello presentato all’esordio, fu The Adventure of the Gum-Chewing Millionaire.

Questi radiodrammi presentavano il personaggio di Ellery Queen, attorniato da quelli a lui consuali, con in più quella che diremmo una “new entry”: Nikki Porter, un nuovo personaggio femminile. I lettori più queeniani dovrebbero sapere che circa alla fine degli anni ’40, dopo un decennio in cui il personaggio Ellery Queen era progressivamente passato da clone vandiniano (soprattutto The Greek Coffin Mystery e The Roman Hat Mystery) a personaggio con caratteristiche più originali e più umane, e con tratti meno superumani, i 2 cugini pensarono bene, per conquistare anche il pubblico femminile, di inserire richiami alla letteratura giallo-rosa. Ecco perché inventarono il personaggio di Paula Paris, una giornalista di cui Ellery si innamora (e finisce a letto) perdutamente, in The Four of Hearts del 1937. Paula Paris, ritornerà anche in alcuni racconti scritti in quel periodo, per esempio i quattro dedicati agli sport (baseball, ippica, pugilato e football americano) compresi nella raccolta The New Adventures of Ellery Queen. Paul Paris non sarà comunque l’unica donna presente nell’opera di Ellery Queen. Infatti oltre ad una moglie ed ad un figlioletto, che vengono citati abitare in Italia, con Ellery, nelle campagne toscane, nei primissimi romanzi (JJMcClure in sostanza racconta alcune casi di quando Ellery non era sposato) e di cui presto ci si dimentica, visto che successivamente scompaiono dalla biografia di Ellery, c’è un’altra presenza femminile: proprio Nikki Porter, la segretaria impicciona e impertinente, che i due cugini inventarono per rendere i radiodrammi che scrivevano e producevano, anche in grado di attirare le platee femminili. Nikki Porter, come Paula Paris, oltre che alla radio fu inserita anche nell’antologia di racconti Calendar of Crime, e in due romanzi: There Was an Old Woman e The Scarlet Letters. Anche se non rientra in alcun racconto, devo qui menzionare anche un’altra donna che entrerà di straforo nella serie dei romanzi, peraltro l’unico in cui compaia il padre ma non il figlio: Inspector Queen’s Own Case.

Tra i radiodrammi, deve ascriversi anche un apocrifo sherlockiano, The disappearance of Mr. James Phillimore. Esso faceva parte dell’antologia di racconti, radiodrammi e pastiches dedicati a Sherlock Holmes da parte di uno dei due cugini Ellery Queen, Dannay: The Misadventures of Sherlock Holmes. In essa, venivano presentati anche lavori di altri scrittori. Quest’antologia, è anche l’unica firmata da Ellery Queen che non sia mai stata pubblicata in Italia (e mai lo sarà). Il radiodramma di Ellery Queen è stato pubblicato in “Radiogialli”, un interessantissimo Oscar della serie Teatro & Cinema, del 1989, che presentava una selezione dei migliori radiodrammi.  Comunque sia, in altra raccolta successiva, Le Falene Assassinate e altri delitti, apparsa sia come Supergiallo, sia in Oscar, è apparsa una selezione di 14 radiodrammi scelti da Douglas G. Greene tra i quasi 350 messi a disposizione degli eredi dei Queen:

L’avventura del Club dell’ultimo Uomo (The Adventure of the Last Man Club, 15 giugno 1939)

L’avventura del rasoio di Napoleone (The Adventure of Napoleon’s Razor, 9 luglio 1939)

L’avventura del bambino cattivo (The Adventure of the Bad Boy, 30 luglio 1939)

L’avventura della marcia della morte (The Adventure of the March of Death, 15 ottobre 1939)

L’avventura della Grotta Infestata (The Adventure of the Haunted Cave, 22 ottobre 1939)

L’avventura della bambina scomparsa (The Adventure of the Lost Child, 26 novembre 1939)

L’avventura dell’oscuro segreto (The Adventure of the Black Secret, 10 dicembre 1939)

L’avventura dello spaventapasseri morente (The Adventure of the Dying Scarecrow, 7 gennaio 1940)

L’avventura della Donna in Nero (The Adventure of the Woman in Black, 14 gennaio 1940)

L’avventura degli uomini dimenticati (The Adventure of the Forgotten Men, 7 aprile 1940)

L’avventura dell’uomo che raddoppiava i diamanti (The Adventure of the Man Who Could Double the Size of Diamonds, 5 maggio 1940)

L’avventura del Nuvola Nera (The Adventure of the Dark Cloud, 23 giugno 1940)

L’avventura del signor Short e del signor Long (The Adventure of Mr. Short and Mr. Long, 14 gennaio 1943)

L’avventura delle falene assassinate (The Adventure of the Murdered Moths, 9 maggio 1945)

Come detto, di radiodrammi ve ne sono molti ancora inediti, e non pubblicati in Italia. Un’idea potrebbe essere quella per esempio di pubblicare alcuni di questi lavori, e la risonanza sarebbe mediatica, giacchè che io abbia saputo da Mauro, al momento Greene non ha pensato di fare altre antologie.

I radiodrammi rappresentarono davvero una tappa cruciale per i due cugini, perché con essi la loro popolarità crebbe esponenzialmente: va detto che i loro successi di pubblico non erano stati subito immediati, e una certa popolarità l’avevano acquisita solo a partire da The Chinese Orange Mystery e tra i racconti, con The Adventure of the Mad Tea-Party. Con essi, Dannay & Mannay catturarono progressivamente l’interesse delle platee radiofoniche. La trovata esplosiva che essi inserirono per polarizzare l’attenzione, fu la cosiddetta Sfida al lettore, di cui si trova traccia in tutti i primi dieci romanzi (con l’eccezione di The Twin Siamese Mystery, in cui essa è mascherata), in cui si sfidavano, dopo un’interruzione di pochi secondi, alcuni ospiti, a gareggiare con Ellery Queen, dando essi prima di lui la soluzione. Di questo impianto, si è tenuto conto nella serie televisiva con Jim Hutton e David Wayne, andata per la prima volta in onda in Usa nel 1975/76, perché la soluzione avveniva di solito in studi radiofonici, dopo che un personaggio appositamente creato per quella serie, Simon Brimmer, dava sempre la soluzione sbagliata. A testimoniare l’immensa popolarità che registrò quella prima serie di radiodrammi, fu  l’incidente occorso negli studi radiofonici: “verso la fine di ottobre 1939, in un momento in cui l’esistenza degli sceneggiati era minacciata dall’assenza di inserzionisti, la rottura di un tubo dell’acqua collegato al sistema di raffreddamento della trasmittente negli studi della stazione WBBM di Chicago, provocò l’interruzione del programma di Queen nove minuti prima della fine di The Mother Goose Murders. La stazione ricevette letteralmente migliaia di telefonate di ascoltatori che volevano conoscere l’identità dell’assassino, e questo dimostrò più di qualunque sondaggio quale fosse l’entusiastica risposta del pubblico”  (“Parentesi Radiofonica”, pag.10, da Royal Bloodline di Francis M. Nevins Jr., in “Il milionario Assassinato”, Mondadori, 1984).

Successivamente, i primi due radiodrammi della serie di un’ora, furono trascritti in forma di lunghi racconti ed è solo grazie a questa trasposizione che noi ora li possediamo. Essi furono inseriti nell’unica raccolta, di quelle pubblicate nel 1984 da Mondadori, che non fosse originale, Il milionario assassinato: The Adventure of the Last Man Club e The Adventure of the Murdered Millionaire.

Si tratta di due caratterizzazioni famose: in particolare The Adventure of the Last Man Club, che è il più antico esempio in nostro possesso, di radiodramma che presenti il cosiddetto Dying Message ed addirittura è il primo in cui compaia la cosiddetta assicurazione “tontina”, ossia quel tipo di assicurazione sulla vita per cui ci si crea una rendita vitalizia che poi alla morte di uno dei soci, viene divisa tra i rimanenti . Alcuni radiodrammi, è bene dirlo, non presentarono soluzioni originali, ma derivate da romanzi o racconti: per es. in  The Adventure of the Last Man Club la soluzione deriva in parte da The Greek Coffin Mystery e da The House of Darkness; in The Adventure of the Frightened Star (una Camera Chiusa) gran parte della trama viene tratto da The American Gun Mystery; in The Adventure of the Blind Bullet, viene usata la trovata geniale per la soluzione del racconto  The House of Darkness, anche se la trovata della promessa di uccidere una tale persona ad un’ora già annunciata costituisce una specie di anticipazione di quello che accadrà in The King Is Dead.

Nel corso degli ultimi anni, qualche raccolta è stata riproposta ma in maniera estemporanea e non sistematica : per es. Il calendario del delitto, Classici del Giallo volume oro (N.1277) e,  Esperimenti deduttivi di Ellery Queen (N.1378),  nei Classici del Giallo.

Pietro De Palma

“Il doppio” comune denominatore ne “Il caso dei fratelli siamesi” di Ellery Queen

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Avevo visto esposto tempo fa, in una libreria, un romanzo di Alexandre Dumas che non conoscevo: Les freres corses, “I fratelli corsi”, un breve romanzo o racconto lungo che dir si voglia. Una bella storia, potrei dire una ghost story : in una famiglia corsa, nell’imminenza della morte, nel ramo maschile, appare un defunto, a chi sta per passare a miglior vita. Ma, se ne parlo, è perché al centro della storia vi sono 2 fratelli, Lucien e Louis che si somigliano come due gocce d’acqua: 2 fratelli monozigoti. Sono lontani, uno a Parigi, l’altro in Corsica, ma sono uniti da quella telepatia che molte volte pone in stretto legame 2 fratelli gemelli. E così quando uno viene ucciso in un duello, l’altro nello stesso identico momento sente un forte dolore nel punto del torace dove l’altro è stato ferito mortalmente, prima che il fratello, seguendo la tradizione di famiglia, gli compaia a chiedere giustizia. Orbene, mentre leggevo questo romanzo di Dumas, mi è balzato singolarmente davanti agli occhi il tratto d’unione con un grande romanzo di Ellery Queen: “Il Caso dei Fratelli Siamesi”, che tratta di fratelli, siamesi e non, ma che tratta soprattutto “il tema del doppio”, per la prima volta, nei romanzi di Ellery Queen.

Prima del romanzo in questione, che è il settimo firmato da Ellery Queen, i due cugini Dannay e Lee avevano pubblicato The Roman Hat Mystery, The French Powder Mystery, The Dutch Shoe Mystery, The Greek Coffin Mystery, The Egyptian Cross Mystery, The American Gun Mystery, e anche 3 romanzi sotto lo pseudonimo di Barnaby Ross: The Tragedy of X, The Tragedy of Y, The Tragedy of Z. Va detto che oramai nel 1933 Frederick (Daniel Nathan) Dannay detto “Danny” e Manfred Bennington (Manford Lepofsky) Lee detto “Manny”, cugini e nati entrambi nel 1905, erano sulla cresta dell’onda: i loro romanzi andavano a ruba.

All’inizio il loro investigatore si comportava alla maniera di Philo Vance, e dal creatore di Philo Vance, S.S. Van Dine ( i cui titoli seguivano la formula base : The + Sostantivo + Murder Case), i due cugini mutuarono la caratteristica formula base del titolo: The + Aggettivo di Nazionalità + Sostantivo + Mystery, cosa che andò avanti fino al 1935, quando cioè, con Halfway House (1936), quest’abitudine terminò. All’inizio, tuttavia, pur consci del valore del loro primo manoscritto, The Roman Hat Mystery, essi penarono per riuscire a piazzarlo presso qualche editore: solo Frederick A. Stokes gliel’accettò, dimostrando il fiuto che altri non avevano saputo valutare, tanto più che i due avevano vinto il concorso bandito nel 1928 dalla rivista McClure’s e dalla casa editrice Lippincott  per la migliore opera prima poliziesca, ma poi la rivista era fallita e passata di mano ad altro editore, che invece di pubblicare il loro romanzo aveva scelto altro.

Il loro più grande personaggio è stato Ellery Queen che poi ha dato il nome alla loro ditta comune: il suo nome si fa risalire all’amico d’infanzia di Danny, Ellery Hermann, più che al poeta William Ellery Leonard (in gioventù Danny aveva coltivato velleità poetiche) o all’editore Ellery Sedgwick.

Va detto anche che i due cugini avevano il fiuto degli affari e molto intelligentemente, i romanzi che hanno come protagonista non Ellery Queen ma l’attore shakespeariano Drury Lane, erano stati dati alle stampe con altro pseudonimo, Barnaby Ross. Francis M.Nevins Jr., storico autore del celebre studio critico su Ellery Queen, “Royal Bloodline: Ellery Queen Author and Detective”, afferma che il nome Barnaby Ross potrebbe essere stata la reminiscenza di un palazzo in Elmira conosciuto come Barnaby’s Barn, in cui Dannay spesso giocava quando era bambino e che figura nel suo romanzo autobiografico The Golden Summer, anche se in effetti Barnaby Ross viene menzionato per la prima volta in The Roman Hat Mystery,”La Poltrona N.30″, nell’introduzione (che in Italia è disponibile solo nell’edizione tradotta da Montanari): lì viene collegato Richard Queen (e suo figlio Ellery) a Barnaby Ross: “..Richard Queen..ai tempi dei suoi brillanti risultati conseguiti nell’ormai vetusto caso di assassinio di Barnaby Ross..” . Interessante è che l’estensore delle introduzioni, che compaiono nei primi romanzi, sono firmate da un fantomatico J.J. McC. Nella prima, quella appunto di The Roman Hat Mystery, vengono affermate delle cose di cui non si troverà più traccia nei successivi romanzi: Ellery è sposato ed è padre di un bel bambino, vive in Italia, ed Ellery Queen e Richard Queen sono solo pseudonimi. Ma la cosa più interessante, una vera chicca riguarda il famoso J.J.McC. C’è chi ha osservato, infatti, che un  McClure è presente in uno degli ultimi romanzi di Ellery Queen, Face to face; nessuno si è accorto però che questo nominativo rimanda a chi bandì il concorso per il quale i due Queen concorsero con il loro primo romanzo: la rivista McClure.

I due cugini avevano adottato una tecnica (che potremmo dire) di marketing: creare una finta querelle sul valore dei romanzi (indiscusso) rimpallandosi accuse e contraccuse e sfidandosi pubblicamente e vicendevolmente su presunte qualità nel risolvere deduttivamente dei delitti. Il tutto era partito con la convocazione presso una scuola di giornalismo dei due, al fine di illustrare le tecniche di scrittura: era stato tirato a sorte chi dovesse recarvisi ed era uscito Lee che vi si era recato mascherato. Sfruttando la maschera nera, in un secondo tempo, i due presero ad affrontarsi anche sul palcoscenico: Dannay impersonava Barnaby Ross, mentre il cugino Ellery Queen. La popolarità dei due arrivò alle stelle e cominciò a circolare persino la voce che Ellery Queen fosse un altro pseudonimo di S.S. van Dine, mentre Barnaby Ross lo era del grande critico americano Alexander Woolcott (che si vantava di essere stato fonte di ispirazione per il Nero Wolfe di Rex Stout). Poi un bel giorno, il 10 ottobre 1936, sul Publishers Weekly, i due ammisero che era stato un loro bluff, riuscitissimo, per imporre dei romanzi che forse avendo un protagonista diverso avrebbero potuto risentire della disaffezione del pubblico dei lettori, oltre che la stessa produzione vertiginosa di romanzi avrebbe potuto inflazionare le vendite degli stessi.

Nel 1933, intanto, era comparso The Twin Siamese Mystery, che s’impose nella loro produzione per svariati motivi, come uno dei migliori romanzi in assoluto del loro primo periodo creativo, contraddistinto dall’oramai celebrata “Sfida al lettore”.

Nevins dice in merito al romanzo in esame: “..Nel successivo The Siamese Twin Mystery (II caso dei fratelli siamesi, 1933) Queen tenta nuovamente di infondere una dimensione filosofica nell’enigma deduttivo for­male, riscuotendo un notevole successo ad entrambi i livelli. Ellery e suo padre, di ritorno da una vacanza in Canada, restano intrappolati dall’incendio di una foresta su un fianco della Arrow Mountain. La loro unica speranza consiste nel salire verso la cima della montagna, e un bel po’ dopo il tramonto scoprono una casa sulla vetta. Ora che l’incendio divora l’intera base del monte, i due Queen trovano assai gradita l’ospitalità loro offerta dal dottor John Xavier, eminente chirurgo ormai in pensione, e dalla sua strana famiglia, ma ben presto appare chiaro che qualcosa non va per il verso giusto. Chi è l’odioso ciccione che vaga per la montagna? Perché diversi anelli sono stati rubati all’interno della casa durante la settimana preceden­te? Chi è la donna sconosciuta che si nasconde in una delle camere da letto del piano superiore? E chi o che cosa è quella creatura simile a un granchio che si aggira per i corridoi della casa di notte? Il mattino dopo il dottor Xavier viene trovato ucciso da un colpo d’arma da fuoco nel suo studio, con un solitario dinanzi a sé e la metà strappata di un sei di picche in mano. I due Queen devono risolvere il delitto da soli, poiché ormai l’incendio ha isolato la vetta, e nonostante l’incalzare delle fiamme ha presto luogo un secondo omicidio, questa volta con una vittima che stringe in pugno la metà di un fante di quadri. Il culmine viene raggiunto allorché il fuoco raggiunge la casa e tutti i membri della famiglia Xavier si rifugiano in cantina nell’attesa che le fiamme giungano fino a loro” . Come si vede, ce n’è abbastanza di carne da mettere sul fuoco, anche se onestamente, va riconosciuto che il romanzo, nonostante sia uno dei migliori del primo periodo creativo, è tuttavia meno intricato e cervellotico di The Greek Coffin Mystery , “Il Caso Khalkis”, che invece viene riconosciuto da molti e anche dallo stesso Nevins, come il “..romanzo investigativo più complicato, più spaccacervello e meglio costruito che sia stato pubblicato negli Stati Uniti durante l’Età dell’Oro del genere poliziesco”.

Innanzitutto vediamo come Arrow Head, la casa sulla vetta di una montagna attorniata dal fuoco che divampa, prefiguri un caso di Camera Chiusa allargata: è come un’isola, attorniata dal mare, da cui l’assassino non può fuggire, come “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie o ancora in modo più attinente, come l’assassinio in una casa al di fuori della quale c’è un ciclone e quindi da cui non si può uscire, in “La casa nel ciclone” di Newton Gayle. Le fiamme che attorniano Arrow Mountain, più o meno tra il Wyoming e l’Utah, costringono tutti gli occupanti della casa, tra cui anche l’omicida e il detective, a convivere fino a quando non sarà finita. In un certo modo Ellery, rinchiuso in cantina con gli altri, spiega la soluzione, quale antidoto alla paura di finire arsi: è un modo come un altro per non pensare ad un male più grande, riflettendo su un male più piccolo in quel momento: quello scaturito in quella casa e di cui lui, in quel momento, è supremo arbitro.

Il romanzo si pone come uno degli esempi migliori di quella caratteristica tutta queeniana, che è “the dying message”,  comparso per la prima volta in occasione del terzo omicidio di The Tragedy of X: la vittima prima di esalare l’ultimo respiro, cerca di indirizzare con un messaggio specifico, chi saprà interpretarlo in maniera appropriata: qui per es. è una carta, prima il sei di picche, poi il fante di quadri, tagliato a metà: vedremo quale altro significato potrà avere nel prosieguo del ragionamento, ma qui limitiamoci semplicemente a segnalarlo. Faccio notare una cosa che mi è balzata alla mente: leggendo questo romanzo, al tempo in cui fu scritto, chiunque, senza averne la prova certa, avrebbe però potuto ipotizzare (oltre quello che si era letto nell’introduzione a The Roman Hat Mystery) un legame tra Barnaby Ross ed Ellery Queen, sulla base proprio di Tragedy of X: infatti, The Twin Siamese Mystery, muore un X anzi, ne muoiono due: quindi, a ben donde, anche questa è una Tragedia di X !

Tuttavia questo mirabolante romanzo si segnala per una serie di estrose deduzioni e variazioni sul tema della falsa confessione; e per due caratteristiche: la prima, connaturata alla vicenda narrata, è la mancanza del corollario degli agenti e del sergente Velie che di solito compaiono nei primi romanzi; la seconda, molto più importante, è la mancanza di The Challenge to Reader, “La sfida al Lettore”. Infatti questo è il primo romanzo in cui manca, anzi per essere più preciso, in cui sembrerebbe mancare: infatti, nella cantina, mentre al di fuori il fuoco divampa nella casa e minaccia le loro stesse vite, Ellery si rivolge ai presenti e chiede: “..Prima che vi racconti la mia storiella, non c’è nessun altro, come Smith, che ha una confessione da fare? Ci fu silenzio. Ellery studiò lentamente i loro volti, uno per uno.. – Ostinati sino alla fine, vedo. Allora dedicherò i miei ultimi..i miei prossimi momenti a questa faccenda..” (E. Queen,  The Twin Siamese Mystery, Il Caso dei Fratelli Siamesi, Speciale Del Giallo Mondadori n.38 del  2003, trad. Gianni Montanari, pag. 229). Stefano Benvenuti e Gianni Rizzoni, autori di una celebrata opera Mondadori di molti anni fa, “Il Romanzo Giallo”, affermavano che in realtà, anche se non vi è alcuna segnalazione di una “Sfida al Lettore”, essa fosse camuffata : siccome l’invito al colpevole non avrebbe avuto senso perché quello non si sarebbe certamente fatto avanti, essi concludevano che l’invito non poteva che essere rivolto al lettore stesso.

Tuttavia io personalmente son rimasto sempre un tantino disorientato da questa sofistica spiegazione: perché mai, proprio in un romanzo come questo, la sfida sarebbe dovuta mancare e non anche in altri? Io invece non vorrei che “La Sfida al Lettore” in realtà ci fosse, magari nella prima edizione, quella rarissima di Stokes, e poi con la continua pubblicazione in formati economici e non integrali, questa forma di sfida fosse andata persa. Del resto degli scritti di Ellery Queen, alcune cose sono rarissime e non solo le prime edizioni di Stokes ma anche per esempio gli esemplari della prima rivista di racconti pubblicata dai due cugini. Comunemente si sa che essi fondarono la EQMM; ma non si sa per esempio che, prima della pubblicazione di essa a partire dal 1941, essi avessero tentato di pubblicare un’altra rivista (che avrebbe dovuto presentare romanzi e racconti selezionati), di cui uscirono solo quattro numeri (rarissimi e i cui prezzi nel caso si trovassero varrebbero cifre astronomiche) mentre un quinto in forza di pubblicazione, non fu pubblicato: Mistery League.

La critica ha dibattuto a vario modo sull’importanza di questo romanzo, non tanto per la sua struttura, ma per ciò che sottende alla sua realizzazione. Infatti è questo il primo romanzo in cui molti segnali disseminati nella trama, rimandano ad un malessere sempre più forte, un vero e proprio disagio, che si era instaurato tra i due cugini. Essi infatti, pur uniti dalla loro storia e dalle loro comuni origini ebraiche, pur avendo insieme creato dei best sellers, poco a poco si erano resi conto di essere entrati in un gioco che andava al di là della loro sfera personale (che avrebbe compreso poi testi per trasmissioni radiofoniche, sceneggiature per il cinema, e la creazione dell’ EQMM, L’Ellery Queen Mystery Magazine, dove sarebbero state raccolte le migliori storie brevi, racconti, del panorama poliziesco internazionale). I due non si sopportavano più, e finivano spesso per litigare, anche in maniera plateale, come quando, mentre erano in uno studio radiofonico, venne sospesa una trasmissione a causa delle grida che si sentivano provenire da altro ambiente dove stavano “discutendo” i due cugini: andò a finire, che per non stare neanche troppo vicini, uno andò a vivere in e l’altro in: Manfred Lee si occupava della stesura del romanzo e dello stile, mentre Frederick dell’invenzione della messinscena narrativa e del plot. In pratica il modus agendi della coppia si è potuto evincere allorché alcuni anni fa, Crippen & Landru ha pubblicato l’ultimo romanzo inedito della coppia: si tratta di Tragedy of Errors, un canovaccio lungo una settantina di pagine scritto da Dannay e poi, dopo la morte di Lee, rimasto in un cassetto fin quando, dopo la morte di Dannay, è stato riscoperto: “Danny” scriveva le trame e ideava il plot, mentre poi a stendere il romanzo nella forma definitiva, ci pensava “Manny”. Insomma..la mente e il braccio!

Remi Schulz, un grande studioso di enigmi,francese, e grande esperto di Cabbala, ha scritto degli interessanti articoli, esaminando alcuni aspetti dell’opera di Queen: le tesi che egli porta avanti non ci sentiamo del tutto di condividere, in quanto egli tendenzialmente cerca di portare acqua al suo mulino, ma alcune delle sue considerazioni sono veramente interessanti, tanto più che il significato nascosto nei testi, è la caratteristica della Kabbalah, dottrina che due ebrei come i due cugini dovevano conoscere se non condividere : “..est le septième roman des Queen, effectivement paru fin 33, l’un des plus réussis de cette première période fort prisée par Borges qui s’est déclaré peiné de la bifurcation des Queen hors du sentier de la pure déduction..”.
Remi Schulz cita anche un celebre racconto di Juan Antonio Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano (Borges è presente con qualche racconto in EQMM)  facendo riferimento al fatto che ad un certo punto la via che i due cugini avevano percorso insieme, si fosse arrestata dando origine ad una biforcazione sul sentiero della pura deduzione: in pratica secondo lui Borges, scrivendo il racconto si sarebbe metaforicamente riferito ai due Queen. Questa a noi pare un’interpretazione presa per i capelli: Schulz in sostanza rileva la somiglianza di Herbert Quain, scrittore inventato e protagonista di un altro racconto, Esame dell’opera di Herbert  Quain, con Ellery Queen, che per lui è fortemente indicatrice, anche perché Borges era stato ospitato su EQMM e il racconto che di lui cita è poliziesco. Il fatto è che la comune interpretazione di Il giardino dei sentieri che si biforcano, è basata sulla presa in esame del Tempo non in senso assoluto ma relativo, “una rete crescente di tempi divergenti, convergenti e paralleli..che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli comprende tutte le possibilità” (J.L.Borges : Finzioni – Trad. Franco Lucentini, Einaudi, 1955 ristampa 2010,pagg.90-91).

Interpretazione metafisica, potremmo dire fantascientifica, ma non poliziesca. Va detto però che Il giardino dei sentieri che si biforcano è del 1941, tempo in cui i due probabilmente avevano già maturato la volontà di stare divisi (anche se apparve su EQMM solo nell’agosto del 1948: traduttore fu Anthony Boucher). E se Schulz pensa a Queen come ispiratore di Quain è perché, ma non lo dice, c’è qualcosa che lega indissolubilmente questo ipotetico romanzo di autore inventato, a Ellery Queen: il narratore dice che “..L’editore lo mise in vendita negli ultimi giorni del novembre 1933. Ai primi di dicembre dello stesso anno, le gradevoli e ardue involuzioni del Siamese Twin Mystery affaccendarono sia Londra che New York..” (J.L.Borges: Finzioni, Esame dell’opera di Herbert Quain, trad. Franco Lucentini, Einaudi, 1955 ristampa 2010, pag.64).

Prendiamo in esame un altro passo assai significativo del suo studio: “..Le mystère du jumeau siamois, du Siamese twin, est peut-être une première manifestation de ce malaise entre les cousins. Alors que tous les premiers Queen sont parus avec la reine de carreau (Queen of diamonds) en couverture, Dannay a convoqué ici une dame Carreau d’origine française mère de jumeaux xiphopages ; un chirurgien spécialisé envisage de les séparer, il est assassiné ; un des jumeaux est soupçonné à cause d’un valet de carreau coupé en deux (une double figure tête-bêche dans un jeu américain), ce qui pose le délicat problème du châtiment..”.

Per chi non conosce il francese, Schulz afferma che “il mistero del fratello siamese può essere una prima manifestazione di questo disagio dei due cugini. Allora che tutti i primi (romanzi) di Queen presentano in copertina una regina di quadri, Dannay ha convocato qui una signora Carreau di origine francese, madre di gemelli siamesi; un chirurgo specializzato in operazioni di separazione viene assassinato; uno dei gemelli è sospettato a causa di un fante di quadri tagliato in due pezzi (una doppia figura nel gioco di carte americano), che pone il  delicato problema della pena..La nonna comune dei due cugini Dannay e Lee si chiamava Rachele, il nome della regina di quadri nel gioco francese”.

In effetti quello che dice Schulz può avere una sostanza reale: le prime edizioni dei romanzi di Queen, prima de “Il Caso dei fratelli siamesi” presentano in effetti una regina di quadri in copertina, che rappresenterebbe come logo la ditta dei due cugini: perché proprio una regina di quadri e non di picche o di fiori o di cuori? Schulz dice che qui c’è una Carreau (vero) e Madame Carreau madre  dei due fratelli siamesi metaforicamente rappresenta una donna di quadri, madre di due fratelli siamesi (un nome, Ellery Queen, che nasconde l’unione di due persone, che sono per forza uniti pur avendo due menti e due corpi diversi, e che vorrebbero distaccarsi: i due cugini); c’è un chirurgo esperto in separazioni di fratelli siamesi che muore assassinato (in sostanza nel momento in cui i due cugini avrebbero potuto essere divisi, è intervenuto qualcosa a sancire la loro indivisibilità). Il fratello siamese che viene sospettato lo è a causa di un fante di quadri diviso in due (una carta che ha il fante speculare nelle due metà della carta): ancora una rappresentazione della riunione di due persone in una. Tacciamo sul resto: la mano sinistra aperta e quella destra chiusa, il ragionamento sul fatto che non fosse mancino, e quindi sulla volontarietà dell’atto, tanto più che la rigidità cadaverica sarebbe cominciata subito dopo la morte, a causa del fatto che fosse diabetico: ma questa particolarità è presente anche in un altro romanzo, The Egyptian Cross Mystery, scritto precedentemente a questo, insomma un particolare che i due avrebbero utilizzato adattandolo ad altro contesto.

Ma per quale motivo innanzitutto i due Queen avrebbero scelto una Donna di quadri invece che quella di altro seme? Il seme del quadri secondo noi è peculiare nei quattro e ha una caratteristica che gli altri non hanno: rovesciata, è sempre un quadri, non c’è cioè un verso: le picche rovesciate sono rovesciate, i cuori e i fiori altrettanto, ma il quadri rovesciato non lo è, non si può vedere se lo sia, è la rappresentazione dell’unità, della perfezione dei semi. Tuttavia la ragione più profonda della scelta, è data dalla storia familiare comune ai 2 cugini, singolarmente collegata ad una carta da gioco. Se riandiamo all’origine dei giochi di carte, troviamo che la capitale vera e propria, il luogo dove per la prima volta le carte francesi furono usate e da dove si diffusero altrove, nei Paesi limitrofi, fu, dal XVI secolo, la città di Rouen: lì in particolare, alle carte con soggetti (ai fanti, alle regine, ai re) vennero dati dei nomi. In origine la tabella dei nomi era la seguente:

Re di Picche = David, Re di Cuori=Alexander (Alessandro Magno), Re di Quadri= Caesar (Giulio Cesare), Re di Fiori=Charles (Carlo Magno); Fante di Picche=Hector (Ettore, principe di Troia),Fante di Cuori=La Hire (Etienne de Vignoles, comandante dell’esercito francese nel tempo di Giovanna d’Arco), Fante di Quadri=Ogier (uno dei cavalieri di Re Artù), Fante di Fiori=Judas Maccabaeus (Giuda Maccabeo); Regina di Picche= Pallas (Pallade Atena), Regina di Cuori= Rachel (Rachele, moglie di Isacco),Regina di Quadri=Argine (anagramma di Regina), Regina di Fiori=Judith (Giuditta).

Secondo una interpretazione molto interessante, alcuni di questi nomi sarebbero delle storpiature francesi: così Argine (che non si è ancora riusciti a capire a chi si riferisse) deriverebbe da Argeia, mitica principessa della città Argo; Rachel non si riferirebbe a Rachele ma a Ragnel moglie di Sir Gawain, un altro dei cavalieri della Tavola Rotonda; e infine La Hire potrebbe derivare da Aulus Hirtius, uno dei comandanti di Giulio Cesare. In questo modo le 12 carte a soggetto apparterrebbero a 4 grandi famiglie: personaggi biblici, personaggi di derivazione greca, personaggi di derivazione romana, personaggi cristiani. Tuttavia, quando le carte da gioco si furono adeguatamente diffuse in Francia, alla terminologia di Rouen si affiancò quella di Parigi, che aveva delle differenze, una delle quali a noi interessa particolarmente:  il Re di Cuori diventa Charles e quello di Fiori, Alessandro Magno, mentre gli altri sono invariati; il Fante di Picche è Ogier, quello di Cuori.. La Hire, di Quadri..Ettore, e di Fiori..Judas Maccabaeus; infine la Regina di Picche è Pallade, la Regina di Cuori è Judith, la Regina di Quadri è Rachel, la Regina di Fiori è Argine. Puntiamo l’attenzione su Rachel=Regina di Quadri: le madri dei due cugini, le sorelle Rebecca e erano figlie degli emigranti ebrei russi, Leopold e Rachel Wallerstein : Rachel..ecco il nesso!  Del resto anche Remi Schulz vi accenna : “La grand-mère commune aux cousins Dannay et Lee se prénommait Rachel, le nom de la reine de carreau dans les jeux français”. Tuttavia Remi Schulz per il romanzo in questione in pratica si ferma qui; noi invece.. andiamo  avanti.

Notiamo innanzitutto che a questo punto, se Rachele, Regina di quadri nelle carte francesi, era anche il nome della nonna materna dei 2 cugini, e se nel romanzo abbiamo una Madame Carreau ( che secondo Luca Conti potrebbe esser stata una reminiscenza di Madame Laveau, la regina del Voodoo in New Orleans) e Carreau in francese designa il seme di quadri  madre dei due gemelli siamesi  Francis e Julian, significa che possiamo idealmente e giustamente associare Francis e Julian a Dannay e Lee, e la stessa carta, il Fante di Quadri (doppia nella specularità dei due fanti) può, in virtù dell’associazione Carreau=Quadri=Queen, rappresentare non solo uno dei due fratelli siamesi, ma anche uno dei due cugini Queen, come pure, più ancora singolarmente, la carta strappata in due può significare una unione..strappata: la divisione di una unità in due.

Ma quello che ho osservato in particolare è una cosa su cui nessuno ha posto la propria attenzione: per quale motivo il chirurgo si chiama Xavier? Innanzitutto Xavier non è un nome comune in USA, almeno non è comune come John, Bill, Jack: dove i Queen avrebbero tratto l’ispirazione e perché avrebbero proprio scelto questo nome a rappresentare il chirurgo che ha il compito nel romanzo di separare i due fratelli siamesi?

Osservo innanzitutto che il romanzo è del 1933: da alcuni anni aveva cominciato a suonare in New York un grande musicista di origine spagnola, che aveva messo su una propria band, specializzandosi nella musica d’accompagnamento e soprattutto in tanghi, per cortometraggi e lungometraggi, e a partire dal 1931 era diventata la principale attrazione della stagione del Waldorf Astoria Hotel, uno dei più grandi e conosciuti di New York : Xavier Cugat. E’ possibile che il grande arrangiatore e musicista spagnolo-cubano, abbia fornito l’ispirazione per quel personaggio del romanzo? Secondo me, potrebbe essere possibile, ma comunque poi bisognerebbe vedere il perché proprio questo nome e non un altro li avesse colpiti: secondo me, all’origine della scelta del nome, ci fu la lettera iniziale: la X. Perché?

Abbiamo già fatto notare come questo romanzo si apparenta idealmente a The Tragedy of X , e quindi X potrebbe esser stata scelta per legare i due romanzi. Tuttavia, la X, nel nostro caso, potrebbe rappresentare il “bifrontismo” dei 2 cugini, il loro “doppio”: infatti la  X, la lettera CHI greca, rappresenta il Chiasmo, che ha una forma a croce: gli elementi si dispongono ” in corrispondenza inversa” l’uno nel confronto dell’altro, per cui ciò che è in basso a sinistra si specchia in ciò che è in alto a destra, e così via. Del resto la corrispondenza a chiasmo come coppia di opposti, si apparenta a quella delle due immagini speculari secondo un asse simmetrico, rivolte una verso l’altra o entrambe che guardano le due direzioni opposte, un bifrontismo che ci richiama il Dio Giano (tanto più che se notiamo la rappresentazione del dio bifronte e lo stilizziamo potremmo ricavarne una X. Poi chissà come pensandoci, ho notato come eufonicamente Jianus sia molto simile a John, il John di Xavier: in Ellery Queen tutto ciò che sembrebbe dettato dalle coincidenze non lo è e leggere tra i righi non è un esercizio campato in aria, ma connesso con le credenze ebraiche dei due cugini. Tra i due quello che era più versato a questi enigmi era ovviamente Dannay, tanto più che era lui a creare le basi delle sceneggiature e del plot : era lui a sentire di più questa necessità di staccarsi dal cugino?

E Mark, l’altro fratello di John? Anche lui è un nome scelto apposta? Remi Schulz, sempre nel suo saggio, nota la singolarità del fatto che Twain sia molto vicino come forma della parola a Twins (Siamesi). Coincidenza ?

“..Dannay a écrit seul un roman, publié en 53 sous son vrai nom de naissance Daniel Nathan, The golden summer, basé sur des souvenirs d’enfance… Si The golden summer est bien plus qu’un doublon de Tom Sawyer, son titre semble calqué sur celui du premier roman de Twain, The gilded age (L’Age doré)”. Ci sembra di no, e ci sembra anche che l’osservazione di Schulz sia ancorché interessante: Dannay scrisse nel’53 un romanzo che parlava della sua infanzia, The Golden Summer, un romanzo molto simile se vogliamo all’oggetto del Tom Sawyer di Mark Twain, ma ancor più vicino nel titolo al primo di Mark Twain : The Gilded Age, “L’Età d’Oro”.

Osserviamo che tuttavia ambedue i soggetti, il fratello di John Xavier, Mark Xavier e Mark Twain hanno lo stesso nome: un altro tentativo di Dannay di collegarsi alle loro persone, un’ulteriore metafora?

Se proprio vogliamo, il tema del doppio è molto insistente nella produzione dei due cugini da questo momento: ho notato un’altra cosa di cui nessuno si è accorto,che cioè, per esempio, per fare un ulteriore collegamento alla questione dibattuta in questo articolo, il nome Mark, non compare solo in questo romanzo, ma anche altrove: c’è per esempio un radiodramma che si chiama “The Adventure of the Mark of Cain” . Il Marchio di Caino, cioè il marchio dell’assassino di Abele,  richiama singolarmente nel suo titolo anche due nomi fortemente caratterizzanti nella produzione queeniana: il Mark di cui abbiamo parlato, che è parte di un doppio (John-Mark) e Cain, che è parte di un altro doppio (Abel Bendigo-Cain Bendigo) in The King is Dead, “Il Re è Morto”, in cui compaiono altri due fratelli. Tra l’altro, a evidenziare l’importanza di queste accezioni nel continuum dell’opera queeniana, va ricordato che anche un capitolo di “There Was an Old Woman, si chiama “The Mark of Cain”.

Mark, Xavier, due fratelli. Ma..Xavier chi ci ricorda anche? A noi ricorda anche il telepate capo degli X-Men, il Professor Charles Xavier. Possibile che Stan Lee abbia guardato a Ellery Queen? E’ curioso, ma anche se non sarebbe proprio strettamente attinente ai richiami dei due Queen con il tema del doppio, notiamo come non solo Xavier ricorra nella saga degli X-Men (ancora una volta la X). Infatti, anche qui c’è un doppio: Xavier e il suo fratellastro, il malvagio prima e poi redento “Phenomenon”, che guarda caso si chiama Cain Mark . Strano, vero? E se proprio volessimo analizzare la figura, potremmo anche dire che i due Xavier sono molto simili: come John Xavier si occupa della separazione di fratelli siamesi, cioè di fratelli uniti mostruosamente a causa di una disfunzione genica, anche Charles Xavier si occupa di esseri umani nati mutanti in ragione di un gene particolare : il gene X. E se volessimo ancor più cercare il pelo nell’uovo, potremmo dire che i 2 fratelli siamesi non sono altro che dei mutanti. Quindi..

Nel mare delle cose interessanti di questo romanzo, mi è balzata in mente un’altra cosa che desidero far notare: nella mano destra di John Xavier viene ritrovato un frammento di “Sei di picche”. Il perché stringesse un frammento invece che una carta intera è già una cosa che mi ha fatto pensare e poi non viene spiegato: una supposizione che mi verrebbe spontanea è che John Xavier avesse strappato la carta e avesse stretto il frammento nel pugno per non far notare all’interno della mano qualcosa di anomalo che sarebbe potuta essere una carta; però, essa, anche se accartocciata, comunque non sarebbe stata visibile, e lui, medico, ancorché diabetico, avrebbe dovuto supporre una sua immediata rigidità cadaverica.

Ce n’è tuttavia un’altra curiosa: nel romanzo c’è il disegno di un sei di picche diviso in due frammenti: il primo, quello stretto nel pugno non è spiegazzato e rappresenta due semi interi e le punte di altri due; l’altro, quello spiegazzato, due semi interi e le radici visibili di altri due divisi per la metà. Ora, in cartomanzia, il sei di picche rappresenta un avviso per un errore che si potrebbe fare ma che non durerebbe molto (l’errore di aver prima individuato il colpevole, poi di averlo erroneamente scagionato ed infine di averlo inchiodato nuovamente?). Ma se prendiamo in esame i due frammenti ci troviamo di fronte ad un frammento che vale due picche e ad uno che ne vale quattro; ora il due di picche rappresenta una divisione (amore o amicizia), il quattro, una decisione difficile che si sta per prendere: la decisione difficile dei due Queen di separarsi? Tuttavia, nel primo capitolo della Parte Seconda, “Il sei di picche”, osserva Richard Queen che John Xavier ha utilizzato una carta con cui stava facendo un solitario ( allorché l’assassino gli ha sparato due proiettili nello stomaco: ancora la simbologia del due, quasi che nel momento in cui qualcuno volesse intervenire per separare l’unione di due, essi stessi volessero non essere separati) : “..Il sei in questione era tra il sette ed il cinque di quadri – mormorò l’ispettore”. In cartomanzia, il cinque di quadri rappresenta un’atmosfera di amicizia o di lavoro amichevole, mentre il sette di quadri il dover prendere una decisione su qualcosa che non si è preso precedentemente in considerazione. Mi sembra chiaro il riferimento al dover prendere una decisione difficile su una divisione che non si è voluta mai prendere in esame e che porterà ad una atmosfera di amicizia o di lavoro amichevole: una volta separati, i due cugini lavorarono alla stesura di molti altri romanzi, dividendosi i compiti ed evitando purtuttavia di stare assieme. Interpretazione arbitraria?

Ma, è bene ricordarlo, il pezzo di carta che John Xavier tiene stretto in pugno è quello con solo due semi di picche: quindi..divisione; mentre è stato accartocciato e buttato via, il secondo pezzo della carta, quello che significava “decisione difficile che si sta per prendere”: in altre parole, che l’ultima parola per la divisione (dei due cugini?) era già stata presa. E la decisione è tenuta dalla mano destra mentre la mano sinistra non ha nulla in mano: cioè, ancora ipotizzando, si potrebbe dire che la mano destra voleva la divisione, la mano sinistra no. Mano destra, mano sinistra, che appartengono alla stessa persona: altra rappresentazione per due diverse entità (Dannay e Lee) che fanno parte di un tutt’uno (La ditta comune Ellery Queen)? Questo ci porterebbe ad un’ultima domanda che per il momento, in mancanza di riscontri di natura biografica, rimane senza risposta: quale dei due cugini voleva la separazione e chi no? Si sa che Dannay era piuttosto introverso e aveva dei guai in famiglia mentre il cugino era di altra natura. Ma si potrebbe ipotizzare tutto ed il contrario di tutto, in mancanza di dati biografici oggettivi, su chi volesse, all’interno della coppia, più dell’altro distaccarsi: Dannay che era l’ideatore della trama e della messinscena del plot vi accenna, ma poi..nulla più.

Infine c’è un’altra cosa, non detta, che mi si è rivelata in tutta la sua importanza alla fine del libro: il Sei di Picche a saperlo interpretare bene poteva anche essere un modo per identificare l’assassino: stranamente Ellery Queen si ferma al valore della carta, il Sei e all’acrostico che lo indica : infatti  ”Il dottor Xavier..prima di morire ha accusato Six di averlo assassinato” (Cap. V; taccio sul significato delle parole dell’acrostico per non rivelare il nome dell’assassino). Si ferma a ciò e non va oltre. Molto strano. E io suppongo che originalmente Dannay avesse pensato di far rivelare a Ellery dell’altro, ma poi non l’avesse fatto. Cosa? Semplice. Perché Sei di picche e non quadri o fiori o cuori? La forma? Il significato di Picche = Morte? Secondo me c’è dell’altro.
E’connesso alla terminologia francese, già utilizzata nel caso di Carreau = Quadri : in francese, Picche si dice Pique. Ora, qual è la strana affezione di cui è affetto l’omicida, e che si vedrà è alla base dell’intero romanzo? La cleptomania. In altre parole, c’è qualcuno che durante il romanzo ruba degli oggetti: anelli, ma anche di valore insignificante. E quale verbo in francese significa rubare? Voler, ma anche Piquer. Una cosa che sicuramente oltre a me anche Dannay deve aver pensato all’epoca, perché il riferimento mi sembra non casuale ma troppo diretto. E perché allora Ellery Queen non lo rammenta alla fine? Forse per non ricalcare il fatto di esser stato distolto da altre cose durante l’avventura? Ellery molto spesso finisce per fare il sapientone nei suoi primi romanzi, cioè tende a polemizzare e disquisire anche troppo, a prendere dei  granchi e poi alla fine essere costretto a fare dietro-front: non accade solo qui ma anche altrove. O forse è il segno di una precedente stesura utilizzata non del tutto? Non lo so.

Anthony Boucher, grande scrittore e critico di letteratura poliziesca, durante un’intervista, nel 1951, ebbe a dire : “The detective story itself was an American invention; and after a long period of British pre-eminence, Ellery Queen as writer and editor has done as much as anyone (and probably more) to make it once more an American possession. . . Ellery Queen is the American detective story”.

Possiamo non essere d’accordo?

                                                                                                                   Pietro De Palma

Ellery Queen : La lampada di Dio (The Lamp of God, 1935) – trad. non specificato – in “Le Nuove Avventure di Ellery Queen” (The New Adventures of Ellery Queen, 1940), Mondadori, 1984

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The Lamp of God – nell’ambito dei racconti e delle novelle di Ellery Queen – è un capolavoro. Ed è un lavoro che ha tre versioni diverse, a significare quale importanza dovette avere, all’epoca, nella produzione dei due cugini.

La prima, del 1935, è in forma di semplice racconto. Apparve nella rivista Street & Smiths Detective Story Magazine nell’ottobre del 1935, con il titolo The House of Haunts, poi mutato in The Lamp of God quando fu compresa nella raccolta di racconti The New Adventures of Ellery Queen, nel 1940. Infine nel 1950, fu pubblicata come novella di per sé.

In sostanza Ellery è contattato da un suo amico avvocato, Thorne, per un affare misterioso: dovrà in pratica fare da testimone alla venuta di Alice Mayhew, la figlia di un certo Sylvester Mayhew. Thorne ha paura che qualcuno voglia farle del male, giacchè è lei l’erede di una fortuna pare in oro, lasciata dal vecchio Sylvester e nascosta in una casa, “La Casa Nera”. Thorne sospetta che colui che la sta aspettando, il dottor Reinach, marito di Milly, figlia della sorella di Sylvester, Sarah Fell, o qualcun altro dei presenti in casa, voglia attentare alla sua vita per togliere di mezzo l’erede designata ed uscita all’ultimo momento, togliendo di mezzo dall’eredità i vecchi eredi.

Da quando scende dalla nave, fino a quando arrivano a destinazione, Ellery e Thorne stanno assieme alla ragazza e a Reinach. Reinach li conduce nelle proprietà della famiglia Mayhew: lì sorge La CASA NERA, dimora del vecchio Sylvester fino alla morte, accanto a LA CASA BIANCA.

LA CASA NERA è in condizioni precarie: sporca fino all’inverosimile, puzzolente, è stata il rifugio del vecchio impazzito in età avanzata e vissuto in condizioni di indigenza, voluta per risparmiare il possibile. Sylvester è morto alcune settimane prima per cause naturali (così dice il dottor Reinach che era anche il suo medico) e da allora La CASA NERA è disabitata: gli eredi hanno provato a cercarvi l’oro, ma senza risultati. Sono quasi arrivati a demolirla per trovare tutto l’oro; eppure, un posto facile in cui un vecchio avrebbe potuto nascondere una grossa quantità d’oro non l’hanno trovato. E ora, arriva anche un’erede inaspettata e non accettata. E’ normale che Thorne pensi a proteggere la ragazza.

Al loro arrivo, la ragazza si slancia su un portafotografie che conserva la foto della madre morta qualche anno dopo che lei era stata abbandonata da Sylvester e aveva messo al mondo la figlia. Sylvester poi si era risposato con una ricca vedova con un figlio, e in seguito dopo aver convinto la sprovveduta donna ad intestargli le sue sostanze, l’aveva scacciata cosicchè lei era morta di stenti. Poi le sostanze della donna fatte fruttare avevano costituito il cosiddetto tesoro.

Assegnate le stanze agli ospiti, Ellery sospetta che davvero qualcosa di poco pulito aleggi in quel posto: qualcuno infatti ha tolto da ogni serratura delle porte il cilindretto, cosicchè le porte delle stanze possono essere aperte in qualsiasi momento anche senza il consenso di chi vi dimori. Dopo la cena, dopo un sonno pesante, gli ospiti si risvegliano in un paesaggio fiabesco e rimangono a bocca aperta: ha nevicato tutta la notte, la neve circonda con una coltre immacolata ogni cosa intorno, ma allo stesso tempo solo LA CASA BIANCA. Infatti, nello sbigottimento di tutti, come se una strega avesse fatto un sortilegio, LA CASA NERA è scomparsa e là dove c’era, c’è solo terra compatta.

Per quanto Ellery cerchi di ragionarvi, per quanto Thorne e gli altri si sforzino di andare avanti, questa cosa incredibile sovrasta ogni momento delle giornate da quel momento in poi. Il tutto condito da condizioni di neve e di freddo glaciale che isolano LA CASA BIANCA da ogni strada percorribile. Isolati come si trovano, gli occupanti della casa cercano di venire a capo della situazione. Sembra quasi che qualcosa di sinistro li sovrasti, anche se Ellery in fondo suppone di essere manipolato anche se non può in nessun modo provarlo.

In casa vi sono loro, la moglie e la zia molto vecchia, psicologicamente instabile da quando la figlia Olivia morì in un incidente automobilistico, e un colosso alto che fa da factotum di Reinach e che si occupa anche dei lavori umili (procurare la legna, guidare l’auto almeno fino a che non si guasta): Nicholas Keith.

Oltre che risolvere il problema della sparizione della casa. Ellery deve risolvere anche un altro problema: la sera dell’arrivo il solo era tramontato davanti alla sua finestra, e il mattino dopo il sole vi sorgeva davanti: come possibile? Un sortilegio. Ma poi il dilemma non può essere risolto perché vi è neve dovunque e il sole non appare più, per cui Ellery pensa di aver avuto le traveggole. Quando però dopo qualche giorno, non nevica più ed Ellery vuole andare farsi una passeggiata, entrando nel bosco e vedendo se può ritrovare la strada, qualcuno lo segue e lo tramortisce. Lo trova Thorne che gli dice di averlo trovato così. Ma perché anche Thorne era andato da quelle parti?

Fatto sta che l’atmosfera di casa che è diventata sempre più insostenibile giacchè il brutto tempo ha condizionato gli abitanti della casa a rimanere gioco forza insieme, convince la ragazza a chiedere a Thorne e Ellery di essere accompagnata in città, perché vuole andarsene giacchè dell’eredità non sa che farsene. Ma dopo aver percorso qualche miglio con la macchina di Thorne che il ragazzo ha riparato e rifornito di benzina, Ellery dopo aver chiamato dei  poliziotti e assicuratosi di essere seguito da loro, annuncia ai due che devono ritornare indietro pur se Alice vorrebbe veramente andarsene. Allorchè Ellery, imboccata la strada si ferma davanti a LA CASA BIANCA , vedono con sorpresa che accanto ad essa è ricomparsa LA CASA NERA.

Ellery sorprende tutti quanti dentro LA CASA BIANCA e dopo poco, alla presenza della polizia, accusa Reinach e una persona tra quelle lì convenute di aver organizzato tutto l’inghippo, oltre che di aver ucciso Sylvester e aver ucciso Alice, con la complicità del gigante di casa. Solo che nell’incredulità di molti, tra cui lo stesso Ellery, appare un’altra Alice, identica alla prima, in compagnia di Nicholas Keith. A questo punto Ellery davanti agli attoniti presenti, spiega l’arcano ed inchioda gli assassini.

La novella è forse il capolavoro di Ellery Queen nell’ambito dei racconti. Gli spunti da analizzare sono molteplici.

Innanzitutto una cosa evidente: l’ombra di Carr aleggia su tutto il racconto. E non a caso lo dico, perché Sarah Mayhew, da sposata ha assunto il cognome Fell (come il Gideon Fell di Carr). Del resto questa novella su cui aleggia un’atmosfera magica e macabra, più da genere fantastico che da genere mystery, almeno sino a quando i veli del tempio non incominciano a squarciarsi ed Ellery comincia ad intravvedere la verità, non si basa sulla ricerca di un colpevole. Il colpevole, ed il delitto, improvvisamente appaiono, allorchè Ellery, con il ritorno del sole, capisce di essere stato ingannato in maniera alquanto sottile. E dopo aver vissuto dei giorni in un tempo magicamente sospeso, agisce improvvisamente perché capisce di essere stato usato per mascherare un omicidio (che non è solo quello di Sylvester Mayhew)

Tutto il racconto è basato sul sole: perché quando erano arrivati dalla finestra della stanza di Ellery si era visto il sole tramontare, mentre la mattina dopo dalla stessa lo si era visto sorgere? Risolvendo questa semplice domanda, Ellery svela un piano accuratamente premeditato da Reinach e da un’altra persona per uccidere Sylvester prima e la figlia poi ed ereditare i soldi. Che però alla fine si trovano laddove nessuno aveva cercato: l’oro è stato convertito in azioni, le cui cedole si trovano nel portafotografie dietro alla foto della prima moglie di Sylvester. E cosa è “La lampada di Dio” se non il sole?

Proprio quel portafotografie è servito per incriminare una delle due Alice, che non è Alice ovviamente, ma… truccata abilmente. Infatti mentre la prima Alice si era slanciata per stringerselo al cuore, la seconda quando Ellery e Thorne con lei si erano diretti in città, non l’aveva preso con sé.

Una delle due Alice è quella vera e l’altra è quella falsa.

Dicevamo il sole: già. Questo racconto è anche una metafora: non solo il sole è contrapposto all’oscurità, ma la luce che illumina di nuovo la stanza di Alice porta con sé la verità che sconfiggerà le tenebre della menzogna e del male. Del resto anche il tema della CASA NERA contrapposta a quella BIANCA, ha in sé il tema del male contrapposto al bene: nella prima, dopo la morte del padre, era andato a vivere Sylvester, mentre Sarah aveva vissuto nella CASA BIANCA.

E’ ovvio che Sylvester è un simbolo di malvagità (aveva abbandonato la prima moglie, e fatto morire di dolore e di stenti la seconda dopo essersi appropriato con l’inganno dei suoi averi) e che Sarah, la sorella diventata pazza per la morte di una figlia, uno di bene (è inoffensiva e docile). Per di più questo tema del sole contrapposto all’oscurità, del tempo nevoso contrapposto al sereno, ha indotto qualcuno a definire questa novella “un mystery meteorologico”.

Ancora…il tema del doppio: anche questa novella vi fa accenno, e gli indizi sono parecchi, nonostante nessuno vi abbia pensato prima.

Quando analizzai The Twin Siamese Mystery (che è del 1933), dissi che in quegli anni si erano manifestate per la prima volta dopo un certo tempo le prime avvisaglie di quella  inconciliabilità tra i due cugini, caratterialmente molto diversi e costretti nondimeno, dal successo dei loro soggetti, a passare molto tempo assieme, che avrebbero portato gli stessi a vivere e lavorare separati, per poi incontrarsi al momento di varare i singoli progetti editoriali; per di più le avvisaglie si erano manifestate a causa della ragione comune e della ditta che li univa: Ellery Queen. Nessuno dei due appariva con la propria identità, ma una identità fittizia li annullava singolarmente e li costringeva a condividere le proprie identità in una che ora rifiutavano. Soprattutto la rifiutava Dannay.

Già in quel romanzo avevo parlato del tema del doppio e a quell’opera, chi volesse meglio capire la faccenda, rimando. Per quanto ci riguarda ora, sottolineo che anche qui ci troviamo a varie cose che sono doppie: innanzitutto le due Alice; due erano i figli del vecchio Mayhew, il progenitore che aveva fatto costruire le case, e per di più gemelli (come nel romanzo del 1933): Sylvester e Sarah. Siccome erano gelosi l’un l’altro, anche le case che il vecchio donò ai figli, erano uguali, come due gocce d’acqua (anche il mobilio interno): due case gemelle BIANCHE. E gemelli sono anche i mobili e tutto quello che è contenuto dentro. Ancora.. Così come vi sono un’Alice buona ed un’Alice malvagia, ci sono due Nicholas nello stesso personaggio: l’anima malvagia ritenuta tale è contrapposta a quella buona che invece si rivela nel finale. Vi sono ancora due eredi che ritornano (altro tema caro alla narrativa anglosassone) che sono tra loro cugini: entrambi vivono sotto mentite spoglie. E due sono anche i fratellastri, che sono per così dire tra loro contrapposti: uno che si pensava buono è cattivo, l’altro che si pensava cattivo è buono.

Mike Grost, critico americano, ha posto anni fa in relazione con The Lamp of God un altro racconto, questa volta compreso nell’antologia The Adventures of Ellery Queen: The Adventure of the Bearded Lady, “L’Avventura della Signora Barbuta”. Il racconto, che poi è il primo, in assoluto a presentare, nell’ambito dei racconti, l’emblema queeniano per eccellenza, cioè “the dying message”, è del 1934, e quindi è precedente a The Lamp of God.

Le tracce di una influenza del racconto da lui citato con The Lamp of God si rifarebbero più che altro alle complesse situazioni di parentela esistenti in ambedue i racconti: la presenza cioè di una parente, nominata come erede principale in un testamento, di cui nessuno sapeva nulla, che arriva da un Paese lontano; delle persone, parenti tra di loro che odiano la nuova venuta; la presenza di una o più persone che presumibilmente hanno attentato alla vita della persona che prima di morire, ha cambiato testamento. Grost si fermerebbe qui. In realtà, anche in questo racconto, vi è un tentativo di avvelenamento precedente, compiuto da persona diversa, cosicchè vi sono due distinti assassini; inoltre anche qui vi sono coppie di fratelli citati. In altre parole, questa tendenza a presentare coppie di persone, tendenzialmente fratelli, o fratello e sorella, attiene al periodo e alle problematiche già evidenziate.

Parlando con Remi Schulz, un grande esperto francese di geomachia e cabbala, che ha scritto articoli interessantissimi sul rapporto nell’opera dei Queen con i numeri e i significati nascosti, egli mi ha rimandato ad un suo articolo in francese, scritto per  il suo sito, quattro anni fa, in cui accenna anche a The Lamp of God. Remi curiosamente non parla della cosa che a me sembra più interessante, cioè il tema del Doppio, ma accenna a delle altre cosette: mette in relazione il percorso che l’auto fa per raggiungere la destinazione, circolare, per curve, col moto del sole: se invece l’auto avesse fatto il percorso che porta alla Casa Bianca priva di quella Nera, il percorso non sarebbe stato circolare: ossia in altre parole, il sole non sarebbe sorto e tramontato, ma si sarebbe comportato diversamente. 

Inoltre Remi parla di una avventura di Arsene Lupin, La demeure mystérieuse (1928), in cui si parla di due case gemelle: “J’y reviendrai, mais la curiosité essentielle me semble être que le sujet de la novelette est très proche d’une aventure d’Arsène Lupin, La demeure mystérieuse 1928, où une formidable énigme repose aussi sur l’existence de deux maisons jumelles… Que Queen se soit inspiré ou non de La demeure mystérieuse est ici secondaire”. A me pare invece che non sia affatto secondario. Potrebbe essere accaduto invece che Dannay (perché dei due Queen, era Dannay l’ideatore del plot, delle idee cioè alla base dell’opera) avesse letto il romanzo di Leblanc e avesse utilizzato l’dea delle case gemelle adattandola ad un contesto completamente diverso. Infatti nel romanzo di Leblanc, una soubrette che sfoggia in un’occasione mondana una tunica tempestata di diamanti, viene rapita e portata in una casa, da un uomo mascherato. Lei poi riconosce la casa in cui è stata portata ed è bene sicura, giacchè si ricorda anche com’era ammobiliata. Ma poi si scopre che qualcuno ha allestito una casa esattamente  uguale ad un’altra, tale che la ragazza fosse indotta in inganno. Se vogliamo, l’idea di base è la stessa anche se cambia la prospettiva di fondo: in Queen il cambiamento di casa mirava a metterne in sicurezza una delle due, LA CASA NERA, in modo da poterla esaminare a fondo e trovare l’oro nascosto; in Leblanc, invece, il cambiamento mira a proteggere chi vi abita.

Nell’altro articolo, accennavo alla scoperta di Remi, in altro articolo di molto precedente a questo, di un brano di Borges in cui si parlava di una via che si sdoppiava in due e come questa potesse avere un legame profondo con le vicende che legavano tra loro i due Queen al loro personaggio comune. Ora, quella citazione ideale potrebbe avere una estrinsecazione in quello che accade qui: nel fatto cioè che la strada (con andamento circolare), ad un certo punto si sdoppi in due rami (di cui uno porta a destinazione (CASA BIANCA E CASA NERA), l’altro solo alla Casa Bianca): una nuova reiterazione del tema consueto in Queen, dell’uno che si sdoppia in due, cioè di un Queen che si sdoppia in due Queen?

Per di più noto che l’ambientazione di questa novella è molto simile a quella dei “gemelli siamesi”: in entrambi i casi, i drammi si consumano in case isolate sui monti, e in entrambi i casi un accidente esterno aggrava la situazione di isolamento: nel romanzo del 1933 è un incendio, in questa una nevicata abnorme. Il fuoco si contrappone all’acqua. Rammento che in un passo all’inizio, quando l’auto di Thorne sta salendo per i crinali della montagna, si vedono boschi bruciati, quasi che il monte dove si era consumato il dramma dei due fratelli siamesi fosse lo stesso delle case gemelle.

Vi è anche un motivo alquanto curioso: a Ellery è associato Lamp, a Reinach  -personaggio odioso che non è il vero colpevole ma una sorta di complice convinto dalla prospettiva di acquisire una parte dell’eredità – Lamb. Durante la cena dell’arrivo, si scopre una specialità che Ellery non sopporta: l’agnello (lamb in inglese); per di più se detesta già la carne di agnello, ancor di più detesta la maniera di cucinarlo al curry, come invece è stato cucinato l’agnello che viene portato a  tavola e che il rubizzo Reinach mangia a quattro ganasce. Ecco allora un altro parallelismo: così come alla CASA NERA era contrapposta quella BIANCA, e a Sylvester Sarah, e all’Alice vera l’Alice falsa , e al Nick Keith malvagio il Nick Keith buono, e al fratellastro buono quello malvagio, così ad Ellery che adora il sole (Lamp) è contrapposto Herbert Reinach che adora l’agnello (Lamb).

Noto un’altra caratteristica di questo lungo racconto: l’atmosfera fiabesca e magica da Lewis Carroll. Non è la prima volta che Ellery ricorre a motivi tratti da Alice nel Paese delle meraviglie: vi era ricorso infatti almeno in Tragedy of Y anche se accenni ad un’atmosfera surrealistica come in Wonderland ce ne sono anche in The Egyptian Cross Mystery. Nel nostro caso, e non è un paragone forzato, l’atmosfera del racconto, e la sparizione di una intera casa, letteralmente svanita, suggeriscono una dimensione fantastica; per di più c’è proprio il personaggio principale di The Lamp of God che si chiama Alice. E non è una mia pazza esternazione: è proprio Ellery che lo dice, iniziando il secondo paragrafo: “Come se non bastasse c’è anche un personaggio che si chiama Alice”.

In quel 1935, in cui veniva pubblicato il racconto con altro titolo su magazine, The House of Haunts, ne appariva un altro in The Adventures of Ellery Queen: cioè The Adventure of the Mad Tea-Party. In questo caso c’è un riferimento ad Alice nel Paese delle Meraviglie, e nella fattispecie al Cappellaio Matto.  Ellery è consapevole di stare vivendo un sogno o almeno lo spera. Ma nel nostro racconto vi è uno specchio che ci presenta un mondo parallelo e distorto rispetto a quello vero: è la finestra della stanza di Ellery. Attraverso esso (specchio e finestra son fatti di vetro) viene propinata ad Ellery una realtà ingannevole e distorta: il tramonto che diventa alba. Così come lo specchio dell’altro racconto: anche in quel caso allo specchio è associata una realtà ingannevole contrapposta ad una veritiera. Di questa dimensione fiabesca, e della natura ambivalente dello specchio, che rimanda a sua volta al tema del doppio contrapposto (l’immagine specchiata è uguale ma opposta così come l’immagine dell’alba è contrapposta a quella del tramonto), ben era conscio Thomas Narcejac, che nel suo saggio “Une machine à lire: le roman policier”, accennava a proposito dell’opera di Ellery Queen, che bisognava “abbandonarsi alla seduzione del racconto e passare dall’altra parte dello specchio” per godere delle sue trame sorprendenti. Cosa invero non applicabile a tutte le sue storie, ma  questa certamente sì.

Pietro De Palma

P.S.

Per il rimando al precedente saggio su “I Fratelli Siamesi” di Ellery Queen, vd .:

https://lamortesaleggere.blogspot.it/2017/09/il-doppio-comune-denominatore-ne-il.html

STEFANO DI MARINO: LA TORRE DEGLI SCARLATTI – Il G.M. 3159 del Settembre 2017

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Seconda puntata delle avventure di Bas Salieri, targate Stefano Di Marino.

Questa volta Bas opera in Toscana, nelle campagne di Volterra. E’ stato invitato ad operare nella villa degli Scarlatti, nella veste di bibliotecario, da tale Cocci, maggiordomo e depositario dell’unica chiave che possa consentire di accedere alla biblioteca, posto che racchiude segreti secolari, misteri e ombre, con i suoi trattati di magia, occultismo, demonologia.

La sua amica Zaira, cartomante, lo ha sconsigliato dall’accettare la proposta, perché nei tarocchi ha visto che il viaggio di Bas potrebbe avere risvolti pericolosi. Bas però accetta e arriva in Toscana, a san Girolamo.

Appena arrivato, conosce Priscilla, uno dei misteri di casa Scarlatti: una figlia illegittima di Giacomo, erede diretto di Cosimo, negromante, mago, studioso. Una leggenda vuole che avesse trovato il segreto della cosiddetta Torre degli Scarlatti, il viatico che conduceva ad una misteriosa necropoli etrusca, dedicata al culto del demone blu, una divinità minore di Tuchulcha, dio degli inferi etruschi ma anche una specie di attendente della Grande Dea Mater, la nera Cibele, la dea sanguinaria. Questa necropoli nasconderebbe un tesoro ma anche innominati misteri e la possibilità di accedere ad informazioni e segreti del mondo dell’occulto.

Si accorge ben presto il nostro eroe che quella parte della Toscana in cui opera, di segreti deve averne e ben nascosti, e soprattutto non vuole che siano rivelati. A pagarne le spese è Danilo, un suo amico che gestisce una galleria di arte e di curiosità archeologiche. Tra le sue meraviglie, anche una rara raffigurazione del Demone blu. Fanno in tempo a vedersi una sera, ma Danilo è spaventatissimo: crede di vedere qualcuno, e non vuole dire più di quel che ha detto all’amico mettendolo in guardia. Gli ha suggerito di rivolgersi a Gigi Montero, un giornalista caduto in disgrazia e che campa per un oscuro giornale cittadino, che arrotonda vendendo notizia di prima mano. Danilo è il primo a cadere, tra i vicoli in penombra.

Alla galleria di Danilo, Bas ha conosciuto Priscilla. La rivede a casa Scarlatti. Qui fa la conoscenza di Mirella e Luca, i fratellastri di Priscilla; e di sbieco, di Livio, un amico di casa Scarlatti. Priscilla è molto vicina a Mirella, ma diffida fortemente di Luca, credendolo un impostore: è riapparso dopo molti anni che lo si credeva morto in uno spaventoso incidente. Il suo corpo però non era mai stato ritrovato. Luca è stato portato a casa da Livio, che lo ha convinto a ritornare, sempre a patto che egli sia davvero il figlio di Giacomo Scarlatti e Cecilia Augenti – entrambi di nobili casate e entrambi appassionati di occultismo – come Mirella; Priscilla è invece il prodotto di un’avventura extraconiugale di Giacomo, che aveva sancito la fine del rapporto con Cecilia. Era lei che si era accaparrata il segreto della Torre, e di cui aveva eretto custode un notaio, che un giorno leggerà il testamento, e anche ciò che riguarda la cosiddetta Torre.

Sullo sfondo si muovono però altri personaggi: Livio è ricattato da Gisella, una cameriera a servizio di casa Scarlatti, per conto di una persona, una donna che abita a San Girolamo. Uno degli avventori presenti in una locanda, in cui Bas incontra il suo amico, il vicequestore Panitta, prima di sorprendere l’uditorio coi suoi discorsi sugli Scarlatti, lo segue a distanza, lo pedina: dapprima in un cimitero di campagna, presso il quale Bas scopre degli oscuri simboli esoterici che rimandano al Demone, e poi in un antico cimitero di epoca settecentesca in cui Priscilla è inginocchiata presso una tomba senza nome.

Segreti inconfessabili, e misteri: Bas sospetta che qualcuno disponga della biblioteca senza esser stato invitato a farlo, in virtù probabilmente di qualche entrata segreta, visto che la biblioteca è posta nella parte più antica della villa.

Ma ci sono anche altri personaggi pericolosi che si muovo nell’ombra: i tombaroli comandati da Nino Zenobia, fratello di quel potente Zenobia che era morto anni prima in circostanze sospette. E poi ci sarebbe anche un illusionista, il Mago Zarolfo, che era stato costretto ad abbandonare la professione per opera di Giacomo Scarlatti, illusionista anch’egli, che pare potesse aver concepito un forte desiderio di vendetta, nei confronti degli Scarlatti. Poi c’è Camozzi, il proprietario di un frantoio. E ancora Perti, un vecchio che sta sempre dovunque. E infine Angela, la proprietaria del ristorante Lo Scavatore, che sembra un personaggio ambiguo.

I veri attori di questa tragedia sono proprio loro, quelli che si muovono dietro le quinte, quelli che si  muovono di notte, col favore delle tenebre e delle ombre. Così come qualcuno aveva ucciso Danilo, l’amico di Bas, così qualcuno uccide Gisella, spezzandole il collo. Bas, capisce che deve fare qualcosa: non sa cosa di preciso, ma si mette in moto. E riesce, presso l’ordine di suore nel cui ospedale era nata Priscilla, a sapere che la vendetta di Cecilia, madre e amante tradita si era appuntata anche contro di loro, magari praticando arti oscure; e che la madre segreta di Priscilla era stata tale Virginia Landi.

Il prosieguo della storia vedrà scoprire che Landi era stata l’assistente del Mago Zarolfo, e che Giacomo Scarlatti gliel’aveva portata via, provocando l’odio di Zarolfo. E’ lui che si scoprirà aver attentato alla vita di Luca, come più tardi farà con altri. Ma non è il solo responsabile. Di assassini ce ne sono almeno quattro, ognuno dei quali agisce per sé. Il risultato è una strage finale, in cui si troveranno tutti contro tutti: colei che aveva usato Gisella per i ricatti, morirà accoltellata, da chi in passato era stato complice di Scarlatti e ora di altri, in un traffico di reperti antichi; questi a sua volta sarà ucciso dal capo dell’organizzazione dei tombaroli per un vecchio fatto di sangue; e verranno uccisi anche Gigi Montero, per aver tentato di vendere compromettenti segreti a Salieri, e anche nel finale convulso, si saprà che Cecilia Augenti non era morta naturalmente ma era stata avvelenata, poi si troveranno in un sarcofago i resti del vero Luca, mentre l’impostore sarà ferito da Perti (che è il….), poi saranno uccisi in successione Cocci, poi Livio Bermani, poi infine Priscilla. Insomma questo romanzo non si sarebbe dovuto chiamare La torre degli Scarlatti, ma La mattanza degli Scarlatti. Altro che La fine dei Greene ! lì morivano due –tre persone, come anche in The Tragedy of Y, qui una decina tra passato e presente.

La Torre verrà rivelata essere una stele con scritto un codice da Apollonio Tarquinio, che rivelerà come la sua villa da lui era stata fatta costruire al tempo dei Romani per chiudere la necropoli maledetta: l’ingresso? Una panca di pietra con un intarsio da girare.

Ma dopo le peripezie che seguiranno e che riveleranno il vero volto di due persone nell’ombra, mentre Salieri & Co. Staranno per essere uccisi, interverrà chi aveva ucciso Camozzi per vendetta e salverà i malcapitati, uccidendo l’assassino folle e facendo crollare le volte della necropoli.

Il romanzo è un thriller esoterico, che poi diventa nel finale quasi un Hard Boiled, tanto vi è azione!

Di Marino non è uno scrittore specializzato in thriller di tipo esoterico-religioso, ma pur sempre è il miglior scrittore italiano di letteratura di genere: di saper scrivere, sa scrivere. E quindi imbastisce un romanzo, dalle tinte fosche, neanche tanto sforzandosi. Prende qua e là delle notizie attinte sulla civiltà etrusca, soprattutto sulle credenze sull’Oltretomba, e le unisce ad altre tipiche della civiltà greca, ottenendo un minestrone saporito, anche se bizzarro: Tuchulca, demone infernale etrusco, diviene uno scudiero della divinità infernale per eccellenza, la Cibele Nera, la Magna Mater Dea. Ora, che Cibele fosse una dea pagana adorata, una delle più importanti da quando i romani convinsero Attalo a consegnare la Pietra Nera (Lapis Niger), un meteorite, su cui era scolpita l’immagine della dea, e a fondare il tempio sul Palatino, è un fatto; e anche che fosse una dea sanguinaria, legata al mito di Attis, il suo grande amore, che per averla tradita si era evirato e ucciso. Ma che poi fosse diventata una dea etrusca, beh è un’invenzione. Alcuni ancora ipotizzano che gli Etruschi fossero un popolo che proveniva dall’Asia Minore, dove dal monte Ida, vicino Troia, si era diffuso il culto della dea, ma oggi è sempre più forte l’ipotesi che gli Etruschi fosse un popolo nato dalla fusione di più ceppi e che deriva in gran parte dalla civiltà villanoviana. Che Persefone fosse legata a Cibele (alias Rea o Demetra) è cosa risaputa, perché nella mitologia ne è figlia; ma da qui a farne una dea infernale succuba della grande divinità infernale, è altro. Cibele non era una dea infernale: era una dea solo gelosissima, che aveva donato se stessa ad Attis, che quando la tradì con una ninfa, lo fece impazzire e suicidarsi evirandosi. I genitali del dio, sepolti, fecero sì che egli diventasse il dio della vegetazione, che ogni anno muore e si rinnova.

Queste credenze le mischia con altre: il Demone Blu ed una misteriosa necropoli.

Il Demone Blu sarebbe un’estensione dei cosiddetti Demoni azzurri, la tomba dei quali si trova a Tarquinia (io l’ho vista). Di Marino, crea sulla base di tali credenze, un canovaccio formato da credenze magiche, da riti occulti, e ci mette pure “I Custodi”, persone deputate ad impedire la scoperta di questa necropoli misteriosa, e i tombaroli. Aggrega il tutto, parlando di una famiglia antica di negromanti. Mischia sapientemente, aggiungendo al tutto il profumo della campagna di Volterra, le ombre ed una biblioteca avvolta nel mistero, la sparizione di certi volumi di Apollonio Tarquinio (personaggio inventato) trovati dietro un quadro, certe fiale di un allucinogeno. E ottiene un bel romanzo.

Un romanzo che è un thriller d’avventura. Del tipo di quelli di Glenn Cooper o Eliette Abecassis o Dan Brown, ma meno forte. Diciamo…”all’italiana”. Come i film polizieschi anni ’70. La ragione è che secondo me, per ottenere un prodotto potente, devi necessariamente perseguire quel sottobosco dall’inizio alla fine: se parli di mondo magico, di credenze demonologiche ed esoteriche, devi sempre andare in quella direzione (come non so..Il marchio del diavolo di Glenn Cooper o come la prima avventura di Bas Salieri, Il palazzo dalle cinque porte). Il rischio è scocciare, ma a tener viva l’attenzione e la tensione deve pensarci lo scrittore con la sua arte. Nei tempi contemporanei, la tensione si attua con metodi artificiali: frammentando cioè il fiume principale in più torrenti, ognuno col proprio cammino, con le proprie asperità e le proprie amenità, che possono congiungersi  e separarsi anche al fiume principale, fino a convergere in esso e riformare quello originario prima della fine. Non si allontana da questa tendenza Di Marino, anzi in lui la frammentazione è accentuata: paragrafi che sono lunghi massimo dieci pagine e minimo..una pagina: un po’ poco! Questa tendenza a frammentare, a mio parere sfilaccia troppo il discorso, quando invece accade che quando il paragrafo è poco più lungo e le cose vengono sciorinate, la tensione aumenta. Il fatto è che d’altronde, il romanzo è molto più lungo del primo, più denso di vicende collaterali e quindi per contemplare le diverse anime del romanzo, deve anche frazionare il discorso.

Il plot è ottenuto, oltre che con l’inventiva e mischiando notizie qua e là prese dal mondo dell’oltretomba etrusco, anche attingendo a sceneggiati e film italiani. Si sa che Di Marino è un fissato di film. Il bello è che lo sono anch’io. L’etrusco uccide ancora, di Armando Crispino, è uno di questi (chi l’ha visto si ricorderà il leit-motiv che annunciava una nuova morte: il motivo del Dies Irae della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi). A questo possiamo aggiungere sicuramente “Ritratto di donna velata”, famosissimo sceneggiato televisivo, da cui Di Marino ha tratto molto: innanzitutto l’ambientazione (tra Firenze e Volterra); poi una famiglia antica, il cui avo era un famoso negromante (qui sono gli Scarlatti, lì i Certaldo); la passione dell’avo per il mondo dell’oltretomba degli etruschi; la scoperta di una necropoli segreta; l’accesso a questa necropoli direttamente dalla Villa; una serie di morti e di eventi che fanno da corollario; la presenza di tombaroli; e ancor di più un certo evento che accade quando si penetra nella necropoli: nel romanzo di Stefano, un pozzo che si apre nel pavimento e che comunica con un torrente sotterraneo; nello sceneggiato degli anni ’70, una frana che si apre nel pavimento e porta ad un’altra serie di gallerie. L’indizio che mi permette di collegare queste due sceneggiature (quella televisiva con quella di Di Marino) è una scultura etrusca, “L’ombra della sera” che si trova nella sigla di apertura dello sceneggiato, mentre il riferimento ad una che le assomiglia, si trova nel romanzo.

Altra fonte di questo romanzo è sicuramente “Chimaira” di Valerio Massimo Manfredi, che si ambienta nella zona di Volterra e tratta, prima di Di Marino, di una storia di morti e credenze soprannaturali relative alle divinità infernali del mondo dell’oltretomba etrusco. In realtà i gialli con Bas Salieri, se hanno un modello da cui traggono ispirazione, al di là di quelli americani di Glenn Cooper, proprio per l’ambientazione e per il modo di approcciarsi alla realtà e al mondo della finzione, mi pare che questo sia proprio Valerio Massimo Manfredi e i suoi romanzi gialli di ispirazione archeologica( Palladion, l’Oracolo, La torre della solitudine, Il faraone delle sabbie, L’isola dei morti, Chimaira), anche per effetto dell’unione di modelli fantastici con altri reali, grazie all’interazione di archeologi, con religiosi, e poliziotti.

Se proprio vogliamo, il thriller fanta-archeologico di Manfredi è molto più forte in termini di tensione, perché Manfredi oltre che essere un eccellente scrittore è anche un eccellente archeologo e storico, la materia la sa approfonditamente e quindi può spingersi laddove Di Marino non si approssima se non con l’arma del mestiere di scrittore (a me piacque tantissimo L’Oracolo, al tempo…).C’è anche un riferimento ad un altro sceneggiato. “Il segno del comando”, sceneggiato in cui i temi esoterici, occulti, spiritisti la fanno da padrone: il potente talismano che il protagonista ha per tutta la durata del romanzo, che lo metterà al riparo da una serie di eventi nefasti che avrebbero potuto interessarlo. Nello sceneggiato gli era stato donato da Lucia (spirito o donna?), nel romanzo da Zaira.

I Custodi…anche quella è una reminiscenza per me, cinematografica: in Indiana Jones e l’ultima crociata, c’è un ordine che mira a proteggere il luogo del Santo Graal e ad impedire che vi accedano malvagi: la “Fratellanza della Spada Cruciforme”; nel nostro caso, lo stesso fine per evitare che dei malintenzionati accedano alla necropoli maledetta, la svolgono “I Custodi”.

Ci sarebbe anche una reminiscenza Mystery. Il romanzo comincia con un prologo: un giovane si schianta con la sua auto nella notte. Questa morte è importante per uno dei filoni del romanzo. Ora c’è un giallo classico di una grande scrittrice neozelandese, Christianna Brand, per di più uno dei suoi capolavori, Death of Jezebel , che comincia con un prologo, in cui un giovane si schianta con la sua auto nella notte, a causa di una strega, una donna perfida. Anche nel nostro caso è a causa di una strega. Una coincidenza? Non credo.

Tutto sommato abbiamo un ottimo romanzo, con una buona tensione ricco di suggestioni e di elementi caratterizzanti che si snoda tra cimiteri, tombe, vie di Volterra e San Girolamo (cittadina inventata), casolari, taverne: le prime pagine non sono granchè, ma quando si comincia a leggere il ritmo aumenta fino alla conclusione.

A me piacque di più il primo romanzo con Bas Salieri (proprio per una vena di mistero, di fantastico, che qui manca) però non posso considerare che può esserci tanta gente a cui piaccia un’atmosfera più arroventata e più sanguigna, da Montecristo insomma.

Attendiamo la terza avventura, che Stefano avrà già scritto probabilmente: in una mappatura dell’Italia, giacchè è passato da Venezia a Firenze e Volterra, la prossima meta saranno le catacombe romane?

Pietro De Palma

Ellery Queen : La bambola del delfino (The Adventure of the Dauphin’s Doll, 1948) – trad. Bruno Tasso – 1^ed. in Il Calendario del Delitto (Calendar of Crime, 1952), Garzanti, 1959; 1^ ed. in I Racconti di Ellery Queen: Il Calendario del Delitto,Mondadori, 1984 ; 2^ ed. in I Classici del Giallo Mondadori, 2011

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Quando ho parlato dell’antologia, Calendar of Crime, “Il Calendario del delitto”, ho detto che è del 1952.

L’Avventura della Bambola del Delfino è l’ultimo racconto ad esservi contenuto: è del 1948, e contiene un crimine impossibile:la sparizione di un favoloso diamante blu, incastonato nel copricapo di una bambolotto a forma di principe, con tanto di manto di ermellino e spada d’oro, appartenente ad una celebre collezione di bambole di una ereditiera morta da poco, Miss Cytherea Ypson. Essa ha disposto che la sua intera collezione di bambole, venga messa all’asta e il ricavato dato a società che aiutano orfani; inoltre in occasione della vigilia di Natale del 1943, ha disposto che venga esposta per la gioia dei piccoli, pubblicamente.

La notizia, metterebbe in apprensione qualsiasi distretto di polizia, solo per il fatto che solo il diamante sia stato valutato oltre centomila dollari, non considerando il valore storico del cimelio donato da Luigi XVI a suo figlio. Ma nel caso della polizia di New York, la cosa è ancor più grave, in quanto il principe dei ladri, Comus, ha pubblicamente manifestato l’intenzione di rubare il diamante.

La cosa è quantomai strana, perchè Comus, a patto che si tratti proprio di lui, non ha mai avvertito prima le proprie vittime dell’intenzione di derubarle. Comus, è un ladro inafferrabile che da oramai cinque anni tiene in scacco la polizia di New York: i suoi colpi sono sempre al limite dell’incredibile e soprattutto non lascia impronte. Nessuno sa quale sia il suo vero nome. Lo conoscono solo con tale pseudonimo che si è scelto guardando a quel Nicolas Ledru Comus che nella Francia prerivoluzionaria, sortiva successi con il suo spettacolo in cui faceva volatilizzare sua moglie da un tavolo.

L’avvocato John Somerset Bonding, che si occupa di liquidare la collezione di bambole, è seriamente preoccupato per questa eventualità e a questo scopo contatta l’Ispettore Richard Queen, che predispone un doppio sbarramento prima dell’espositore della bambola: innazitutto una sorta di stanza formata da quattro espositori collcati su quattro ipotetici lati di un quadrilatero al cui centro è assiso un Babbo Natale, ben noto alla polizia, in quanto trattasi del Sergente Velie; e poi, nel caso Comus dovesse superare lo sbarramento già difficile di Velie, si dovrebbe fermare dinanzi ad una vetrata alta tre metri, la cui entrata è una porta la cui unica chiave riposa nella tasca della giacca dell’ispettore Queen. Quindi nessuno potrebbe accedere in teoria alla bambola. 

In realtà, alla fine della giornata, prima che l’esposizione abbia termine, e ognuno torni a casa propria per la vigilia di Natale, dopo una giornata all’insegna di tentativi più o meno velleitari di forzare il blocco (tentati furti a clienti per distogliere l’attenzione e persino un falso vecchio tenente per mano un bambino persosi nella folla, che ha cercato con un diversivo di entrare nella zona off limit), al momento di riporre la bambola a posto, l’avvocato Bonding lancia l’allarme perchè il diamante secondo lui è stato sostituito con una copia. Nessuno si è mosso, solo Babbo Natale cioè Velie, dopo essere andato a mangiare a pranzo, ora è andato al bagno. Subito scatta l’allarme, che cioè quello possa non essere Velie, ma Comus travestito. Ma raggiunto Babbo Natale, e costretto a togliersi la barba, ecco Velie in persona: eppure il diamante, esaminato dallo stesso esperto gemmologo che l’aveva analizzato prima che venisse messo in esposizione, si rivela davvero falso.

La polizia non solo è in scacco, ma lo stesso ladro, con una telefonata, irride Ellery e il padre, depositando fuori della  loro porta di casa, la vera bambola, priva però del diamante. 

Come ha fatto Comus a raggirare tutte le precauzioni prese in anticipo?

Ellery brancola nel buio, fino al fatidico momento, dopo numerose ore di ragionamento, in cui, dopo aver escluso tutte le possibili alternative, giunge finalmente a puntare il dito e a spiegare l’impossibile.  

Il racconto, di sole quindici pagine, esplora una delle specialità di Ellery Queen , in maniera stupefacente: la sparizione di un oggetto. Diciamo che lo stesso tipo di trucco, entra di diritto nell’atmosfera del Natale, con la sua magia, con lo stupore di cui rende partecipi gli attori della vicenda, non i bambini, ma i veri attori di questo specialissimo Natale: gli adulti. Di cui fanno parte l’esperto gemmologo, l’avvocato, l’ispettore, suo figlio, vari agenti di polizia e il sergente Velie, e Nikki Porter. La brunetta segretaria di Ellery, che compare in due romanzi e svariati radiodrammi, si trova anche in questa raccolta di racconti basati, guarda caso, su radio drammi. I Queen si specializzarono nella sparizione di oggetti in vari racconti: i diamanti non scompaiono solo in questo racconto ma anche nel radiodramma The Man Who Could Double the Size of Diamonds (1940). Secondo una parte della critica americana, l’ispiratore di questi racconti non sarebbe stato Carr ma Edgar Allan Poe, il Poe di “The Purloined Letter”, “La lettera rubata”. Anche se è indubitabile che certi racconti o radiodrammi di Carr si può dire siano stati concepiti partendo dal medesimo concetto: che cioè per nascondere una cosa perfettamente, è necessario metterla sotto gli occhi di chi cerca, mimetizzandola.

Il racconto ( pubblicato su EQMM, Dicembre 1948), è, come abbiamo detto, la riedizione di un precedente radiogiallo “The Dauphin’s Doll“, andato in onda il 23/25 Dicembre 1943. Il lavoro è uno dei più belli nel novero dei radiogialli andati in onda dal settembre di quell’anno, ma la sua spettacolarità sia nell’esposizione, e ancor più nella spiegazione, sorprende, ancor più quando si sa che esso fu interamente elaborato da Manny, senza la consueta sinossi di Dannay. La sua riduzione in prosa, come racconto, dette a Manny la possibilità di introdurre l’atmosfera dell’evento con una sarcastica esposizione del Natale, che come dice Francis M. Nevins in “Ellery Queen, The Art of Detection“, pag.184, costituì una sorta di preparazione a Cat of Many Tails: “The crime is pulled off brilliantly but solved even more brilliantly, and Manny Lee spieces the clues with all sorts of learned digressions and a sardonic evocation of the Christmas rush that presages the more sustained treatment of the same subject in Cat of Many Tails. No collection of short whodunits could end more satisfyingly.” 

Proprio per queste caratteristiche, un racconto non ideato da Dannay, pirotecnico sceneggiatore dei lavori queeniani, ma dal cugino, ed egualmente stratosferico, sorprende ed ammalia.

P. De Palma


Ellery Queen: La scomparsa di James Phillimore (The Disappearance of Mr. James Phillimore, 1944) da “The Misadventures of Sherlock Holmes” di Ellery Queen; Trad. Gian Franco Orsi – in Radiogialli, Oscar Mondadori,1989

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La scomparsa di James Phillimore è uno dei pochi radiodrammi , di quelli scritti originariamente dai due cugini Queen, che siano stati pubblicati in Italia. In verità non fa parte dell’unica raccolta fin qui approntata, Le falene assassinate e altri delitti, prima pubblicata in Supergialli Mondadori e poi in Oscar, ma di un prezioso Oscar singolo, pubblicato nel 1989, “Radiogialli”, nella collana “Teatro e cinema” (?????) a cura di Gian Franco Orsi. In questo mitico Oscar, sono contenute altre rarità: La cabina B-12, Il boia non aspetta  e L’arciere fantasma, di Carr; L’indizio invisibile, e L’uomo che raddoppiava i diamanti,di E. Queen; La diciannovesima perla, di D. Hammett; Incendio nella notte, Un libro in prestito, Il baule La sveglia, di C. Woolrich; e S.Holmes: il caso dell’avventuriera assassinata, di Denis Green / Bruce Taylor.

Il racconto che esamino a sua volta fa parte di una antologia, pubblicata a cura di Ellery Queen e mai apparsa in Italia (e che probabilmente non verrrà mai pubblicata, per la difficoltà oggi come oggi, di reperire, contattare e concludere contratti con i singoli agenti di tutti gli autori compresi in essa), The Misadventures of Sherlock Holmes, pubblicata nel 1944. Ellery Queen (cioè Dannay) curò per essa la prefazione, e l’inserimento di un suo radiodramma, andato in onda l’anno prima, il 14 o 16 gennaio 1943, La scomparsa di James Phillimore.

La genialità di Dannay sta nell’aver rielaborato un precedente caso di Sherlock Holmes rimasto insoluto, citato in The Problem of Thor Bridge adattandolo al suo tempo, realizzandolo nella medesima maniera, ma dandogli compiutezza e una soluzione.

Perchè dico “adattandolo al suo tempo”? Perchè Ellery Queen confronta la scomparsa di James Phillimore citata da S. Holmes (l’uomo che ritornò in casa per prendere l’ombrello e svanì nel nulla) con quella di altro Jams Phillimore al suo tempo. Come è possibile, egli si chiede, che un James Phillimore, vissuto un secolo dopo quello citato da S.Holmes, scompaia nelle medesime circostanze? Egli risolverà l’arcano e spiegherà come abbia potuto svanire nel nulla, ma nello stesso tempo fornirà una possibile soluzione dell’altro caso più antico, quello insoluto.

Tutto si basa sulla scomparsa di un certo James Phillimore, nipote di quello sherlockiano, famoso per la truffa del 20%: allorchè il padre di Ellery con l’inseparabile sergente Velie ed altri agenti stavano per acciuffarlo, egli si ferma sulla soglia della porta d’ingresso, guarda il cielo, e decide improvvisamente di rientrare per prendere l’ombrello. Dovrebbe riuscire, ma non esce più. Passano quindici minuti, poi di più: Phillimore non esce. Queen , che aveva fatto presiedere tutte le uscite della casa (altre porte, finestre e quant’altro, da suoi agenti fidati), fa irruzione nella casa, controlla, esamina, butta all’aria tutto, ma di Phillimore neanche l’ombra trovano. Si è realizzato quello accaduto cent’anni prima a S.Holmes.

Richard Queen, controvoglia, è costretto a sottoporre il caso all’intelligenza di suo figlio: non avrebbe voluto perchè è influenzato, ha la febbre ed è sottoposto alle amorevoli cure delle sua segretaria Nikki Porter. Tuttavia, non sapendo che pesci pigliare, deve rivolgersi al suo deus ex-machina.

Il padre esamina quello che il figlio gli ingiunge di verificare che non lo sia stato già: il frigorifero, il pianoforte a coda (dato che Phillimore è un mingherlino alto circa un metro e mezzo). Ma nulla: Phillimore non è neanche lì. Poi arrivano i carbonai che devono effettuare il rifornimento del carbone per la caldaia: Ellery insinua che Phillimore, nel momento in cui i poliziotti sono in un ambiente, si possa essere spostato in un altro, per esempio sotto il carbone: Velie finisce a spalare carbone, ma neanche Phillimore è lì. Può essere che possa essersi mascheraro da carbonaio?

In quel mentre, dopo che il padre gli ha elencato tutti i posti che ha perquisito, Ellery ha un lampo di genio: lo studio, che dà direttamente nell’atrio della casa, ha tra gli altri mobili, ovviamente una scrivania, a ribalta (quella con la saracinesca che si apriva e chiudeva): Ellery pensa che Phillimore possa essersi nascosto lì dentro. Perquisiscono la ribalta ma appurano che è vuota. 

Poco tempo dopo squillano alla porta: è il ragazzo della posta che deve consegnare un telegramma a mano, indirizzato a Biggs (il maggiordomo di Phillimore): in esso il suo padrone gli ingiunge di portargli vestiti ed effetti persoanli e soldi nel solito posto, giacchè è riuscito a fuggire.

Come ha fatto Phillimore ad evadere da una casa le cui uscite erano guardate a vista?

Ellery dopo un attimo di ebetismo, riuscirà a risolvere il mistero, a dire come sia potuto sparire, e pure a farlo acciuffare.

La storia, che è costruita su dieci scene, di cui le due uiltime costituiscono la soluzione, è una delle più brillanti mai costruite dalla coppia di scrittori (direi da Dannay per lo più). La soluzione è bene dirlo, si basa su storie precedenti di altri scrittori, abilmente manipolate, intersecate e inserite in un contesto del tutto nuovo: parliamo cioè di The Valley of Fear, romanzo di Conan Doyle (il quarto e ultimo con Conan Doyle, diviso in due parti, la soluzione e l’antefatto, secondo uno schema che verrà seguito da altri scrittori a lui successivi: parlo per es. di The Murders in Praed Street di John Rhode, per esempio) e di The Unicorn Murders, di Carter Dickson. Però la storia ha la brillantezza e spettacolarità che caratterizzano le opere fino agli anni ’40 di Ellery Queen. E inoltre essa ben si adatta ad essere radiotrasmessa, in quanto vi sono momenti che si prestano bene ad una caratterizzazione scenica: per esempio lo squillo del campanello della porta di servizio che apre le scene VI e VII, quando arriva il carbonaio prima e ritorna Velie poi, che li ha accompagnati a rifornire la caldaia di carbone; l’ispettore che chiude con il chiavistello la porta posteriore dal di dentro; lo squillo del campanello della porta d’ingresso, che annuncia l’arrivo del fattorino dei telegrammi; o quando squilla il telefono e l’ispettore parla con suo figlio a letto.

Il racconto inoltre esplora e sicuramente anticipa la possibilità della cosiddetta soluzione a mente fredda di qualcosa che è lontano nel tempo o nello spazio: Ellery è costretto a letto, eppure in base al resoconto fattogli, riesce a ricomporre i pezzi del puzzle. E’ un processo deduttivo seguito da altri grandi detective: a memoria, mi ricordo di una delle avventure del giudice Allou di Vindry che recensii molto tempo fa, oppure il recentissimamente pubblicato in Italia The Tokyo Zodyac Murders di Soji Shimada. 

Al di là di questo, il racconto anticipa un’altra avventura di Ellery Queen, in cui riuscirà a risolvere un caso che Sherlock Holmes non era riuscito a risolvere: A Study in Terror, del 1966, romanzo non originale dei due cugini, ma scritto a quattro mani anzi a sei, con Paul Fairman, in cui Ellery si confronterà, sulla base di uno scritto del dottor Watson del 1888, con Jack lo Squartatore, riuscendolo ad identificare e chiarendo il mistero del caso irrisolto da Sherlock Holmes. A sua volta il romanzo, riprendeva l’impostazione base da un film dell’anno prima, avente lo stesso titolo, la cui sceneggiatura era stata scritta dal figlio di Conan Doyle, però giungendo a risultati diversi da quelli del film.

Pietro De Palma

Jonathan Stagge: Le tre paure (The Three Fears, 1949) – trad. non presente – Classici del Giallo Mondadori N° 675 del 1992

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Nono ed ultimo caso del Dottor Hugh Westlake, Le tre paure (uno dei pochi titoli italiani ad essere fedele traduzione di quello americano: The Three Fears), data 1949, tre anni prima che il sodalizio Webb/Wheeler si interrompesse per sempre. Allora nulla faceva presagire che la storica unione che procedeva  ferrea sin dal 1936, e che aveva sfornato molti titoli sotto tre pseudonimi diversi (Quentin Patrick, Patrick Quentin, Jonathan Stagge) potesse avere fine; anche se non c’era più quella vena spumeggiante di cui avevano usufruito altri titoli.

Le tre paure è essenzialmente una Black Comedy, graffiante, ironica, sarcastica, cattiva a volte.

Il Dottor Westlake è ospite di un suo amico, compagno di università e medico anch’egli, Don Lockwood, e di sua moglie Tansy, presso la loro villa sul mare. Don ha 38 anni, Tansy 22: la differenza di età non sembra avere grossi risultati negativi. Per di più Don, anche se ha una professione seria, pur non essendo ricco, è stato accettato dalla sua compagna che invece è una delle donne più ricche d’America, erde della fortuna paterna.

La loro villa confina con due proprietà: quella di Daphne Winters (detta anche la Divina Daphne), la più grande attrice teatrale d’America, seconda solo nella sotia ad Eleonora Duse, e grandissima interprete di Ibsen, e quella di Lucy Milliken, una delle più belle attrici d’America, concorrente della prima in spettacoli teatrali, e famosissima intrattenitrice televisiva, che insieme alla sua famiglia (la figlia diciassettenne, Spray; suo padre Walter, detto “nonnetto”; e suo marito, Morgan Lane), detta “la più bella famiglia d’America” da molti anni pubblicizza una ditta di latte.

Don e il suo amico vanno a trovare Daphne, e in quell’occasione conoscono una delle “sinfonie”, Gretchen, una giovane austriaca, riparata in America dopo la Guerra, perchè sposatasi al tempo con un militare americano, che va a chiamare la Musa, con un’espressione tra il “terrorizzato” e il “sorpreso”. in quell’occasione Hugh si fa un’idea dell’attrice, primadonna, egocentrica al massimo grado, che guarda al mondo che la circonda come una platea di esseri adoranti, senza altro scopo che la sua felicità. Lucy Milliken non differisce molto da lei e quindi siccome le due attrici non si possono sopportare ed ognuna delle due rivendica la sua bravura sull’altra, è ovvio che la tensione man mano aumenti, dal momento che Lucy e la sua combriccola sono venuti a passare le vacanze proprio lì dove Daphne, la sua segretaria Evelyn Evans e cinque giovanissime attrici, desiderose di apprendere l’arte del teatro, dette “le cinque sinfonie”, si occupano di Daphne e della sua casa, facendo da serve, cuoche, giardiniere, cameriere personali, tutto per riuscire a carpire i segreti che lei elargisce ogni mattina durante le sue ore di insegnamento teatrale.

Un giorno che Lucy  si è recata da Daphne per portare acqua al suo mulino, e per trasformare la sua visita nell’occasione di registrare uno spot pubblicitario in cui vuole coinvolgere Daphne,con sua somma rabbia, accade che lei replichi a sua volta, impadronendosi dello spot e prestando il suo spazio alle “cinque sue sinfonie” così da lanciarle nel mondo dell’intrattenimento. Una delle prescelte, Gretchen tuttavia è restia ed ansiosa, e per questo Daphne le da una compressa che prende da un tubetto che ha con sè: appena tuttavia la manda giù, si sente male e muore.

Incidente? Infarto? Nientye di tutto questo: cianuro! Qualcuno l’ha assassinata col cianuro!

chi avrebbe potuto mai uccidere una delle sconosciute sinfonie? E’ evidente che qualcuno abbia inserito una compressa avvelenata tra le altre di Daphne. L’inchiesta comunque, affidata all’ottuso ispettore Reed, stabilirà che il tubetto di compresse non è quello che l’attrice aveva con sè originariamente, ma l’etichetta era stata contraffatta. a questo punto è ovvio che le indagini prendano una via decisa: qualcuno ha voluto uccidere Daphne ma per un caso ha ucciso la persona sbagliata.

E’ chiaro chi potrebbe anche essere stato, o meglio chi avrebbe potuto avere un motivo per sopprimere Daphne, non essendoci nessuno che avrebbe potuto mai uccidere volontariamente Gretchen: la sola è Lucy, ma Daphne rifiuta di ammettere che possa essere lei l’assassina. Tuttavia Daphne, per il modo come si è comportata, ha dimostrato di averr voluto comunque mettere in grave difficoltà l’avversaria, concedendole magnanimamente l’assoluzione personale.

In una situazione già complicata, si manifesta ben presto un altro tentativo di avvelenamento: questa volta a venire avvelenata è l’orzata che lo stesso Hugh ha versato nel bicchiere. Tuttavia lo sciroppo è innocuo, segno che qualcun altro, ha avvelenato il bicchioere già preparato: tuttavia Daphne prima di inghiottirlo sente odore di mandorle amare e lascia cadere il bicchiere che si rompe: Hugh e Don imbevono un fazzoletto pulito col liquido, e poi danno il fazzoletto all’ispettore che lo fa analizzare: cianuro, in quantità tale da amamazzare almeno sei persone.

Con Daphne sempre più allarmata, si viene a sapere che ella ha solo paura di tre cose: di essere avvelenata, di essere rinchiusa in un ambiente stretto, e del fuoco. Qualcuno può averla cercata di colpire, puntando anche alle sue fobie? L’ipotesi si rafforza quando qualcuno nasconde in vari punti della camera da letto di Daphne una decina di chiavi, uno degli oggetti che ella non può proprio vedere (chiavi, chiavistelli, catene, lucchetti,oggetti che cioè richiamano il concetto di chiusura): Daphne va in crisi, corre via, e tutti cercano di ritrovarla, ma invano: chi corre lì, chi vede là. Taisy, debole di nervi, sviene sulla spiaggia. Poco dopo proprio sulla spiaggia, Hugh sente qualcosa e capisce che nel capanno vicino alal cabina sulla spiaggia c’è qualcuno: vi trovano Daphne legata ed imbavagliata.

Se qualcuno prima di quel momento, Taisy, aveva anche supposto che Daphne avesse voluto fingere di esser stata avvelenata la seconda volta, per sviare le indagini da un suo coinvolgimento nell’omicidio di Gretchen, ora deve ricredersi.

Il terzo attentato avviene per giunta nel mezzo di un cataclisma in cui anche Hugh indirettamente viene a trovarsi: Spray figlia adorata di Lucy, che non sopporta più la madre, ma vuole diventare un’attrice famosa come daphne, si rifugia presso di lei, chiedendo di poter diventare anche lei una “sinfonia”.

Affronto mortale alla madre, tanto più che la figlia la accusa di aver tentato di uccidere Daphne. Ma non è la sola a fare accuse. Anche un’altra “sinfonia”, Sybil Wentworth, si lancia in un’altra filippica, questa volta diretta contro la segretaria di Daphne, parlando di numerose e violente liti, nelle quali le due donne si erano affrontate, per una supposta volontà di Daphne di sposarsi, cosa che la segretaria gelosa non aveva voluto mandar giù.

A questo punto avviene il primo di tanti colpi di scena: Daphne chiede pubblicamente scusa alla sua segretaria per averla avversata e rivela che è Evelyn Evans, invece, colei che vuole sposarsi. A questo punto è legittimo chiedersi chi possa essere lo sposo futuro, che Sybil ha anche visto qualche volta nascondersi. E nella sorpresa generale, avviene il secondo colpo di scena, che costituisce un colpo durissimo per Lucy: è suo padre che vuole risposarsi con Evelyn; inoltre siccome i contratti della “famiglia più felice d’America” sono a suo nome, ne consegue che anche lo spot televisivo va in fumo. Lucy è distrutta: le resta solo il marito, ancora.

Tutto andrebbe bene se un assassino non fosse nei paraggi, e non avesse tentato già due volte ad eliminare Daphne: e quando nessuno se lo immagina, dopo che Sybil ha confessato a Hugh di aver trovato un anello legato ad un certo matrimonio e di sapere chi possa essere l’assassino, scoppia un incendio in un villino che Daphne ha sul mare. La paura del fuoco è la terza delle tre paure di Daphne, e tutti pensano che qualcuno abbia potuto attentare di nuovo alla sua vita, quando Daphne appare viva e vegeta. Il cadavere carbonizzato che viene trovato è quello di Sybil invece.

Hugh trova l’anello e dalla data impressavi e dalle sigle ricostruisce in parte la verità. 

Ricostruirà la storia di due matrimoni di cui il primo sbagliato, di un ricatto per bigamia, e di una morte annunciata. E attraverso la data sull’anello, e un dettaglio insignificante su un fazzoletto, giungerà a due soluzioni successive di cui la prima sbagliata, e a due possibili assassini, di cui il secondo, quello vero. Che per fuggire l’arresto, preferirà la via del suicidio.

E nel frattempo due matrimoni andranno in fumo: quello di Lucy con conseguente distruzione completa della “famiglia più felice d’America”, e quello di Don e Taisy, con conseguente formazione di una nuova coppia formata da Morgan e Taisy. Morgan sarà anche il falso sospettato di omicidio plurimo, sulla base della data impressa nell’anello e della dedica scopertavi:  M.L. a M – 3/7/1945.

Come dicevo nell’introduzione, questo romanzo più che un dramma è una “commedia nera”. Non solo. Comunemente la produzione di Webb/Wheeler con lo pseudonimo di Jonathan Stagge viene inquadrata come una serie di romanzi spostata più verso atmosfere carriane che verso altre: questo perchè vi sono disseminati qua e là anche omicidi impossibili. Nel nostro caso, invece, il romanzo più che verso Carr, mi pare che si orienti verso il mystery squisitamente britannico, e in particolar modo quello delle “4 Crime Queen”: in questo sono completamente d’accordo con quello che ne pensa Curtis Evans. Direi anche che per il soggetto, il romanzo potrebbe essere spostato verso Ngaio Marsh in particolare: l’unica differenza plateale tra i due modi di scrivere, è l’assenza qui di una qualdivoglia raffinatezza semantica caratteristica invece dello stile marshiano. Al di là di questo, tutta una serie di caratteristiche che ci consentono di inquadrare il romanzo, come una commedia dai toni volutamente parossisticamente accentuati: anche il finale lo è, beninteso, ma al contrario rispetto all’andamento del romanzo, visto che Lucy dopo tante baruffe con Daphne, perse in maniera dramamtica e la fine della propria famiglia, anche per ritrovare la figlia, diventata “la sesta sinfonia”, e il padre, diventato marito della segretaria di Daphne, non pensa ad altro escamotage che quello di chiedere a Daphne di poter diventare lei stessa “la settima sinfonia”. 

Altra caratteristica saliente del romanzo da “Crime Queen” è il ricorso ancora una volta, al trucco stilistico del ritorno dell’erede, che qui si sostanzia nel ritorno di una moglie ritenuta ormai lontana oltre che nel tempo anche nello spazio, e nella proposizione di un ricatto che, come consuetudine nei romanzi polizieschi (e nella realtà), sarà la molla per il primo omicidio (Gretchen è il diminutivo di Margareth in tedesco). Il secondo sarà invece necessario per chiudere la bocca a chi, prima di Westlake, aveva capito tutto.

Buon romanzo, anche se qualche bug qua e là spunta non risolto. Per esempio: l’assassino premedita il primo omicidio, rubando un’etichetta in una farmacia e contraffacendone un tubetto di compresse, inserendovi una compressa impregnata di cianuro. Il plot vorrebbe che l’assassino, sulla base di una possibilità che gli da il caso, sostituisca il tubetto contraffatto a quello vero, inserendolo nella borsa di Daphne. OK. Ma non dice quale sarebbe stato altrimenti un uso possibile di quella compressa se quella particolare situazione, data dalla ripresa televisiva in casa di daphne, non si fosse presentata. In altre parole, come avrebbe potuto ipotizzare l’assassino che quella compressa sarebbe stata data proprio alla vittima prescelta, invece che essere usata dalla stessa Daphne. Metti che invece di dare la prima compressa alla sua protetta, l’avesse scelta per sè e avesse dato la seconda: lei sarebbe morta, la vittima si sarebbe salvata e tutto il piano di preparazione delle compresse avvelenate sarebbe andato in fumo.

Insomma, qualcosa non torna. 

Tuttavia il romanzo è un crogiuolo di situazioni contrastanti, i colpi di scena si susseguono, e anche nella mielosità di un alterco tra due galline, la tensione non ne risente, e si procede celermente verso la fine, in cui un doppio finale, sancisce il trionfo della ragione e del bene. 

Ultimo appunto sull’assassino: non è un personaggio negativo in toto. Agisce solo perchè costretto dalle necessità, e per salvaguardare il suo matrimonio. Il secondo omicidio l’avrebbe evitato ma anche questo si inserisce nel tentativo di preservare la moglie da rivelazioni compromettenti. 

Ma la fine sarà amara, anche perchè capirà che tutto quanto fatto per salvare il suo matrimonio, sarà stato vano. Anche per altre ragioni.


Pietro De Palma

Ellery Queen: La grotta infestata (The Adventure of Haunted Cave, 1939) – trad. Mauro Boncompagni – da “Le falene assassinate e altri delitti” (The Adventure of the Murdered Moths and Other Radio Mysteries), Supergiallo Mondadori, Inverno, 2006

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Nell’ambito dei radiodrammi, la produzione queeniana di testi con delitti impossibili è ben rappresentata: abbiamo già presentato uno, tratto da The Misadventures of Sherlock Holmes. Da oggi, presenteremo altri, tratti da Le falene assassinate e altri delitti. E presentando radiodrammi con delitti impossibili, non potevamo non incominciare presentando un autentico must: The Haunted Cave.

Si tratta di un radiodramma, che per il suo successo, fu replicato anche con contenuto più stringato, con altro titolo: presenta un classico delitto impossibile, che noi chiameremmo “variazione di Camera Chiusa”. I puristi definiscono i delitti della “camera chiusa”, quelli classici, in cui deve esserci uno spazio chiuso, che sia stanza, container, ascensore, rifugio atomico o quant’altro, chiuso dall’interno, da cui purtuttavia l’assassino e/o l’arma siano svaniti; mentre si definisce “delitto impossibile” quello maturato con condizioni appunto impossibili, per es.l’assenza di impronte sulla neve, o sulla sabbia bagnata o sul fango.

In questo radiodramma di Ellery Queen, c’è appunto questo.

La storia è quella di una cava infestata da uno spirito, che ha una sinistra fama: va in giro a strangolare persone. E’ vicino alla baita del prof. Collins, sulla catena rocciosa degli Adirondacks. Presso la baita è ospitata Nikki Porter, ed è lei che invita Ellery a raggiungerla: ci sarà un’esplorazione ed un esperimento nella grotta. Due studiosi di fenomeni di parapsicologia ed occultismo, Colin Montague e Alexander Lewis intendono recarsi assieme alla grotta e restarci dentro per registrare eventuali presenze: Montague crede agli spiriti, Lewis no. Invariabilmente sono opposti l’uno all’altro, e avversari a distanza di tanti anni. In passato c’è stata gente che ha provato anche a fare soldi con la storia della grotta infestata: appose una porta di legno, faceva pagare l’ingresso, ma invariabilmente è dovuta scappare via.  La storia dello spettro risale a un secolo prima quando un bandito attirava viandanti nella grotta per derubarli, li strangolava e buttava i corpi nel lago: infatti sulla parete posteriore della grotta si apre un’apertura che comunica col lago sottostante. Il bandito fu poi arrestato ed impiccato: è il suo spettro che si aggirertebbe ancora per fare vittime, mentre i lamenti che si odono amplificati dalle montagne (li sentono anche Ellery e gli altri) sarebbero le grida delle  vittime.

Il giorno previsto per l’appuntamento, Lewis è puntuale, Montague no. Lo cercano in ogni dove, finchè non si scopre una serie di impronte che parte dal sentiero, attraverso uno spazio di terreno ridotto ad una distesa uniforme di fango da un acquazzone notturno, e arriva alla grotta: le orme, di piedi nudi, sono piccole, come quelle dei piedi di Montague. Evidentemente ha camminato a piedi nudi nel fango, per non sporcarsi le scarpe.

Lewis è furioso, perchè gli accordi presi vorrebbero che alla grotta ci sarebbero dovuti entrare assieme, perchè uno dei due non alterasse lo stato dei luoghi a suo pro. Chiamano, richiamano Montague ma senza risultato. Ellery che sospetta qualcosa, facendo attenzione a non distruggere le impronte, accede alla grotta, dopo aver aperto la porta, solo per accorgersi che per terra è il cadavere di Colin Montague strangolato, circondato dalle provviste che aveva portato con sè.

Non vi sono altri modi per accedere alla grotta, se non quella percorsa da Ellery e prima di lui da Montague; ci sarebbe l’apertura nella roccia, ma la parete è a strapiombo sulla roccia liscia, priva di appigli, e la finestra si apre a non meno di 15 metri dalla superficie dell’acqua. Inoltre sulla roccia vicino all’apertura non vi sono pioli o sporgenze a cui sia stato possibile legare una scala di corda o solo una fune per arrampicarsi. Ellery, il padre e Velie esaminano bene il percorso: sul fango non si notano tracce di qualcosa che sia stato poggiato, o fori nel fango (tanto per capirci: assi di legno poggiati sul fango a fare da passerella fino all’apertura, o le tracce di racchette da neve o altri marchingegni), ma solo impronte, quelle piccole di Montague.

Come ha fatto l’assassino ad entrare e poi ad uscire?

Ad uscire, è facile: si è buttato nel lago e poi ha nuotato sono a raggiungere la riva. Il nodo dell’impossibilità riguarda l’entrata: come ha fatto ad entrare? Sempre che sia umano, e non invece lo spettro dello strangolatore.

Il solo indizio che sia umano è dato dalle impronte delle mani che hanno tolto la vita a Montague: la cosa curiosa è che non si trovano anteriormente alla gola ma posteriormente.

Per il resto, c’è una serie di testimonianze, per cui nessuno sicuramente è andato lì quando era notte e poi ha atteso Montague : questo avrebbe spiegato l’assenza di un’altra fila di orme. Ma di notte, tutti avevano alibi. quindi se è avvenuto qualcosa, è avvenuto di mattina, quando aveva piovuto per l’intera notte e lo spazio davanti alla grotta presentava una distesa di fango immacolata.

Poi vi sono una serie di testimonianze, tra cui spicca quella di Gabriel Dunn, un boscaiolo, che dice di aver trovato nei pressi della baita di Collins, quindi prima di arrivare alla grotta, i segni inequivocabili di una scivolata, come se qualcuno, uscendo dalla baita sia scivolato sulle pietre che delimitavano il sentiero e sia caduto su un cespuglio, cosa che la sera prima non c’era. Tutti negano, e del resto c’è la possibilità che sia stato Montague a scivolare prima di andare a farsi strangolare nelal grotta. Moventi ve ne sono un’infinità. Tutti più o meno avrebbero avuto un motivo per strangolare l’occultista: la moglie del professor Collins, nel caso di ricatto di Montague, essendo lei scappata lasciando la figlia a Montague, e sposandosi con Collins senza divorziare e quindi essendo bigama; Collins stesso, avendo Montague contratto dei debiti da lui e poi non avendo la possibilità di pagarli, aveva stipulato un’assicurazione sulla vita pari esattamente al valore del debito, per cui uccidendolo Collins sarebbe ritornato in possesso dei suoi venticinquemila dollari; lo stesso Lewis, perchè Montague gli aveva promesso in caso di sua morte, tutta la sua collezione inestimabile di volumi sull’occulto.

In quest’atmosfera di rivelazioni, svenimenti femminili (Sue Collins e poi Laura Montague, madre e figlia, dopo le rivelazioni dell’Ispettore Queen) e accuse di possibili moventi, spunta fuori un secondo assassinio sempre dentro la grotta, il giorno dopo: è il domestico di Collins, Finch, a essere stato ucciso nella grotta; vicino a lui i resti di una fotocamera rotta, a delineare la possibilità di un ricatto finito male.

A questo punto, dopo la consueta sfida al lettore (anzi all’ascoltatore qui), Ellery inchioderà il duplice assassino e risolverà il mistero dell’unica serie di impronte.

Questo radiodramma ebbe un discreto successo: la prova è che dopo la prima andata in onda con titolo originale, il 22 ottobre del 1939, fu ripresentato, il 13 aprile del 1944, con altro titolo (che però richiama questo): The Adventure of Dead Man’s Cavern, e un plot se non simile in tutto, lo è almeno per quanto il delitto vero e proprio: caverna, uscita posteriore non praticabile, distesa di fango immacolata davanti, vittima strangolata dentro la caverna, le cui impronte sono quelle rinvenute nel fango: l’assassino sembrerebbe essersi volatilizzato. La doppia andata in onda in sostanza del medesimo radiodramma, riscritto, è spiegabile col fatto che la prima andata in onda avvenne nel 1939, per conto di emittente radio della costa dell’ovest , mentre nel 1944 , essendo nata un’emittente che si rivolgeva agli stati della costa dell’est, il radiodramma fu ripresentato con altra forma e altro titolo. In quest’occasione, gli attori che interpretarono i vari personaggi furono tra gli altri Sydney Smith e il grande Orson Welles (che interpretò solo questo radiodramma queeniano, nel 1944).

La soluzione diciamolo subito, non è originale: deriva da un romanzo di Gaston Boca, un grande e dimenticato scrittore francese, di cui in futuro parlerò in ragione di suoi due romanzi pubblicati nelle Palmine anteguerra (in tutto i suoi romanzi polizieschi sono tre:L’Ombre sur le jardin,Les Usines de l’effroi,Les Invités de minuit ).

Questa soluzione poi è stata riutilizzata qualche anno fa, per una delle due soluzioni di un racconto di Halter inedito in Italia, Le loup de Fenrir: Paul quando gliel’ho chiesto, ha dichiarato di non aver letto neanche uno dei romanzi di Boca, e quindi è probabile che avendo lui letto quasi tutto di Christie Carr e Queen, il ricordo di questo radiodramma gli sia rimasto addosso.

P. De Palma

 

Rex Stout : La scatola rossa (The Red Box, 1937) – trad.Nicoletta Lamberti – I Classici del G.M. n.573 del 1989

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The Red Box, “La scatola rossa”, è il quarto romanzo di Rex Stout. Risale al 1937, l’epoca d’oro dei romanzi con Nero Wolfe. E’ un classico whodunnit, con una spiccata propensione tuttavia al giallo psicologico.

Lleweyn Frost, giovane commediografo, affida a Nero Wolfe il mandato per scoprire chi abbia ucciso una settimana prima, presso l’atelier del noto stilista Boyden McNair, la modella Molly Lauck, morta dopo aver assaggiato un confetto alla mandorla, farcito di cianuro, mentre stava svagandosi assieme a due sue colleghe, tra cui Helen Frost, cugina di Lew, dopo una sfilata.

Per poter visionare gli ambienti teatro della morte e interrogare i presenti, Nero Wolfe è costretto materialmente a muoversi dalla sua casa-serra, e già questo lo manda in bestia; la sua alta soglia di irritazione si arroventa quando proprio coloro che gli dovrebbero dare una mano a scoprire le cause della morte, fanno di tutto per ostacolarlo. A partire dallo stilista, per passare da Dudley Frost, ed arrivare a Helen Frost, sostando anche dalle parti di Calida Frost, madre di Helen. Tutti allo stesso modo nascondono qualcosa. Per non parlare di Perry Gebert, amico di Calida, un essere viscido, che vorrebbe fidanzarsi con Helen, spinto dalla madre di lei.

In questo ambiente, Wolfe comincia a raccogliere quegli indizi che neanche lontanamente aveva raccolto Cramer, l’Ispettore della squadra omicidi, pur essendo stato incaricato delle indagini sette giorni prima che apparisse Wolfe. Attraverso una serie di puntigliose indagini e anche con prove sperimentali, Wolfe stabilisce che il veleno è stato messo non per colpire alla cieca, ma per colpire una persona in particolare, cioè lo stilista: è lui che nel suo ambiente è notoriamente ghiotto di confetti. Nell’occasione dell’omicidio, l’assassino è stato sfortunato perché la possibile vittima era sazia, e per un caso si è trovata un’altra persona che è venuta a sapere della scatola di dolciumi e, sottrattala dallo studio dello stilista e senza volerlo salvatolo, l’ha proposta a delle sue amiche, morendo proprio lei al posto di McNair.

Al di là delle apparenze Wolfe assiste ad un balletto di mezze verità e mezze bugie: Helen è amica di McNair che gli potrebbe essere padre, ma che le regala diamanti come se fossero noccioline: uno è incastonato nel portacipria, un altro è il solitario che la ragazza porta al dito; Dudley, suo zio e padre di Lew è sfuggente, non capendo perché il figlio abbia assoldato Wolfe, che rivangherà negli affari di famiglia; ancor più sfuggente, il figlio, che innocentemente tenta di proteggere la cugina quando sembra che i sospetti si concentrino su di lei, dopo che si viene a sapere che prima che le due amiche si accingessero a mangiare dolciumi, lei conosceva già il contenuto della scatola, perché l’aveva vista nello studio di Mcnair, cercando di togliere il mandato a Wolfe e mandandolo ancora più in bestia. A questo punto Wolfe è sempre più deciso nel rivelare il nascosto, e in tutti i modi cerca di capire perché qualcuno voglia uccidere Mcnair e lui sia refrattario a parlare. Fatto sta che quando McNair gli confida il fatto di averlo nominato nel suo testamento e averndogli affidato una misteriosa scatola rossa, non fa a tempo a rivelargli dove essa si trovi, che assumendo un’aspirina, cade fulminato anche lui, avvelenato da cianuro: l’aspirina era una compressa di cianuro, avvolta in uno strato di acido acetilsalicilico.

Wolfe che ha dei sospetti, in relazione alla stranezza che Helen fosse nata più o meno negli stessi giorni in cui nasceva la figlia di McNair, e di come questi avesse perso moglie e figlia, e avesse a Wolfe che la moglie era morta ma la figlia era stata persa, e anche al fatto che Helen era erede di un patrimonio di due milioni di dollari dati dal padre Edwin Frost prima che cadesse nei cieli francesi durante la prima guerra mondiale, ma che la madre non aveva beccato neanche un centesimo, per una cerca cosa che a Edwin non era andata giù, e che il patrimonio era affidato a a Dudley fino alla maggiore età di Helen. Sospetta anche di Gebert, in relazione ai trascorsi di Calida. E pertanto scopre tutto un raggiro, che aveva come scopo quello di impedire che Lew potesse ereditare i soldi al posto di Helen. Ma perché McNair solo ora è stato ucciso? E perché poi?

Dopo l’assassinio proprio di Gebert con un espediente ingegnoso (un piattino sospeso da scotch al tettuccio dell’auto, contenente nitrobenzolo misto ad acqua che gli cola addosso avvelenandolo), Wolfe, dopo aver inscenato il falso ritrovamento della scatola (in realtà una scatola rossa acquistata presso un rigattiere, con al suo interno una fiala di nitrobenzolo), smaschera durante un confronto nel suo studio, alla presenza di tutti gli attori del dramma, l’omicida, che preferirà uccidersi piuttosto che essere arrestato e sottoposto a processo.

Il romanzo si concluderà con Helen Frost quasi contenta di aver trovato il vero padre, erede di molto più che due milioni dollari, e Wolfe che finalmente potrà ritirare la parcella di diecimila dollari.

Il romanzo, è ancora ed è riconoscibile in questo, un romanzo in cui Stout si rivela essere un vandiniano. Di solito la pesante eredità in tutti coloro che inizialmente vollero conformare la loro opera ai dettami stabiliti da Van Dine, sfuma nel prosieguo dell’attività, e soprattutto nel passaggio attraverso la seconda guerra mondiale: le opere di Queen per es. già a partire da La casa delle metamorfosi, diventano più singolari, e meno ripetitive di cliches, e così anche quelle di Stout; Daly King è più singolarmente vandiniano solo per il fatto che le sue opere non arrivano alla seconda guerra mondiale e scontano il fatto di appartenere agli anni ’30.

In cosa è ancora un romanzo vandiniano? Principalmente nella tendenza di Wolfe a ritenersi un artista della sua professione: questa tendenza ad autoincensarsi (e automaticamente a svilire il basso volgo) è tipica del detective vandiniano, per le sue doti di intelligenza e capacità di risolvere qualsiasi tipo di problema gli venga sottoposto. Poi vi è un indizio, chiaro, lampante: un’ accezione inusuale per definire un certo tipo di parentela. Lew accenna al rapporto con la cugina, dicendo che sono orto-cugini: il fatto che vi accenni è in relazione al fatot che evidentemente Lew, segretamente innamorato della cugina e ostile a Gebert, aveva però già studiato tutte le possibilità che la legge gli desse per unirsi alla cugina: orto-cugini sta ad indicare una parentela singolare in cui padre e madre sono fratello e sorella di un’altra coppia , e che entrambi abbiano generato figli che tra loro non sono solo cugini, ma orto-cugini, provenienti cioè da avi dello stesso ceppo familiare. Ovverossia nel nostro caso, Dudley e la moglie (che non si vede: è vedovo?) sono fratello e sorella di Calida e Edwin. Tuttavia alla fine si scoprirà che Lew e Helen in realtà non sarebbero proprio orto-cugini.

Il romanzo oltre che avvincere proprio per questi rapporti di parentela molto stretti, tali da evitare che sconosciuti possano attentare all’essenza del clan (a ragione, perché sono famiglie originarie della Scozia), proprio per gli stessi motivi è come se evidenziasse degli elementi di repulsione, allorchè si viene a scoprire tutta una manovra tendente a far unire in matrimonio Helen a Gebert, che parte da Calida, che al tempo dell’arruolamento in aviazione di Edwin Frost lo aveva tradito proprio con Gebert. Allora, questa madre che era stata l’amante di un uomo, non esita a buttare tra le sue braccia la figlia, pur di poter così godere indirettamente di quel patrimonio di due milioni di dollari da cui altrimenti sarebbe estromessa.

Il romanzo ha punti di contatto con altri romanzi dello stesso periodo. E’ evidente una possibile filiazione di The Red Box di Stout da The Poisoned Chocolates Case di Anthony Berkeley : il punto di contatto non è solo il metodo di avvelenamento singolare (scatola di dolciumi in uno, scatola di cioccolatini nell’altra) quanto anche uno dei veleni che si trovano citati in ambedue i romanzi, cioè il nitro-benzolo. Tra i due ovviamente la fonte originale è la più precisa in relazione alle modalità di avvelenamento: 8-10gocce di nitrobenzolo sono già una dose letale, ma il nitrobenzolo non si comporta come il cianuro per cui i tempi di avvelenamento mortale sono molto rapidi; ha più un comportamento simile all’avvelenamento da arsenico, cioè l’avvelenamento di solito è progressivo ed è di tipo sociale, cioè avviene in quelle persone che per motivi di lavoro vi vengono a contatto: infatti è una delle poche sostanze velenose che possono essere assorbite per via cutanea, determinando attraverso questa via, però mai la morte improvvisa. Quando è letale, l’avvelenamento acuto (raro) deve essere massiccio. Non a caso la vittima del romanzo di Berkeley se avesse mangiato un solo cioccolatino, non sarebbe mai morta: muore perché ne fa una scorpacciata. Nel romanzo di Stout invece, per l’avvelenamento da dolciumi viene usato il cianuro, che è mortale, ma l’avvelenamento cutaneo mortale di cui è vittima Gebert da nitrobenzolo è un paradosso, non potendo mai il nitrobenzolo per quanto detto, uccidere per avvelenamento cutaneo in maniera improvvisa. In questo riscontriamo una notevole imprecisione di Stout che non aveva verificato probabilmente il livello di mortalità effettiva dovuto alla sostanza.

Dal romanzo fu tratto in Italia uno degli sceneggiati del Nero Wolfe con Tino Buazzelli e Paolo Ferrari, per la precisione il primo, quello pilota della serie: trasmesso nel febbraio del 1969, la sceneggiatura di Belisario Randone non si discostava molto dal romanzo, tranne che aver saltato la parentesi di Glenanna (un cottage in cui ad un certo punto si suppone possa essere stata nascosta la famosa scatola rossa) per ovvi motivi, essendo uno sceneggiato interamente ripreso in studi televisivi, e soprattutto per la sorpresa finale della falsa scatola, in cui nella trama vera c’è solo una fiala di nitrobenzolo, di cui l’omicida si serve per uccidersi (è evidente che Nero Wolfe avendo inscenato il ritrovamento della scatola, voglia dare la possibilità all’omicida di uccidersi, perché in questo modo salva anche dallo scandalo persone già provate per fatti precedenti), mentre nella trama sceneggiata in tv, di fiale non ce n’è neanche l’ombra ma solo un malloppo di documenti (quelli che in verità vengono trovati nella vera scatola dietro una pietra del camino della casa della sorella di McNair in Scozia) che in questo modo erudiscono lo spettatore su quella serie di fatti di cui invece il lettore è stato già messo a parte.

Nondimeno è evidente un altro più recondito intendimento nello sceneggiato, trasmesso sul secondo programma nazionale della RAI: quello di non parlare di suicidio, una pratica di morte che nell’Italia cattolico-democristiana era assolutamente condannata (con la dannazione eterna), ma piuttosto di arresto del reo affinchè scontasse il fio della sua colpa ed eventualmente si ravvedesse. Del resto questa tendenza a sostituire l’arresto al suicidio, è ravvisabile in altro sceneggiato di quegli anni, il Philo Vance televisivo, con Giorgio Albertazzi, in cui, ne La fine dei Greene, l’omicida viene internato in un manicomio criminale, invece che finire suicida con la propria auto. Anche nell’episodio conclusivo della miniserie di Philo Vance, lo sceneggiatore è lo stesso che di quello tratto da La scatola rossa di Stout, “Veleno in sartoria”: Belisario Randone.

Come struttura, il romanzo non è un mystery veramente classico, ma come tutti i Nero Wolfe, soprattutto quelli dagli anni 40 in poi, ma un mystery movimentato, dinamico, con ceneri hardboiled (l’interrogatorio della polizia di Perren Gebert, trovato ad introdursi di nascosto nella vilal di Glenanna, è sintomatico) ed anche una certa filiazione oltre che da Berkeley, per certi versi anche da quei romanzi che originavano da Conan Doyle, per la singolarità di far derivare tutta una situazione di cui si parla nel romanzo, da un dramma accaduto nel passato.

Pietro De Palma

Ricordando Tecla Dozio e La Libreria Sherlockiana di Milano

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Qualche giorno fa ho saputo che è mancata nel febbraio dell’anno scorso Tecla Dozio.

L’avevo conosciuta nel 1990, quando mi ero recato per la prima volta presso la sua libreria, La Libreria del Giallo, in Piazza San Nazaro in Brolo, una traversa di Corso di Porta Romana, a Milano. Era una bella sede, la ricordo bene: locali spaziosi, ariosi, ben illuminati. Forse anche troppo disimpegno in quei locali, alle cui pareti scaffali strazeppi facevano visionare romanzi polizieschi di tutti i generi, tanto che mi ricordo Lei aveva messo quei cartelloni di cartone che invitavano ad iscriversi ad una associazione che faceva riferimento alla libreria, ispirata a Sherlock Holmes:in cambio di una quota asociativa si aveva dritto ad una publicazione,gadget, sconti. Infatti la libreria prese il nome di Sherlockiana.. In quel periodo a me interessavano i romanzi di Margery Allingham, e Christianna Brand, oltre che di Dorothy Sayers. E quelli che non riuscivo a trovare di Carr.

La libreria era nata nel 1985 ma non era stata lei a fondarla. Era stato il mai dimenticato Gian Franco Orsi, che assieme alla moglie e ad un’altra socia più giovane, gestivano la libreria: lo so per certo perchè un mio amico in quel tempo lo era proprio della socia più giovane che morì tragicamente nel 1988. Qualche tempo dopo la libreria fu venduta a Tecla Dozio che era – a detta di questo mio amico – una visitatrice e cliente fissa della libreria. Tecla non mi ricordo bene, vendette o ipotecò il suo appartamento per rilevare l’attività con tutto quello che c’era dentro, e di cui in parte non conosceva neanche il reale valore: un amico mi ha detto tempo fa di aver trovato per esempio nello scantinato, copie delle prime edizioni americane di molti classici, tra cui due del romanzo di F.G.Parke, First Night Murder (più tardi pubblicato nei Bassotti da Polillo).

Il punto, dove si trovava, assicurava un certo via vai: innanzitutto, vi andava il visitatore che sapeva dove si trovasse la Libreria, ma poi son sicuro che anche chi non avrebbe mai pensato di trovarla, se era interessato, vi sarebbe entrato. La libreria era infatti vicina all’Università Statale di Milano, e praticamente attaccata o quasi alla basilica di San Nazaro in Brolo con annesso Mausoleo Trivulzio del Bramantino. E per di più a quattro passi c’era anche un ristorante che in quegli anni assicurava una favolosa cassoeula.

Vi andai per qualche tempo, giacchè in quegli anni almeno due volte l’anno andavo a Milano a trovare i miei zii, e comprai caterve di cose. Poi un giorno, non la trovai più e mi dissero che si era trasferita in Via Peschiera: era il 1992 o 1993, non ricordo.

In via Peschiera andai parecchie volte: la prima volta che mi ci recai tuttavia, non fu facile, perchè collocata in un dedalo dalle parti di Corso Sempione. Mi ricordo che non c’era la luce che inondava la vecchia libreria, e gli spazi erano più angusti, anche se sempre comodi.

La prima volta mi ricordo, la signora stava parlando al telefono, mi pare alla figlia: era una giornata uggiosa, invernale, un pomeriggio. Trovai due romanzi che cercavo da parecchio tempo: In alto mare di Daly King e Gli occhi verdi del gatto, di Dorothy Sayers. Il primo era in libera vendita,il secondo no. La signora mi disse che un cliente l’aveva già prenotato da sei mesi e giaceva in negozio in attesa che venisse a ritirarlo: io, che ero interessato, le dissi che se davvero fosse stato interessato sarebbe venuto aprenderselo nei sei mesi precedenti, mentre io ero lì ed ero pronto a comprarglielo. la signora convenne e mi dette il romanzo. Entrambi Capolavori del Giallo Mondadori.

Un’altra volta, ero a Milano da qualche giornoo, intorno al 2000. Andai a trovarla nel pomeriggio: non c’era nessuno, ma era in programma una presentazione mi pare. Non c’era nessuno e la signora si lasciò andare a qualche ricordo,quando le chiesi se poteva prendermi un libro della Hobby & Work, Satana a St. Mary, appena uscito: in quell’occasione mi disse che lei aveva curato per quella casa editrice una collana. Infatti qualche anno fa, ho trovato parecchi noir,in una svendita presso un ipermercato,di tale collana curata da Tecla Dozio. Era un po’ depressa:mi disse che io ero il solo cliente che aveva avuto quel giorno. E gli altri giorni non erano molto dissimili da quello. Tecla Dozio era innamorata della sua libreria, e nel suo mestiere ci metteva passione, non era solo un modo per guadagnare. Che poi. se ci avesse davvero guadagnato, non avrebbe chiuso la libreria qualche anno dopo.

Ritornai a trovarla nel 2000, ma alla fine. Ero in viaggio di nozze.Lei una ventina di giorni prima del matrimonio, mi aveva telefonato comunicandomi che dei libri erano arrivati e se poteva inviarmeli (infatti acquistavo molta roba da lei): io le dissi che mi sarei sposato e sarei passato da Milano, e quindi sarei andato a prendermeli di persona. Nell’occasione, 22 dicembre, bellissima giornata, lasciai un attimo mia moglie seduta ad una panchina di Foro Bonaparte, e andai a colpo sicuro in Via Peschiera: mi ricordo che ritornai dalla mia bella sposina, con Morte dal cappello a cilindro di Clayton Rawson, tre romanzi di Herbert Resnicow, due di Doherty (C.L.Grace) e un Wilhelm.

Sono ricordi indelebili. Associati alle cose più belle che facevo a Milano. Una era andare dai miei zii, un’altra trovare i miei amici, poi andare alla Sherlockiana, e infine non meno importante recarmi nel negozio di dischi di musica classica, dei fratelli Grazioli, in Via Nirone.

Da quel dicembre 2000 non sono più andato a Milano. Ma non smisi di comprare libri, ricorrendo sempre alla corrispondenza. Anzi i pacchi arrivavano più ricorrenti a casa, soprattutto dopo che nel 2003 conobbi Igor Longo, tramite Dazieri, e lui mi segnalò tutti i titoli di Camere Chiuse o Delitti Impossibili che secondo lui era imprescindibile che io avessi e leggessi. Andò avanti sino al 2008 credo: in quell’anno mi arrivarono gli ultimi due romanzi che cercavo di Halter : Nebbia rossa e Il cerchio invisibile.  Avevo ancora qualche titolo in ricerca (La porta sull’abisso di Carr per esempio), ma poi su Anobii fui avvisato che la libreria si sarebbe chiusa, e che centinaia di titoli erano in vendita a prezzi scontati. So che parecchia gente ne ha approfittato, ma siccome di lucrare sulle disgrazie altrui non mi è mai piaciuto, inviai una lettera di solidarietà e contemporaneamente scrissi come altri ad organi di stampa, per sensibilizzare sulla vicenda. La signora mi ringraziò, ma non ci sentimmo più.

Qualche anno fa la ritrovai su Anobii. Le inviai una missiva e lei mi rispose. E’ stata l’ultima volta che l’ho sentita.

P. De Palma

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