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Uno dei capolavori, se non Il Capolavoro, di Margery Allingham: L’ora del becchino.

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Margery Allingham – L’ora del becchino (More Work for the Undertaker ,1948) – trad. Diana Fonticoli – Il Giallo Mondadori  N.2987 del 2009


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Margery Alligham è una delle esponenti più famose della della Golden Age del romanzo poliziesco, formando assieme a Agatha Christie, Ngaio Marsh e Dorothy Sayers le cosiddette 4 “Crime Queen”

Nacque a Londra nel 1904, in una famiglia in cui il pane quotidiano era la letteratura: i genitori erano scrittori, una zia possedeva una rivista letteraria. Durante l’infanzia la famiglia si trasferì nell’Essex dove lei attese agli studi. Tornata nel 1920 a Londra, frequentò studi recitazione e conobbe il futuro marito, che la aiutò sempre nella sua attività editoriale, progettando molte delle copertine di suoi libri.

Esordì nel 1923 con Blackkerchief Dick, un romanzo in cui c’erano elementi di occultismo, senza avere un folgorante successo, e stessa cosa si ripetè più tardi, nel 1928, quando il suo primo poliziesco fu pubblicato sulla carta stampata a puntate, The White Cottage Mystery. Tuttavia il vero successo lo ebbe quando dette alle stampe il suo primo romanzo, The Crime at Black Dudley, 1929, in cui introdusse il suo personaggio fisso, Albert Campion, una via di mezzo tra vari personaggi di altri autori : il Lord Peter Wimsey (della Sayers) e il Roderick Alleyn di Ngaio Marsh (è un personaggio che oscilla nell alte sfere della nobiltà) e  Philo Vance di Van Dine (l’upper class della borghesia). Dipana misteri, ma vive anche avventure. Inoltre, confezionando i personaggi di Campion e Lugg, Allingham dimostra di aver assimilato l’idea base, seguita molte volte dagli scrittori degli anni venti e trenta, di un investigatore assistito da un suo collaboratore.

Il primo come si sa fu Sherlock Holmes col fido Watson. A rompere le scatole dello schema non fu però Leblanc, che confezionando Arsene Lupin e mettendolo a confronto con un sedicente Herlock Sholmes,  aveva messo in ridicolo il personaggio di Doyle e lui stesso, ma Chesterton che inventò il prete-detective Padre Brown dandogli come assistente collaboratore un ex ladro, Flambeau, diventato poi detective. La Allingham mi pare che attinga proprio da Chesterton e da questa idea base, per creare la coppia Campion-Lugg, non dimenticando che Flambeau è una derivazione stessa di Lupin, ladro e detective (per fini propri) nello stesso tempo.

Spesso, a differenza di altre esponenti, che fanno agire i loro personaggi solo entro contesti ben assestati di alta borghesia (in cui vittime e assassini rientrano in questo organigramma), l’Allingham non disdegnava far convivere elementi di criminalità comune nelle sue storie, in questo ereditando un clichè che era proprio dei primissimi polizieschi quelli degli anni ’10 ma anche inizio degli anni ’20 (Meirs, Wallace, Holt, Rohmer, Farjeon, etc..). Proprio in risposta a questa tendenza che si vede più volte espressa nei suoi romanzi, cioè di far convivere detection pura e una specie di hard-boiled all’inglese, le sue storie sono spesso non convenzionali e hanno notevoli punti si sorpresa.

Come appunto nel romanzo “Il giorno del becchino” (More Work for the Undertaker ,1948), un’opera che si situa nella secondà metà della sua produzione ( la prima che va grosso modo sino al 1938, comprende dieci romanzi scritti in nove anni, in cui il personaggio di Campion è predominante nella storia e ha caratteri spiccati di whodunnit; la seconda che va dal 1941 al al 1968 comprende 8 romanzi in 27 anni, in cui il personaggio principale tende a essere sminuito da altri via via presenti, e i romanzi stessi sono spesso molto più strutturati che quelli dei primi anni), con le sue più che 200 pagine, molti personaggi, molti subplots, e anche elementi di criminalità comune che rendono l’orizzonte del romanzo ancor più variegato e ricco, di quanto non appaia nelle prime pagine.

Sullo sfondo c’è una famiglia, i Palinode, un tempo il fulcro di un intero quartiere,  ridotta sul lastrico, i cui appartenenti, tutti fratelli, si comportano, alcuni come se il tempo non fosse passato, cioè con esagerata dignità di classe, trattando l’ambiente circostante come delle nullità (Evadne e anche Lawrence), altri con dignità quasi o del tutto assente, comportandosi come un indigente della massima specie, che viva di espedienti, mangiando e bevendo cose prese dai boschi o utilizzando le erbe, solo allo scopo di risparmiare (Jessica), altri ancora vivendo la propria situazione a metà, facendo parte della casa ma nel tempo stesso rigettandone le finalità, innamorata com’è di un proprio coetaneo (la nipote Clizia). Questa famiglia dimora nella propria casa, venduta nel tempo e di cui ora non sono più i proprietari ma solo dei pensionanti; condividono la loro vita, assieme ad altri inquilini, tutti un po’ strani: l’ex attore Carrie e l’ex militare, cap. Seaton. A dirigere il pensionato è Reneé, una conoscente di Campion.

Campion a malincuore si trova invischiato nella storia dei Palinode, invitato ad occuparsene anche dal cognato del suo maggiordomo e braccio destro Lugg, il becchino Bowlers.

E’ morta Ruth Palinode, ed una lettera anonima accusa il medico che ha stilato il certificato di morte, di averlo fatto frettolosamente: è una lettera velenosa, scritta da chi vuol far credere o è veramente, poco avvezza a scrivere bene. Ruth viene esumata e i resti degli organi sottoposti ad analisi, rivelano un’esagerata quantità di scopolamina, un veleno tratto da Giusquiamo, una pianta che cresce nel parco cittadino. In quest’ottica, si dispone anche l’esumazione della salma dell’altro fratello Edward, morto presumibilmente di colpo apoplettico. Ma siccome il certificato di morte, l’ha firmato lo stesso medico di famiglia che aveva attestato la causa di morte per ragioni naturali di Ruth, poi scoperta dovuta invece ad avvelenamento da scopolamina,  si dispone la riesumazione della salma anche di quest’altro fratello, che però fornisce esito negativo: è morto davvero per questioni cardiache.

Intanto però altri eventi si annodano a quello principale: in una cantina, i Bowlers fabbricano bare. Cosa trafficano con le bare, che escono di notte, da quella cantina? Apparentemente sono puliti, padre e figlio, ma Albert Campion non ci vede chiaro. Ancor più per il fatto che in fondo lui è stato invitato a occuparsi della faccenda per interessamento dei Bowlers, di Jas Bowlers, padre.

Tuttavia, questo strano e macabro traffico di bare, che avviene di notte, neanche che trasportassero morti di peste, cadaveri in decomposizione, fà da sfondo ad altri eventi che si sovrappongono, ad esempio eventi di cronaca nera che non c’entrebbero nulla col tronco principale dell’avventura, ma che qua e là appaiono e scompaiono; e in aggiunta a ciò, anche l’aspetto patrimoniale della vicenda, giacchè i Palinode sono diventati poveri anche per le vicissitudini legate alle disastrose speculazioni finanziarie di Edward che hanno spremuto le risorse finanziarie di famiglia, destinandole all’acquisto di azioni reputate da lui ottimi acquisti, ma poi rivelatesi niente più che carta straccia. Così in definitiva, perché mai qualcuno avrebbe voluto uccidere la vecchia Ruth, appartenente ad un’antica famiglia decaduta e in condizioni finanziarie pessime? Fatto sta che però Campion e la polizia scoprono che proprio pessime non sarebbero queste condizioni finanziarie, perché, anche se loro stessi non lo sanno ( o qualcuno invece lo sa?) alcune delle azioni in loro possesso e gestite dalla banca cittadina, sono legate allo sfruttamento di determinate miniere, vitali per certi interessi nazionali.

Il ginepraio in cui deve barcamenarsi Campion è quantomai arduo. A tutto ciò, si aggiunga anche che deve vagliare i moventi tra i potenziali assassini esterni e quelli interni alla casa, tra attori falliti e militari in pensione, tra cameriere pettegole e familiari superbi ma nel tempo stesso ridicoli nei loro tic, tra i quali emerge per esempio la voglia di economizzare, creando decotti e tisane che a loro modo dovrebbero fare bene apportando principi utili all’organismo, ma che invece sono estremamente tossici, quando non allucinogeni: quando per esempio, per curare un mal di denti, Jessica propina al malcapitato di turno una tisana a base di fiori di papavero che sì addormenta il mal di denti, ma che al tempo stesso lo imbottisce di oppio.

L’assassino, proprio approfittando di questo tic, cerca di eliminare un altro dei Palinode, Lawrence, facendo in modo che beva un decotto a base di cicuta, durante una festa, in cui agli invitati vengono propinati tisane di ortica e decotti di tanaceto o di erba mate; solo che il fratello, trovandosi dei frammenti di foglia in bocca e sapendo che la sorella è fissata in merito al filtraggio delle sue schifezze per ricavare dai residui altro materiale utile e quindi capendo che quella cosa che ha trangugiato non può esser stata preparata dalla stessa, fa in modo da vomitare, salvandosi la vita.

Ad aggravar il quadro della vicenda, di per sé caotico, si deve aggiungere il tentativo di omicidio del giovane  Dunning, amante di Clizia, colpito pesantemente al cranio da un corpo contundente, di cui non si capisce il fine, fino a che non viene acciuffato l’assassino, e scoperto un’ incredibile ridda di submoventi, che abbracciano la criminalità comune, le azioni ritenute nulle ed invece ricchissime, e i traffici notturni di bare e becchini. E che si collegano persino alla scopolamina usata dal dottor Crippen.

All’assassino Campion arriverà, ricordandosi dei bicchieri di sherry in cui erano inseriti dei fiori finti che aveva visto da qualche parte, e di cui qualcun altro ne conservava altri, assieme allo sherry e ad una boccetta contenente il veleno, perché costituiva attrazione per i visitatori, interessati alle vicende delittuose del dottor Crippen.

A differenza dei primi romanzi in cui il sentiero è dritto e definito, e quindi più classicamente il lettore ha in mano quasi tutti gli elementi per riuscire a valutare la vicenda nel suo insieme, qui, al lettore molto spesso vengono taciuti importanti elementi che poi portano o a scoperte nel corso del romanzo o addirittura alla scoperta finale dell’assassino, dei suoi complici e dei moventi. In questo, la Allingham si discosta palesemente dalle 20 regole elaborate da Van Dine, che erano state pedissequamente seguite nel corso degli anni ’30.
Anche lo stesso assassino arriva come un fulmine a ciel sereno, perché seppure sorprendente, forse lo è troppo, perché non è stato mai messo in rilievo nel corso del romanzo. Semmai lo è stato l’impiegato di banca, che al pari dei becchini, ha apparizioni oscure e spettrali, mischiandosi alle ombre: Congreve, fratello di una sedicente medium (amante di uno dei pensionanti) che ha inviato lettere anonime a vari personaggi della vicenda, tra cui il farmacista, un’altra delle vittime della mattanza, suicidatosi col cianuro. Ma Congreve, pur avendo conosciuto alcuni particolari della vicenda, non è l’assassino ma solo un volgare ricattatore: l’assassino è impalpabile nel corso del romanzo, fino alla sua scoperta finale: sembrerebbe che la Allingham volutamente l’abbia taciuto così da accrescere il suo ruolo nel finale.

Molti buoni propositi in questo romanzo, e tracce ereditate da altri autori: potrei citare La Rovina di casa Usher di Poe o anche La fine dei Greene di Van Dine o anche La Tragedia di Y di Queen, per quanto riguarda la serie di morti più o meno sospette tra i Palinode. Al di là di questo,

il romanzo è molto difficile da leggere, prolisso, pieno di giochi di parole, riferimenti, citazioni: non è certamente il romanzo che un lettore alle prime armi che si avvicina al genere, dovrebbe leggere. Per di più, parecchie delle citazioni e dei giochi di parola, che si perdono talora nella traduzione italiana, finiscono per appesantire la vicenda, già di per sé difficile da inquadrare. E alla fine si arriva più per forza di inerzia, e per voler davvero capire chi cavolo sia il responsabile e cosa c’entrino tutti questi subplots e submoventi, che per una effettiva tensione generata consapevolmente dallo stile della scrittrice.

Un romanzo estremamente affascinante per la trama e i personaggi surreali, ma poco adatto a chi lo voglia leggere per passare un pomeriggio: spesso, bisogna rileggere per riuscire a capire i nessi.

Un capolavoro (in inglese, la qualità stilistica dell’opera è altissima) per giallofili.

 

 

 

Pietro De Palma

 

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Un romanzo unico, uno dei migliori cento gialli di sempre.

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Nicholas Blake – La Belva deve morire (The Beast Must Die, 1938) – trad. Giuseppina Caricchio – I Classici del Giallo Mondadori N. 582 del 1989

 

$(KGrHqNHJBEE+P7UkSqlBQR1ezt+1!~~60_35.JPGHo deciso di uccidere un uomo. Non so chi sia nè dove viva, non ho nessuna idea di che tipo sia. Ma lo troverò e lo ucciderò.

Così, con un incipit di eccezionale drammaticità, comincia uno dei più straordinari romanzi polizieschi che mai siano stati scritti, di Nicholas Blake.

Chi è a conoscenza che uno dei più grandi scrittori britannici di polizieschi, Nicholas Blake, era in realtà Cecil Day-Lewis, grandissimo poeta del XX secolo inglese, insignito dell’ambitissimo titolo di “laureate poet”, seppure solo 4 anni prima della sua morte?

Cecil Day-Lewis nacque nel 1904 in Irlanda. Alla morte della moglie avvenuto quando il piccolo aveva due anni, il padre di Cecil, il reverendo Lewis, col figlioletto, si trasferì a Londra. Qui Cecil frequentò le migliori scuole, laureandosi nel 1927 presso il College Wadham di Oxford. E ad Oxford insegnò dopo la laurea. Già nel 1925 era entrato a far parte di un gruppo di poeti , l’Auden Group, fondato nell’Università di Oxford intorno alla figura carismatica di Wystan Hugh Auden, che aveva raccolto attorno a sé i suoi più brillanti allievi: Cecil Day-Lewis, Christopher Isherwood Louis MacNeice e Stephen Spender. E’ da dire tuttavia che questo appellativo fu un’invenzione giornalistica, giustificata dal fatto che tutti questi poeti avevano un denominatore comune, ispirandosi ad Auden, e politicamente erano di sinistra.

Lewis gravitò sempre negli ambienti universitari, insegnando non solo ad Oxford ma anche a Cambridge, e in età avanzata (quando fu conosciuto non solo in quanto scrittore ma anche traduttore, da Virgilio soprattutto) anche ad Harvard, e legò la sua fama a due sue propensioni: alla poesia (diventò nel 1968 “Poet Laureate of the United Kingdom”), e al romanzo poliziesco, di cui fu uno dei principali esponenti con lo pseudonimo di Nicholas Blake (sicuramente ispirandosi a William Blake).

Esordì con tale pseudonimo nel 1935 con A Question of Proof, e continuò sino al 1968, sfornando complessivamente 20 romanzi. Morì nel 1972.

Il suo nome di romanziere è legato soprattutto a due titoli: Thou Shell of Death e The Beast Must Die

Nel primo dei  20 romanzi scritti, A Question of Proof , “Questione di Prove”, fece esordire il suo personaggio fisso, Nigel Strangeways, modellandolo sulla figura di  Wystan Hugh Auden, e sulle sue stravaganze: non a caso, tradotto in italiano, potrebbe chiamarsi “Nigel, dai modi strani”. Tuttavia, a partire dal suo secondo romanzo, Thou Shell of Death, “Quando l’amore uccide”, il personaggio cominciò a mutare i suoi modi, divenendo sempre più posato e normale. Non in tutti i 20 romanzi, tuttavia, apparve Strangeways: infatti, in A Tangled Web (Il dilemma di Daisy Bland), Penknife In My Heart (La mia morte per la tua), The Deadly Joker, The Private Wound (L’angelo della morte), esso non c’è.

The Beast Must Die, pubblicato nel 1938, è uno dei capolavori, se non Il Capolavoro assoluto di Blake, non a caso inserito nei 100 migliori gialli di sempre.

Il romanzo è estremamente interessante per due motivi: una prima parte, dominata dalla prima persona; seconda, terza e quarta parte in cui si parla in terza. Il motivo è chiarissimo, una volta che comincia la narrazione: un padre, Frank Cairnes, scrittore di romanzi polizieschi, anche molto famoso sotto lo pseudonimo di Frank Lane, ha perso in modo tragico il suo unico figlio: Martie, un bambino di 8 anni, è stato travolto da un’auto pirata sulla strada, uccidendolo sul colpo e trascinandolo per molti metri appresso. Per Frank Martie era anche l’ultimo filo che condivideva col ricordo della moglie morta: così la morte di Martie diventa per Frank doppiamente triste, e l’unico motivo della vita dello scrittore, non essendo la polizia nonostante gli sforzi riuscita a pervenire a qualche risultato, diventa fare giustizia, o meglio..farsi giustizia. In altre parole per Frank l’unica ragione di vita diventa trovare l’assassino del figlio e ucciderlo. L’intendimento, espresso nell’incipit succitatodel romanzo, permea tutta la prima parte, che non è altro che una confessione, in forma di monologo (che Frank appunta nel diario), dei suoi propositi di vendetta omicida, per la morte del figlio, rimasta senza giustizia.

In verità Frank pare che abbia maggior fortuna della polizia, perché, partendo dal fatto che l’auto dell’assassino dopo l’investimento avrebbe dovuto recare palesi segni della morte del bambino (ammaccature e sangue) e venendo a sapere da un passante che tempo prima (proprio il giorno dell’investimento) qualcuno era piombato a tutta velocità in una specie di pantano formatosi sulla strada, dal fatto che nel posto affianco al guidatore era stata riconosciuta una starlette, che recitava in film sexy, egli riesce a risalire all’identità del guidatore dell’auto pirata: George Rattery, proprietario di un’autorimessa, dove peraltro avrebbe potuto riparare del tutto indisturbato i segni dell’investimento riportati dalla sua automobile.

Facendo colpo sulla ragazza, Lena Lawson, Frank riesce a costruire una storia con lei, e quindi ad introdursi nella casa di Rattery, che di Lena è cognato (ma è stato anche amante): una casa dominata dalla figura ripugnante di Rattery, vessatore del figlio Philip e della moglie Violet, e scusato invece dall’autoritaria Ethel Rattery, sua madre. In breve, pur mal sopportato da George, Frank riesce poco alla volta a sottrargli l’attenzione di Philip; inoltre, il diario registra, giorno dopo giorno, i progressi acquisiti da George, non solo nell’individuazione dell’assassino del figlio e del testimone reticente che non ha detto nulla di quanto accaduto (Lena), ma anche dei suoi propositi di vendetta.

La prima parte termina laddove questi progetti sembrano concretizzarsi, dopo un tentativo andato male in una cava, sul piccolo yacht di Frank, laddove egli cercherà di uccidere George. Comincia così la seconda parte, dominata dalla terza persona singolare, una descrizione impersonale in cui Frank non è il personaggio principale, ma uno di quelli sulla scena, in cui il tentativo di Frank fallisce, e in cui tuttavia maturano le premesse perchè comunque George Rattery muoia avvelenato. La terza parte parla della sua morte e dell’indagine, mentre la quarta è riservata all’individuazione del vero colpevole. 

Il motivo anche qui è chiarissimo: mentre prima George ha dominato l’azione e la narrazione con i suoi tentativi di approccio e i suoi desideri di vendetta, nel momento in cui questi tentativi vengono esplicitati e non sortiscono alcun rusltato, ma poi lo stesso Rattery comunque muore assassinato per una dose massiccia di stricnina, che qualcuno ha sottratto dal garage, dove era lì custodito per essere utilizzato nella disinfestazone dei topi presenti nella villa, è evidente che Felix, laddove non lo si consideri un assassino che ha denunciato i suoi propositi abbastanza maldestramente in un diario personale, è stato individuato come ideale capro espiatorio da chi, pervenuto in possesso delle informazioni contenute nel diario, e vero assassino di George, lo voglia consegnare agli organi inquirenti, togliendosi da qualsiasi impaccio. Nella terza parte entrerà in scena Nigel Strangeways, chiamato in causa proprio da Frank, perché lo aiuti a provare la sua innocenza, giacchè mai un assassino scriverebbe un diario in cui parlasse dei propositi di un omicidio, se non fosse solo un modo per darsi forza, all’infuori del vero proposito di qualcuno di uccidere Rattery e di addebitare a Frank la colpa di tutto. Quale assassino sarebbe così pazzo da confessare di stare per uccidere un uomo, facendo in modo poi che egli possa impadronirsi del diario e sapere di stare per essere ucciso?

Brutta gatta da pelare per Nigel, invero !!! Infatti, se è vero che di assassini probabili, casa Rattery sembra esser piena (dal figlio vessato, alla moglie dominata e tradita, dalla ex amante che non vorrebbe che rivelasse la loro storia a Felix, al socio di Rattery, James Harrison Carfax, che avrebbe potuto vendicarsi del tradimento della moglie Rhoda, altra amante di George, fino alla madre Ethel, ossessionata dal fantasma della rispettabilità del buon nome della famiglia, che avrebbe potuto uccidere il figlio adultero a tutela dell’onore violato), è anche vero che il diario fornisce a Blount, Ispettore Capo di Scotland Yard, un assassino bello pronto.

La matassa verrà districata a dovere, solo dopo aver analizzato gli alibi e soprattutto dopo che Nigel sarà riuscito a ricostruire psicologicamente le mosse dell’assassino, partendo da una serie di indizi non inquadrati perfettamente dal pur abile interlocutore nella polizia. Riuscirà a far capitolare l’assassino (un assassino sentimentale), solo dopo che un innocente verrà coinvolto al suo posto.

La conclusione, amara e tragica, vedrà Nigel interdetto sulla possibilità di lasciare libero o consegnare alla polizia l’assassino di un essere riprovevole, fra l’altro a sua volta assassino di un bambino.

Come abbiamo detto precedentemente la divisione del romanzo in quattro parti, di cui la prima affidata ad una narrazione in prima persona e le altre tre in terza persona, incide profondamente sulla lettura: nella prima parte, in cui l’emozione per la morte tragica di un bambino è condotta magnificamente fino al climax finale, ed è dominata dalla prima persona, che porta il lettore ad identificarsi con la vicenda tragica di un padre che ha perso il suo unico figlio a cui era legato fortemente, la sensibilità letteraria di Blake giunge a vette inusitate di drammaticità e ad accenni poetici in cui chiaramente viene rivisitata con icasticità commovente la poetica di Catullo, di Virgilio e di Orazio, quando non si serve di versi di poeti, più a lui vicini: ad esempio i sette versi tratti da “Toys”

He had put, within his reach,

A box of counters and a red-vein’d stone,

A piece of glass abraded by the beach

And six or seven shells,

A bottle with bluebells

And two French copper coins, ranged there with careful art,

To comfort his sad heart), poesia inserita nella raccolta The Victories of Love, and Other Poems di Coventry Patmore, poeta ottocentesco della corrente dei Preraffaelliti . Qui, la materia narrativa viene trattata con tale sapienza di mezzi espressivi e toccando le corde del cuore di qualsiasi lettore, da diventare quasi un caso a sé nella fiction poliziesca; e pur legando tale espressività ad un fine che verrà esplicitato solo successivamente, Blake trascende la letteratura di genere assurgendo a vette di pura arte (in qualche modo giungendo agli stessi esiti del Carr di She Died a Lady). Devo dire in tutta sincerità che il meccanismo con cui Blake cerca di entrare nell’animo del lettore, facendolo partecipe della vicenda tragica di un padre che ha perso il suo unico figlio, mi ha commosso profondamente avendo anch’io un figlio della stessa età di quello descritto nel romanzo e per di più figlio unico (ritengo che sia l’unica volta in cui un romanzo poliziesco mi abbia colpito tanto profondamente!).

A partire dalla seconda parte, in cui si perde invece l’unicità dell’identificazione del lettore nella persona del narratore (espediente già utilizzato da Agatha Christie) per utilizzare la narrazione in terza, che pur perdendo in drammaticità e forza espressiva, Nicholas Blake descrive l’ambiente, le personalità dei soggetti del dramma e gli eventi connessi, con sufficiente distacco,tale da evidenziare che l’intervento del soggetto investigante sia il più imparziale possibile e soprattutto individui il responsabile al di là delle vicende trattate, agendo “super partes”.

Qui,  il meccanismo dell’individuazione del colpevole, si esplicita in una serie di ingranaggi collegati a vari subplots, che giustamente qualcuno ha ricollegato all’azione narrativa di Carr, vero deus ex machina del romanzo poliziesco, nell’Inghilterra degli anni ’30-’40. La deduzione classica, tipica del whodunnit, viene qui arricchita da un ragionamento di finissima psicologia, che conclude in maniera superba il romanzo, consegnando un assassino, meno ovvio di quanto parrebbe, e soprattutto estremamente vero, una figura a tutto tondo, ben diversa dagli eroi di cartone, di tanta letteratura del genere.

Per di più la ricercatezza dei rimandi poetici utilizzati in quanto tali ( alcuni versi tratti dalla Ballata scozzese Lord Randall : “O I fear you are poisoned, Lord Randal, my son! I fear you are poisoned, my handsome young man!”. “O yes, I am poisoned; mother, mak my bed soon, For I’m sick at the heart, and fain wad lie down.”; o quelli tratti da Vier ernste Gesänge, op.121 di Brahms: Denn es gehet dem Menschen wie dem Vieh, vie dies stirbt so stirbt er auch; und haben alle einerlei Odem; und der Mensch hat nichts mehr denn das Vieh: dann es ist alles eitel [1] da cui Cecil Day-Lewis alias Nicholas Blake ricavò il titolo The Beast Must Die, creando un sillogismo che nel testo originale non esiste) ovvero celati sotto altre mentite spoglie (la frase nihil subhumanum a me alieno puto da lui eletta a motto degli scrittori di gialli, ma derivata dalll’omonima frase di Terenzio, Homo sum, humani nihil a me alienum puto; l’espressione latina Favete linguis con la quale Frank dice che intitolerà il suo saggio di cultura generale,  deriva almeno dal III libro di Amores di Ovidio: Sed iam pompa venit — linguis animisque favete! , espressione simbolo dell’Humanitas del circolo degli Scipioni e poi del Rinascimento, stanno ad indicare, anche quando non ce ne fosse bisogno, quale fosse la cultura di cui era espressione l’autore, quando ancora non si conoscesse il vero nominativo di origine. Del resto, altrettanti riferimenti culturali, quando non inseriti allo scopo di indicare lo snobismo del protagonista, es Philo Vance di Van Dine, ci ricordano romanzi di altri scrittori, che hanno studiato o insegnato a Oxford (per esempio quelli di Edmund Crispin o di Michael Innes).

 

 

Pietro De Palma

 




[1] Poiché uomini e bestie hanno identica sorte; così come queste muoiono, anche lui muore; tutti hanno un identico respiro e in nulla l’uomo differisce dalla bestia: poiché tutto è vanità (Ecclesiaste: 3,19-22)

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Una camera chiusa poco conosciuta di Connington

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J.J. Connington – Un cadavere fuori posto (In Whose Dim Shadow, 1935) – trad. Marilena Caselli – I Classici del Giallo Mondadori, N° 1121 del 2006.

 

copertine gialli blog 066.jpgHo già introdotto le notizie biografiche riguardanti Connington, quando ho parlato di Tragedy at Raventhorpe, uno dei suoi romanzi più suggestivi. Quindi…parlerò di altro.

Connington fu un autore che cominciò a scrivere romanzi polizieschi, come svago.: c’era una voce che diceva che negli anni ’30, parecchi professori leggevano gialli per svago..ma è anche vero che parecchie menti illustri ne scrivevano: Dorothy Sayers, Nicholas Blake, Edmund Crispin, Thomas Kyd, e appunto J.J. Connington, che in realtà si chiamava A.W.Stewart ed era un famosissimo docente di chimica e scienziato. Un cadavere fuori posto, è un romanzo del 1935. Diciamo subito che il lettore italiano che ha letto i romanzi degli inizi degli anni ’30, potrebbe trovarsi spaesato: quella che è la caratteristica principale di Connington, cioè l’atmosfera (le notti di luna piena, l’oscurità, misteriosi passaggi segreti, per es.) qui non esiste. Il romanzo infatti si presenta come un caratteristico Whodunnit di metà degli anni ’30, un romanzo ad enigma, come tanti di quegli anni, anche se sempre affascinante e costruito assai bene (anche se, ancora una volta, l’assassino è, per il lettore esperto, molto facile da trovare: io l’ho trovato almeno 150 pagine prima della conclusione, C’era una voce che mi diceva che proprio lui doveva essere: ed in effetti non ho sbagliato. Il fatto è che Connington è sempre troppo rispettoso del lettore, e molto spesso dice troppo degli indiziati, quasi ne sbandiera le peculiarità, per cui…ad un certo punto, chi abbia una memoria analitica di quello che abbia letto e che sappia che 2+2 fa sempre 4, non può non capire chi sia l’assassino, per quanto improbabile). In questo caso abbiamo un poliziotto, William Danbury, che è desideroso di mettersi in luce, ma per farlo avrebbe bisogno di qualcosa veramente interessante, che neanche a farlo apposta, gli capita sotto il naso: mentre è di ronda di notte, il signor Geddington che abita al civico Grove N.5, lo prega di intervenire in uno stabile, perché si è sentito uno sparo. Danbury trova, non cercandolo, un bel cadavere caldo caldo, in un appartamento sfitto, dove sono in corso lavori di tinteggiatura delle pareti: nel bel mezzo di una camera è il corpo di un uomo, col volto sfigurato da un colpo di pistola sparato in faccia, in mezzo a una barattolo di vernice rovesciato, macchie di sangue sul pavimento ed un fazzoletto che ne è zuppo, e in una latta di vernice, una croce d’oro a forma di Tau. Inoltre, il cadavere indossa guanti, delle scarpe di gomma e ha in tasca uno sfollagente artigianale ma dall’aria assai efficace. Le indagini si presentano subito difficili. Non c’è apparentemente nessun vero indizio, tanto che persino gli abiti sono privi delle targhette riconoscitive, e nessuno degli inquilini dello stabile, a prima vista lo riconosce. Vi è un giornalista free-lance, invadente e a perenne caccia di scoop, Barbican, che è stato il primo ad accorrere ed il primo ad aiutare l’agente Danbury ed il suo collega a isolare la scena del delitto; c’è l’architetto Barnard; c’è George Mitford, ex impiegato d’ufficio che vive assai modestamente con una piccola rendita, e che sogna i luoghi fiabeschi del Giappone; c’è una coppia che invita sempre persone nel loro appartamento, di estrazione sociale elevata o che almeno vuol far ritenere tale; c’è la signora Sternhall, che di origini francesi dà lezioni della sua lingua originale in casa sua, e suo cognato, un tipo deciso ma dall’aria poco raccomandabile: la donna è sola, perché il marito, è sempre fuori per lavoro, ed al momento del rinvenimento del cadavere, è lontano. Insomma una fauna variegata. A questi tipi se ne aggiungono altri due, che assieme ad alcuni inquilini, sono soliti frequentare casa Sternhall per imparare o affinare il francese: c’è Ambrose Bracknell, un giovane ed aitante predicatore di una setta cristiana, e Miss Huntingdon, una ragazza che ne è innamorata. Fato sta che il cadavere, ricomposto,e soprattutto il viso pulito dal sangue e reso presentabile, fanno sì che il cadavere sia riconosciuto e associato al signor Sternhall che al momento della morte sarebbe dovuto essere lontano, e che invece era vicinissimo a casa sua. Si scoprirà che egli conduceva una doppia vita, perché aveva due mogli: quindi era bigamo. Che aveva licenziato un povero impiegato e lo aveva perseguitato, e che lui stesso era stato perseguitato a sua volta da un ricattatore che conosceva i suoi segreti. Che Bracknell era quello che aveva perso nella colluttazione con Sternhall il ciondolo a forma di Tau, ma non ne era stato lui l’assassino; e che per allontanare da sé i sospetti della polizia non aveva esitato a mettere in mezzo Miss Huntingdon che di lui era infatuata: insomma un bel farabutto! E che la signora Sternhall aveva taciuto molte cose a Sir Clinton Driffield, Capo della Polizia e protagonista dei molti romanzi di Connington. Il cadavere non sarà il solo nel prosieguo del romanzo ma sarà accompagnato da un secondo, quello dell’impiegato (era lui quello che guarda caso era stato licenziato da Sternhall) che impaziente di guadagnare i mille dollari messi come taglia per chi avrebbe rivelato alla polizia dei particolari utili ad acchiappare l’assassino, li sbandiera incautamente facendo riferimento ad una lettera che intende inviare proprio all’attenzione del Capo della Polizia: proprio questa avventatezza gli costerà la morte. L’assassino, che se qualcuno non l’avesse già individuato, si capisce lapallissianamente ora chi possa essere, lo ucciderà simulando un suicidio in una Camera Chiusa. Che verrà invece riconosciuto come omicidio quando intorno al cadavere si riconosceranno due tipi diversi di sangue. Toccherà a Sir Clinton nelle ultime pagine, con l’aiuto del suo amico Wendover (una specie di dottor Watson, ma molto più acuto del compagno di Sherlock Holmes), inchiodare l’assassino (casomai non si fosse ancora capito chi potesse essere) e spiegare i punti oscuri del dramma, anche se le ultime pagine non precedono la rivelazione finale, ma ne sono solo un riassunto ricapitolativo, giacchè l’assassino vien rivelato già a pag. 215 ( ma io l’ho capito già abbastanza presto, sulla base anche di un motivo che ricorre in tutti gli assassini sia di carta che reali) cioè venti pagine prima che viene arrestato. Se il romanzo, nella successione dei titoli di Connington, perde parecchio in atmosfera e acquista nella creazione dell’enigma e nella sua soluzione (ma quella della Camera Chiusa è alquanto criptica), un carattere è riconoscibilissimo, in quanto è un vero e proprio marchio della produzione di Connington: come abbiamo detto J.J.Connington in realtà era un grande scienziato, e in tutti i suoi romanzi, Stewart introdusse una qualche diavoleria elettronica, o una qualche invenzione oppure un qualche espediente che avesse contatti con la fisica o la chimica. In questo romanzo, particolarmente interessante è l’analisi sanguigna dei vasi e degli organi del cadavere, ed il confronto con il sangue trovato sul pavimento, partendo dal presupposto notevole che se fosse stato sangue sgorgato dalla ferita, esso si sarebbe dovuto coagulare tutto negli stessi tempi. Ed invece il fatto che vi sia del sangue coagulato e invece del sangue fresco rinforza l’ipotesi di una manomissione della scena del delitto. Inoltre vi è il dato caratteristico dell’assenza di impronte, ottenuta utilizzando polvere di licopodio. Il licopodio (Lycopodium) è un genere di piante vascolari appartenente alla famiglia delle Lycopodiaceae., abbastanza diffuso in tutto il mondo. Le sue spore, essendo altamente infiammabili, vengono utilizzate per spettacoli pirotecnici e anche circensi. Tuttavia in questo romanzo, A.W.Stewart sfruttò la capacità propria della polvere di licopodio, di essere refrattaria all’acqua, in quanto dotata di grandi proprietà assorbenti, e per questa sua proprietà, specificamente utilizzata nell’industria farmaceutica: siccome il sudore è in percentuale composto da una certa quantità di acqua, ricoperti i polpastrelli di licopodio, essi non avrebbero lasciato impronte digitali. Un’altra caratteristica saliente del romanzo, è che esso comincia senza una introduzione (in uso di altri romanzieri britannici del tempo: Christie, Marsh, Heyer) in cui venga anticipata la genesi del delitto: in questo, il romanzo si avvicina molto a quello che è il romanzo americano. Sostanzialmente, infatti, una delle differenze di struttura del romanzo poliziesco americano, da quello anglosassone per eccellenza, è l’assenza di una introduzione: il romanzo comincia col delitto, e solo allora cominciano le indagini di cui è partecipe il lettore: in altre parole il lettore viene assimilato al detective. Da ciò, verrà originata la tendenza, per esempio in Queen, a indire una tenzone tra scrittore e lettore, con la Sfida al lettore. Invece nel romanzo poliziesco britannico, prima del delitto, vi è una introduzione che introduce il lettore all’ambiente in cui avviene il delitto; cioè in altre parole, il lettore viene assimilato al narratore. Mi sembra una differenza sostanziale. Perché se in quello britannico, il lettore è avvantaggiato rispetto al detective perché ha assistito ad avvenimenti di cui il detective non sa nulla, e quindi la soluzione finale sarà ancora più una sconfitta del lettore, perché avvenuta per opera di chi non sapeva nulla ed invece è riuscito ad arrivare primo, in quello americano, il lettore è davvero sullo stesso piano del detective, e quindi la tenzone è svolta con pari intensità dalle due parti e c’è davvero la possibilità che il lettore pareggi la capacità del detective di risolvere il problema. Nella sua sostanza, il romanzo sembrebbe un archetipo di un procedural, in quanto, come in tutti i Connington, le indagini sono svolte dalla polizia; tuttavia ad agire è il Capo della Polizia, che si comporta come un vero e proprio investigatore, supportato però da altri organi di polizia. Non è un caso unico: infatti, più o meno negli stessi anni, nasceva nell’altra parte del Globo, dalla penna di Anthony Abbot, un altro investigatore simile: Il Capo della Polizia, Commissario Thatcher Colt. La curiosità è che in questo romanzo vi è una Camera Chiusa, non conosciuta ai più. Scritta nello stesso anno de Le tre bare di Carr , nel 1935, presenta singolarmente parecchi caratteri che la collegano proprio a Carr, direi a The Hollow Man, del 1935; e a The Gilded Man, romanzo di Carter Dickson (John Dickson Carr) con Henry Merrivale, del 1942. Innanzitutto il soggetto: il proprietario di casa che vien trovato mascherato, con guanti di gomma e scarpe di gomma, ed uno sfollagente in tasca; lì il padrone di casa veste i panni di un ladro in casa sua, con tanto di guanti e scarpe di gomma,anche lì non si capisce che ci faccia nel luogo dove viene trovato, e anche lui viene aggredito: la sola differenza è che in quel caso viene ferito gravemente, mentre qui viene ucciso. Anche lì come qui c’è una Camera Chiusa, ma quello che mi interessa far notare è che ancora una volta, a me sembrerebbe che sia stato Carr a prendere a modello Connington, e non viceversa. Le date di pubblicazione sono infatti emblematiche: ma nella sua sostanza, il romanzo differisce molto da altri più classici. Qui la messinscena del delitto avvicina il romanzo molto ai più celebrati Carr (erano già apparsi parecchi romanzi di Carr, con le sue caratteristiche, prima del 1935) : c’è la tipica tendenza ad inscenare una situazione in cui più elementi appaiono bizzarri, in cui ciascuno di essi propone a sua volta un sottomistero che deve’essere spiegato. Interessante mi sembra inoltre la doppia asserzione di Sir Clinton a riguardo delle Camere Chiuse. A pag. 197 afferma: “..Sono sempre un po’ scettico riguardo alle camere chiuse – disse seccamente Sir Clinton – mi sono già venuti in mente sei modi in cui sarebbe stato possibile eseguire il trucchetto di una camera chiusa a chiave dall’interno. Giusto come esercizio intellettuale, sai?” Reitera il concetto a pag.226: “…perché avevo pensato parecchio a quei casi di camera chiusa, giusto per esercitarmi mentalmente”. Si tratta di un altro esempio di introduzione alla Conferenza di Fell di Carr in The Hollow Man, prima che fosse concepita: credo proprio, a questo punto, che si renderà evidente un’ulteriore allargamento della mia Storia delle Dissertazioni sulle Camere Chiuse, pubblicata sul Blog Mondadori.

 

Pietro De Palma

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Una dei più celebrati romanzi di Camera Chiusa in assoluto, finalmente ripubblicato in Italia

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Pierre Boileau – Sei delitti senza assassino (Six crimes sans assassin, 1939) – Trad. Massimo Caviglione – Il Giallo Mondadori N. 3095 del 6 dicembre 2013

Anni fa, mi ricordo che con Igor Longo (ma qualcuno sa dove sia andato a finire?), si parlava anche di Pierre Boileau, un monumento della narrativa poliziesca francese, e dei suoi due maggiori capolavori: Six crimes sans assassin, e Le repos de Bacchus, lamentando la sua colpevole mancanza dagli scaffali dei giallofili più esigenti, se non riferendosi alla sola e vecchiotta edizione de I Grandi Gialli Pagotto.

Pierre Boileau è ai più famoso perché assieme a Thomas Narcejac, formò uno dei più innovativi e solidali connubi letterari del genere poliziesco, firmando innumerevoli capolavori, da Celle qui ne’e`tait plus, 1952(I Diabolici)  a D’entre les morts, 1954 (La donna che visse due volte) a L’Ingenieur aimait trop les chiffres, 1959 (Il quarto colpo) e molti altri. Se tuttavia con l’amico, i romanzi da lui anche firmati, scandagliavano vittime e carnefici, soffermandosi soprattutto su disturbi di personalità, generando quindi una narrativa intensamente psicologica e di suspence, fino a quando li aveva pubblicati con la sua sola firma, cioè fino all’incontro con Narcejac avvenuto in occasione della premiazione del romanzo di quest’ultimo, LaMort est du voyage, al Grand Prix du Roman d’Aventure del 1948, i suoi romanzi erano stati solo esempi mirabili di Romanzo ad Enigma.

Era nato a Parigi nel 1889. Dopo vari mestieri, aveva cominciato a scrivere e collaborare con alcuni giornali, firmando per il giornale “Lectures pour tous” il suo primo racconto col detective  André Brunel: Deux hommes sur une piste, 1932. Da quel momento, scriverà alcuni romanzi tutti col tale personaggio: La Pierre qui tremble, 1934 (La pietra che trema, 1950); La Promenade de minuit,1934 (Uno strano cliente, 1951); Le Repos de Bacchus, 1938 (Il quadro maledetto, 1950); Six crimes sans assassin, 1939 (Sei delitti senza assassino, 1950); Les Trois clochards, 1945 (R.I.E.N., 1950). Dal 1936 al 1942 pubblicò diversi racconti per la rivista Ric et Rac e taluni di essi furono ripubblicati durante la Seconda Guerra Mondiale e l’occupazione della Francia, sotto lo pseudonimo Anicet (non si è mai appurato precisamente se fosse un suo effettivo pseudonimo o un tentativo di altri di sfruttare la sua fama). Dopo la guerra, Boileau pubblicò ancora; L’Assassin vient les mains vides, 1945 (L’assassino invisibile, 1951); La bete du bois sans nom; Sans-Atout en danger, 1949 (L’ultimo proiettile, 1950); Les Rendez- vous de Passy, 1951 (Il fantasma dell’assassinato, 1950). Gli ultimi tre romanzi da lui firmati individualmente, uscirono dopo tuttavia che aveva formato il sodalizio con Narcejac. Morì nel 1989 a Beaulieu-sur-Mer.

Six crimes sans assassin, narra ancora una volta di una tragedia all’interno di un preciso gruppo familiare e del più grande successo di André Brunel investigatore, chiamato, assieme al narratore suo amico, a individuare un assassino invisibile.

Una tragedia si è svolta in un condominio: una donna è stata vista chiamare aiuto, affacciata ad una finestra, ed un attimo dopo, cadere all’indietro, mentre una scena di lotta tra due persone si è intravista alle sue spalle. La gente accorre, e in primis il portiere dello stabile che però, giunto dietro alla porta dell’appartamento presumibilmente teatro della vicenda, si accorge di aver dimenticato il pass-partout; quando ritorna sopra, questa volta con la chiave universale, ed apre la porta, si trova dinanzi una scena terribile: un uomo morto con due ferite da arma da fuoco, una donna agonizzante, che non può essersi ferita da sola, la pistola mancante, e l’assassino…scomparso. Da un appartamento chiuso: la porta di casa è impraticabile perché vi sta armeggiando dietro il portiere e varie altre persone, nelle altre camere non c’è anima viva, le finestre sono ad un’altezza tale che non possono essere utilizzate per la fuga e per di più sono guardate  da chi richiamato dalle grida, non fa altro che scrutarle, e l’unica porta che da sulla scala di servizio, è chiusa dall’interno da un catenaccio. Quindi, da dove è scappato l’assassino?

Alla domanda, apparentemente senza risposta, cercano di rispondere, oltre che Brunel, chiamato in causa da Roland Charasse, suo amico carissimo e avversario nelle aule dei tribunali, tra i primi ad arrivare sulla scena del delitto, e cugino di Marcel Vignaray, la vittima.

La domanda che sorge spontanea dopo aver esaminato la scena del delitto, è che manca Adèle Blanchot, domestica della coppia, che sarebbe dovuta essere lì e che invece non c’è: il commissario ed il portinaio, si recano al sesto piano del palazzo, dove stanno le camere della servitù, ma nella stanza di Adéle non trovano né la donna né altra cosa che serva a dare una traccia. Tuttavia lasciano un poliziotto di guardia.

Un’ora dopo Brunel, il narratore e Charasse vanno a visionare la stanza di Adéle alla ricerca di elementi sfuggiti al commissario, ma Roland, il primo ad entrare nella camera si trova dinanzi ad una terribile scena: Adéle morta sul letto. Dopo un primo istante di sbigottimento, gli altri due raggiungono il compagno e trovano la domestica, anche lei uccisa da un colpo di pistola al cuore.

Il poliziotto di guardia giura e spergiura di non essersi mosso neanche un istante dal suo posto e intanto però un cadavere si è materializzato: dell’assassino ovviamente nessuna traccia. Anche in questo caso non vi è nessuna uscita al di fuori della porta.

Si pensa a questo punto che se è stata uccisa la domestica, stessa sorte potrebbe accadere a Julien Blanchot, il marito, il maggiordomo, che è presso la villa di Vignaray. Gli telefonano e gli dicono di barricarsi in casa, di non aprire a nessuno, finchè non lo andranno a trovare. Quella sera Brunel vuole cercare altri indizi e dà appuntamento a Charasse per il mattino dopo. Tuttavia l’indomani egli non si presenta: allarmati lo vanno a cercare e lo trovano agonizzante nel suo studio, avvelenato. Si recano alla villa quindi con un taxi, Brunel, il narratore ed il Brigadiere Girard della Brigata Speciale, ma alcuni segni premonitori li mettono in allarme: un cavo telefonico tagliato, dei segni di scalfittura della pesante porta dello studio, eppure la porta è chiusa dall’interno; inoltre una pesante scrivania vi è stata sospinta contro dall’interno. Nessuno risponde ai loro richiami. Quando con molta fatica riescono a spalancare la porta, si trovano dinanzi ad un altro cadavere: su un divano giace il povero Julien, ucciso da un colpo di pistola, e dell’assassino nessuna traccia. E anche in questo caso non vi sono uscite che possano averne permesso la fuga.

Ormai ci troviamo dinanzi ad una ecatombe: i due domestici e Marcel Vignaray morti, Simone Vignaray in coma con una pallottola nel fegato, e Roland Charasse avvelenato. Ma l’eccidio non è ancora finito. Infatti nello studio di Vignaray trovano delle tracce di un possibile ricatto: ricevute di più pagamenti per somme rilevanti e un indirizzo, che si ricava essere quello del misterioso ricattatore: si chiama Alfred Rupart.

La casa viene messa sotto sorveglianza, ma proprio quando non c’è nessun poliziotto nelle vicinanze, il narraore ed amico di Brunel assiste, penetrato nella casa di Rupart grazie al pass-partout fornito dalla portinaia già contattata dalla polizia, origliando alla porta, al colloquio tra Rupart ed un misterioso altro individuo, probabilmente l’assassino, del quale Rupart deve aver saputo in qualche modo il nome: i due si stanno dando appuntamento in una villa alle porte di Parigi.

Il narratore cerca di far avvisare l’amico e si reca nel luogo dell’appuntamento dove trova Brunel e poco dopo anche Charasse, ristabilitosi grazie alle cure dei medici: i tre decidono di sorvegliare le tre uscite della villa, ma ad un certo punto sentono sparare, si affrettano ognuno dalla propria uscita verso la villa ma penetrativi, trovano Rupart morto e l’assassino ancora una volta…scomparso.

E’ troppo per Brunel! Pensava di aver trovato finalmente una traccia e si trova in mano un pugno di mosche. Attaccato da tutti, sbeffeggiato e quant’altro, si ripromette che con le sue cellule grigie riuscirà a capre come le cose siano andate: perciò si rinchiude nello studio di casa sua ed ordina al narratore ed al suo maggiordomo, di non disturbarlo per nessuna ragione al mondo. E intanto passano i giorni. Ma alla fine Brunel dice di aver capito chi possa essere. Intanto però l’ecatombe non si ferma, perchè lo stesso Charasse fa leggere agli altri due un plico inviatogli in cui lo si minaccia di morte: morirà anche lui, dentro una Camera Chiusa dall’interno, le cui uniche vie d’uscita saranno sorvegliate da persone guidate.

Brunel riuscirà a dare un nome all’assassino e a spiegare tutto nelle ultime pagine.

Il giudizio comune che la critica riserva per questo titolo è estremamente lusinghiero, soprattutto da parte dellla critica specializzata francofona. Mi preme però sottolineare che se il virtuosismo del plot è veramente notevole (soprattutto per l’epoca), presentando ben 5 Camere Chiuse nello stesso romanzo e quindi un livello di difficoltà molto alto, bisogna anche dire che le 5 situazioni non presentano lo stesso grado di difficoltà (la prima, la seconda e la terza sono notevoli, la quarta e la quinta..puerili). Per di più tra le prime tre, solo la prima è veramente spettacolare, mentre la terza è molto buona e la seconda mi sembra abbia dei difetti, riscontrabili nel grado di difficoltà, veramente altissimo: infatti, la spiegazione vorrebbe convincere il lettore che ci fosse stato il tempo per operare l’illusione, ma esso è veramente poco rispetto all’azione di estrarre il cadavere dal posto dove lo si è infilato, sollevarlo in braccio (si tratta di una donna di 40 anni, non di una bambina!) e poi deporlo sul letto, tutto in una manciata di secondi. Mi sembra che qui Boileau si arrampichi sugli specchi; invece la terza spiegazione è abbastanza convincente (in qualche modo si avvicina alla spiegazione di Carr della Camera Chiusa in He Who Whispers, Il Terrore che Mormora). Inoltre nel caso dell’ avvelenamento, il fatto di descriverlo senza minimamente accennare alla natura del veleno, ma limitarsi a dire che “il caffè era avvelenato”, significa solo deliberatamente imbrogliare il lettore, togliendogli gli indizi concernenti il veleno, come l’assassino se lo sia procurato, e quindi anche la possibilità di trovare testimonianza di chi glielo abbia venduto.

E’ tutto il plot però che risente di un preciso intento: rigettare il romanzo all’inglese, e quindi rigettare: la ricerca dell’alibi (perché nel romanzo non si accenna mai a chi lo avesse), la ricerca del movente o di colui al quale interessi la morte (il cosiddetto Cui prodest) per ricavarne un profitto, la ricerca di indizi (prove materiali, impronte, etc..).

E tutto questo perché in definitiva, la ricerca del colpevole la si ottiene solo risolvendo il rebus: ossia, solo capendo come l’assassino abbia fatto a uccidere, Boileau dice che si riuscirà ad inchiodare l’omicida. Il tutto sullo sfondo di una Parigi del tutto estraniata dalle contingenze belliche, in una dimensione a-storica, quasi che ci volesse rifugiare nella dimensione del sogno per fuggire alla triste realtà di ogni giorno; e riconoscendo un valore assoluto alla figura dell’omicida, rivalutandolo in termini morali, togliendogli ogni vellerità malvagia, e invece assegnadogli la patente di omicida per necessità. E’ come se l’indagine si sostanziasse in una partita a scacchi con l’assassino e le vittime non fossero altro che i pezzi sacrificati necessariamente perchè si realizzasse qualcosa, che a tutti i costi bisogna perseguire (in questo caso, salvare i ricordi della piccola Janine, figlia di Simone Vignaray e dell’assassino).

Tuttavia l’intento di Boileau è nettamente reazionario. Rifugge da tutta la letteratura che fino ad allora era stata prodotta, di marca inglese, rifacendosi espressamente al filone narrativo-avventuroso di Leblanc, Allain & Souvestre, Ponson du Terrail, ma forse in un modo ancor più chiuso: infatti, Leblanc, pur presentando sempre una narrativa di tipo avventuroso-enigmistico, tuttavia crea delle grandi atmosfere, che però mancano in questo romanzo di Boileau. E’ come se l’autore francese avesse deciso, nel 1939, di rifiutare in blocco tutto quello che fino a quel momento era stato prodotto, riconoscendo valore assoluto solo ai suoi miti. Del resto anche talora frasi incidentali e interiezioni, si rifanno a un tempo assai precedente al suo, e manca sia il pur minimo accenno al taglio psicologico delle situazioni, sia la suspence, pur presenti in altri grandi scrittori francesi del periodo (Steeman, Aveline, Simenon). La cosa che più mi sorprende è che, ragionando in siffatta maniera, Boileau, incontrando Narcejac, decidesse di cambiare radicalmente stile.

A latere mi sembra interessante far infine notare come le Camere Chiuse più spettacolari, siano quelle in cui non agisce mai il solo soggetto, ma ne agiscono due: come la prima di questo romanzo, ricorderò quella bellissima di Derek Smith in Whistle Up The Devil  e quella di Carter Dickson in The Third Bullet. Tuttavia ancor di più il merito di Boileau non è tanto quello di aver fatto agire due soggetti, quanto aver invertito la successione logica che chiunque è portato ad instaurare: ponendo in essere un andamento logico opposto a quello che si era seguito fino a quel momento, Boileau attraverso Brunel dimostra come il suo autore di riferimento sia, ancor più di quelli citati precedentemente, Jacques Futrelle: senza l’ausilio di nulla al di fuori del proprio cervello, il vero investigatore è in grado di risolvere l’enigma.

In sostanza, Boileau sarà a sua volta lo scrittore europeo più vicino al modello illusionistico di risoluzione di una Camera Chiusa, proprio di Clayton Rawson.

Solo che Clayton Rawson partirà da Carr, mentre Boileau da Futrelle e Leblanc.

Pietro De Palma

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Il Gotico in Carr

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John Dickson Carr – Il Cantuccio della Strega (Hag’s Nook, 1933) – trad. A.M. Francavilla – I Classici del Giallo, Mondadori, N° 486 del 1985 –   1^ edizione; I Classici del Giallo, Mondadori, N° 1336 del 2013 – 2^ edizione.

copertine gialli blog 067In che modo Carr ha rivisitato nei suoi romanzi le storie soprannaturali  e in che modo egli ha contribuito ad un genere  al quale da Lefanue a Joyce da Jan Potocki a Montague Rhodes, vari sono stati i romanzieri che hanno aggiunto il proprio tassello al quadro generale?

Và detto innanzitutto che la tendenza di Carr a rivisitare il genere è stata dovuta alle sue letture giovanili, ma anche – io direi – a delle peculiarità storiche: la tendenza tipica del primo novecento a riscoprire, anche nelle sue manifestazioni più esteriori, lo spiritismo. I più grandi spiritisti sono stati britannici, e lo stesso Conan Doyle fu un grande studioso del paranormale ( e per certi versi sapere questo contrasta col fatto che fu l’inventore del primo più grande detective che fa della deduzione e abduzione le proprie armi vincenti).

Pertanto, la presenza in maniera massiccia nell’opera di Carr, di elementi attinenti al paranormale, non mi lascia basito. Conseguentemente varie sono le nuances gotiche nelle sue opere: dai tratti orrorifici, tipici dei primi romanzi del ciclo bencoliniano (It Walks By Night, Castle Skull), al gotico di nome ma non di fatto in The Plague Court Murders, al gotico che sconfina nel fantastico (The Bourning Court o The Door To Doom), il cammino ha toccato più sponde, definendo col tempo un proprio ideale di mistero. Non direi come dice Sonaglia che “Se gli si può imputare un difetto, rispetto ai cugini specializzati nell’arte del mistero, è proprio quello di essere «asettico» in modo addirittura esagerato; i suoi personaggi, disinfettati dai turbamenti elementari, sono colmi di salute e buon senso «old England», e c’è un ottimismo di fondo al quale si sacrifica per necessità l’unica vittima rituale che, in questo caso, è l’assassino” (C. Sonaglia, Carr e il gotico, 1983, Il Giallo Mondadori  N° 1821), perché, se è vero che questa mancanza di sangue ristagna in gran parte dell’opera carriana, è anche vero che nelle prime opere, quelle del ciclo bencoliniano, si assiste ad un exploit di Grand Guignol. Piuttosto direi che il suo essere asettico, proponendo un mystery di influenza gotica senza sangue, è il risultato di un processo lento ma inarrestabile, che tende ad abbandonare il mondo dell’irrazionale e spostarsi sempre più marcatamente in quello del razionale, passando da una via già battuta da altri ad una tipicamente propria. E nella realizzazione di un proprio modello letterario, man mano che egli si allontana da un gotico di maniera, perde anche le proprie sponde letterarie. Così, se nei primissimi romanzi, l’atmosfera è quella delle opere del gotico cosiddetto “nero” (per es. Walpole), oppure nei suoi romanzi vari sono i suoi riferimenti all’opera di Poe (Poison In Jest  per esempio), nel momento in cui individua e persegue tenacemente una propria strada, perde del tutto i riferimenti letterari ai grandi suoi predecessori.

Così, tre stadi possiamo identificare, grosso modo, nel mondo del gotico carriano, corrispondenti a tre romanzi simbolo, perché capifila delle tre sue serie:

It Walk By Night : il gotico primo tipo con una marcata presenza di elementi orrorifici e di sangue;

Hag’s Nook : il gotico secondo tipo, in cui pur proponendosi manifestazioni tipiche del gotico (cripte, topi, prigioni, pozzi) il sangue non è più in primo piano;

The Plague Court Murders, in cui il gotico raggiunge la forma più stabile, proponendo quello che è il tratto più caratteristico della produzione carriana: il vedere e non vedere, “l’esistenza–non esistenza” del soprannaturale, cioè nel momento in cui si delinea una possibilità di soprannaturale, il suo superamento razionale.

Hag’s Nook, mancante da quasi trent’anni negli scaffali degli appassionati, è stato ripubblicato finalmente, qualche giorno fa, nella versione integrale dovuta a Maria Antonietta Francavilla.

E’ una storia che allude ad una maledizione: il primogenito di una certa famiglia, dopo aver passato la notte in una stanza della dimora degli avi, muore col collo spezzato.

La famiglia è quella degli Starbeth: un avo era stato il terribile e feroce comandante di una prigione costruita nei pressi del “Cantuccio della Strega”, una rupe dove si impiccavano le streghe: la rupe era a picco sulla vallata, per cui dalla forca costruita a picco, si facevano cadere le vittime appese al capestro di una lunga corda, cosicché spesso il colpo, acuito dalla caduta e dal peso della vittima, provocava una orribile decapitazione. Già il posto era molto conosciuto, perché la gente si accalcava nel passato per assistere a questi spettacoli orridi, ma poi aveva acquisito altra trista fama, perché nei pressi, per volere delle autorità, era stata fatta costruire una terribile prigione, dove la stessa manovalanza che fosse stata impiegata per costruirla, se fosse scampata alla fatica, alle frustate, alle condizioni inumane e alla morte, sarebbe stata reclusa per scontare il proprio fio. Tuttavia pochi scampavano a quel luogo terribile di detenzione, e coloro che cercavano di fuggirne spesso cadevano nel pozzo costruito nel luogo del Cantuccio della Strega, un pozzo che era pieno dell’acqua malsana dell’acquitrino che vi ristagnava, morendovi. Spesso nello stesso vi si buttavano i cadaveri dei condannati, per cui ben presto i miasmi, la decomposizione dei cadaveri e i numerosissimi ratti che infestavano la prigione, avevano provocato una epidemia di colera che avevano provocato la morte dello stesso Governatore. A lui si doveva la consuetudine di richiedere che il primogenito per ereditare, nel giorno del suo venticinquesimo compleanno, dovesse andare alla prigione di Chatterham, passare una notte nella stanza del Governatore, aprire una cassaforte,  leggere un certo documento e correre un certo rischio, senza poterne riferire al proprio figlio.

E Timothy Starbeth, è morto in modo assai strano: è stato trovato col collo spezzato e bagnato fradicio, come se qualcuno, che fosse emerso dal pozzo, l’avesse ucciso: il fantasma assassino e vendicatore di qualche condannato all’impiccagione, buttato in quel pozzo perché si decomponesse?

Ora Martin Starbeth deve adempiere al rito per entrare in possesso dell’eredità, ma ha paura. E ha dannatamente paura anche sua sorella, Dorothy, innamorata e ricambiata di Ted Rampole, giovane americano che è in quei posti perché Bob Melson, amico del Dottor Gideon Fell, gli ha dato una lettera di raccomandazione per l’amico, così che possa dare valido aiuto al giovane che deve specializzarsi all’università.

Così, tutti quanti si trovano assieme: Martin, Dorothy, Ted, Gideon Fell e il dottor Payne, il notaio legale degli Starbeth. E c’è anche il reverendo Thomas Saunders, che viene presentato a casa loro da Gideon e dalla moglie: non si sa per quale motivo, quasi fossero ostaggi dei fantasmi del passato e delle superstizioni, ma tutti temono che accada qualcosa. Così stabiliscono un certo piano: Martin andrà alla prigione, entrerà nella stanza, accenderà un fanale e siccome non ci sono altre uscite che quelle sorvegliate da lontano, e dentro si è fatta una ricognizione e si è potuto appurare che non ci sono passaggi segreti e quant’altro, si può esser sicuri che non avverrà nulla anche quando tornerà, perché la via per andare alla prigione è del tutto all’aperto e quindi può esser facilmente sorvegliata. Ma qualcosa va storto. Martin non torna, e così cercatolo, lo trovano morto, col collo spezzato, nel Cantuccio della Strega, vicino al parapetto del pozzo.

Subito si instaura l’interrogativo base: come è morto? Si stabilisce che è stato assassinato, ma…da chi? Questo è il punto: chi avrebbe potuto farlo, davanti agli occhi degli spettatori e farla franca?

Ben presto un curioso intervallo di dieci minuti (alcuni orologi della casa sono precisi ma uno si è tentato di farlo sistemare dieci minuti avanti e quello che ha dato l’ordine non eseguito, è stato Herbert, il cugino dei due Starbeth) diventa determinante per stabilire i tempi dell’omicidio. Tutti cercano Herbert, ma Herbert non si trova: è scappato. E’ lui l’assassino?

In un vorticare di eventi, Gideon Fell estrarrà dal cappello a cilindro non un coniglio, ma la soluzione, individuando l’assassino, fornendogli il movente e soprattutto smascherandone l’alibi a prova di bomba e la rispettabilità, non prima che sia stato ritrovato morto anche lo stesso Herbert.

Hag’s Nook, sottovalutato da molti, rispetto a più blasonati suoi posteriori, è nell’ambito dei romanzi carriani già un piccolo capolavoro: presenta una situazione impossibile, un’atmosfera apparentemente soprannaturale, ed un piccolo numero di pretendenti al ruolo di assassino.

Innanzitutto, in questo romanzo – anzi direi -  “anche in questo romanzo”, Carr rende un personale omaggio a Poe: infatti Carr, come aveva fatto in Poison in Jest (pubblicato un anno prima, nel 1932), dove il riferimento dichiarato era stato The cask of Amontillado, qui Carr immette tutti i caratteri più esteriori del gotico (stanze di tortura, topi, luoghi tetri e bui, particolari orridi) e in più elabora una situazione, quella della mappa del tesoro e della chiave per accedervi, che si  rifà espressamente a The gold-bug (Lo scarabeo d’oro) proprio di Poe, proprio per la natura della chiave, un crittogramma: se in Poe tuttavia, la chiave era di tipo logico matematico ( a numero uguale corrisponde lettera uguale, sulla base della frequenza di certe lettere nella lingua inglese) qui essa si basa su indovinelli e su acronimi, non su sciarade, come indicato nel romanzo (pag.151 versione originale, I Classici del Giallo Mondadori N.486 del 1985: “Il dottore arricciò i baffoni. – Ci siamo – annunciò – è una sciarada”): infatti, se fosse una sciarada, FENMEN ILIADE NORVEGIA DECESSO SASSO ITHURIEL GETSEMANI non dovrebbe contribuire a formare FIND SIG, perché le due parole FIND SIG si formano solo prendendo le iniziali di ciascuna delle parole prima riportate FENMEN ILIADE NORVEGIA DECESSO SASSO ITHURIEL GETSEMANI, cosa che è appunto un acronimo; l’espressione “E’ una sciarada”esclamata da Fell è quindi un mero errore: la sciarada infatti è l’unione di due parole a formarne un’altra di senso diverso da quello delle due parole unite: es. rosa + rio = rosario.

Possibile che Carr si fosse sbagliato? Tutto è possibile, ma io propendo a credere che l’errore fosse intenzionale, cioè che Fell non lo si deve prendere come l’oracolo, ma come un personaggio che talora prende, non volendo, degli abbagli colossali: fa parte della sua personalità. Ma non è che gli altri facciano pure una bella apparizione: infatti nessuno si accorge dell’errore!

Al di là di ciò, sottolineo come tutti i caratteri più orridi (le catene e i ceppi che penzolano dai muri, gli strumenti di tortura, i ratti enormi, l’oscurità, il pozzo con i suoi segreti) sono usati in questo romanzo non con la stessa vena usata per il primo di Bencolin: lì la cantina, in cui si sentivano dei rumori, nasconde nei suoi muri un cadavere decomposto; qui, in ambienti grevi di presagi, in cui ci si aspetterebbe di trovare qualche macabro resto a ben donde, nulla viene trovato. In altre parole, se l’ambientazione è la stessa, diversa è la sostanza, qui molto meno evidente: è come dicevo più sopra: man mano che Carr procede sul suo cammino, perde i caratteri propri del Gotico orrorifico tipo il Vathek o Il Castello di Otranto, per assumerne altri più propri, caratteri di facciata, che devono contribuire a creare un’atmosfera ma poi non devono distogliere dalla ricerca di una soluzione il più possibile razionale, in cui il soprannaturale perde la propria irrazionalità latente.

Ecco allora lo schema che verrà in tanti romanzi quasi sempre seguito:

Introduzione > descrizione di una situazione irrazionale delitto > spiegazione razionale > individuazione omicida > apologo

Solo in un caso, o meglio in pochissimi, Carr si discosterà: e sarà quando, accanto alla soluzione razionale che deve ricondurre il discorso alla credibilità, perché l’omicida possa essere individuato e non invece sfugga, sarà contemplata una possibile soluzione soprannaturale. Il movente di Carr quindi non è tanto l’avversamento di una situazione soprannaturale a favore di una razionale, per un qualche agnosticismo di fondo, quanto io credo la volontà di ricondurre la soluzione in un alveo contraddistinto dalla giustizia umana che non deve contrapporsi o sostituirsi o essere sostituita da quella divina, ma affiancarla nella punizione del reo. Una giustizia giusta, che per evitare di incriminare un innocente, deve necessariamente affidarsi ad un detective superiore, il quale però è sempre un uomo, capace quindi di prendere un abbaglio.

La grandezza di Fell è proprio questa: sapersi svincolare al momento opportuno delle proprie piccolezze (com’è per esempio pontificare, magari a sproposito: sciarada al posto di acronimo) e assurgere alla verità suprema. Non è un caso per esempio che in parecchi dei romanzi in cui compare e in cui si sviluppa una trama soprannaturale, Fell introduca il fatto, come qui del resto. La ragione è una sola: se Fell descrive l’evento, il lettore è portato in un primo tempo a dargli credito, e quindi la stessa situazione soprannaturale acquista credito e l’atmosfera ne beneficia. Quale sorpresa ne riceverà il lettore più tardi quando assisterà alla sconfitta del soprannaturale a favore del razionale, proprio per causa di Fell!

Accadrà quando Fell pontificherà ex-cathedra, elevandosi sulle proprie piccolezze umane, e affermerà una verità assolutamente incontrovertibile, sostenuta da prove inoppugnabili e da un ragionamento superiore.

E per farlo dovrà liberarsi dai preconcetti. Perché, come dice Sherlock Holmes, ne Il Segno dei Quattro, “When you have eliminated the impossible, whatever remains, however improbable, must be the truth” .

Bisogna anche dire che questo romanzo influenzerà altri autori: il tema della maledizione gravante sul primogenito che deve passare la notte in un certo ambiente e poi finisce assassinato in condizioni impossibili, influenzerà per esempio il Derek Smith di Whistle Up The Devil.

 

Pietro De Palma

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S.A. Steeman : La casa del mistero (Peril, 1930) – I Grandi Gialli N°29, Editrice Pagotto, Milano, 1952

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copertine gialli blog 068In altra occasione ebbi a parlare di Steeman e dei suoi esordi letterari: ne riassumo per sommi capi i termini, poiché oggi parlo di un romanzo degli esordi, anzi, il primo romanzo in assoluto scritto da solo: Peril, 1930.

Steeman non si cimentò nel romanzo giallo come prima occupazione, ma solo dopo che aveva intrapreso la carriera giornalistica dal 1928 al 1933 per La Nation Belge ( e prima ancora si era dedicato essenzialmente ai fumetti). Assieme ad un altro giornalista, Herman Santini (pseudonimo Sintair), scrisse i suoi primi 5 romanzi, per poi pubblicare romanzi da solo. Tuttavia, ancor mentre collaborava con l’amico, nel 1930 aveva cominciato la carriera letteraria individuale, pubblicando tre romanzi ( Péril, Le doigt volé  e Six hommes morts) con l’ultimo dei quali aveva vinto il Grand Prix du Roman d’Aventures, nel 1931. Nel romanzo era stato introdotto il suo personaggio di maggior spessore, Vorobeitchik Venceslao, detto Monsieur Wens.

Peril è sostanzialmente un ibrido: un romanzo in cui si mischia atmosfera da thriller con il mystery più classico. Sin da questo suo primo romanzo, Steeman si manifesta un innovatore: tenta di  svincolarsi dalla pesante eredità di Leblanc e Conan Doyle e tenta una via personale. Ancora acerba, direi. Ma comunque, tenta una strada, non basata esclusivamente sull’enigma, anche se l’elemento avventuroso è presente in larga parte.

Il ritmo è sostenuto, soprattutto a causa di un’atmosfera d’effetto e di una caratterizzazione efficace dei soggetti. Non manca neppure un finale ad effetto e per nulla scontato!

Vediamo che già in questo primo romanzo, Steeman inserisce uno dei suoi temi ricorrenti: una pensione, in cui abitano più inquilini, tra cui si cela un assassino.

Proprio in Peril, come accadrà più tardi con L’assassin habite au 21, in un palazzo vi è una pensione, nel cui ambito maturano delle situazioni poco chiare: infatti, ciascuno degli inquilini, dimostra di nascondere qualcosa oppure si comporta ambiguamente.

Tutto comincia quando Michel Aigu vede un negozio dove vendono sigarette: ne ha bisogno ed entra. Tutto dinostra trasandatezza: polvere, ragnatele, ed una vecchia che cerca di mandarlo via il più presto possibile. Michel non fatica neanche un istante di più ad andarsene, non prima di aver osservato un cartello che è attinente all’affitto di un appartamento nel palazzo. Il fatto è che dopo essere uscito, per caso fissa lo sguardo su una delle finestre che si aprono sopra il negozio, e vede una bellissima giovane donna. Colpo di fulmine! Michel, abbagliato, vorrebbe chiedersi qualcosa di più, tanto più che l’espressione del viso è molto turbata. Non vedendola più, un attimo dopo, decide di tentare il tutto per tutto: rientra nel negozio e si dimostra interessato all’affitto dell’appartamento. In un primo tempo la vecchia gli fa capire che è stato affittato, poi gli dice invece che non è ancora stato affittato ma è in procinto di esserlo perché il proprietario – che non è lei – ha già ricevuto un’opzione. Michel decide di recarsi dal padrone di casa per fare un’offerta maggiore di quella che è già stata fatta: fatto sta che il suo avversario, futuribile inquilino, massiccio e muscoloso, tale Triboul, agente d’assicurazione, battuto sulla proposta di affitto, lo minaccia.

Una volta accasatosi e fatte arrivare lì le sue cose, Michel cerca di rivedere la bella giovane, ma si trova dinanzi un muro di silenzio e omertà. Nel palazzo vi sono più inquilini: innanzitutto la vecchia del negozio, Laura Hamoir; poi abita un’ancora più perfida vecchia, sorella della precedente, Cécile; la bella Charline;  il signor Bonal, uno scrittore; e infine due musicisti.

La polizia è stata informata che un pericolosissimo malfattore, ladro, assassino, rapinatore, Albéric Solomon si nasconderebbe in quella casa: solo che il volto di Solomon è un mistero. Potrebbe essere chiunque di quegli inquilini maschi (si noti come ancora in questo tempo, in certa parte degli scrittori, il malfattore non poteva essere una donna, che invece aveva sempre la parte della vittima, ma doveva essere necessariamente un uomo): ma perché mai Solomon si nasconderebbe in un miserabile pensionato? E’ evidente che c’è sotto qualcosa! Si scoprirà che intende sottrarre una preziosa cassetta, che conterrebbe circa centomila franchi più un numero considerevole di azioni minerarie di gran valore, nascosta da qualche parte nel suo appartamento da Laura Hamoir. Laura Hamoir ha un figlio, Lucien, accusato ingiustamente di furto, che è stato imprigionato e che sta attualmente per uscire dal carcere. Lucien è cugino di Charline e oltretutto ne è innamorato. Charline vive assieme alla zia Cécile Hamoir, una vecchiaccia perfida che cerca in tutti i modi, vessandola e torturandola psicologicamente, segregandola in casa e picchiandola anche con la frusta, di evitare che essa abbia contatti col mondo esterno e nel tempo stesso costringerla a rivelarle il nascondiglio che la sorella di Cécile, Laura, ha trovato per nascondere i centomila franchi e che ha segretamente confessato alla nipote adorata, oltretutto innamorata di suo figlio.

Del resto, qualche tempo dopo che Michel abita nel pensionato, Laura muore e quindi la povera Charline si trova alla completa mercé della zia perfida e cattiva. Intanto Lucien, uscito dal carcere è stato ucciso, non si sa bene per quale oscuro motivo da un cavapietre.

Michel è l’unico cui Charline possa chiedere aiuto, in quanto s’è accorta di essere da lui amata (e dal canto suo ricambia il sentimento) e lo fa affidandosi ad uno dei due musicisti, inquilini in quel palazzo, Paul Simon, che come lei lavorava, prima di essere licenziato, in un cinema, suonando musica di sottofondo: proprio Paul Simon diventerà il suo tramite, amico e confidente, e nel tempo stesso l’unico amico di Michel nel pensionato.

La polizia, nella persona dell’ispettore Malaise, è convinta che Solomon abbia fatto uccidere Lucien e probabilmente lo abbia anche fatto imprigionare ingiustamente, dicendo a qualcuno dei suoi accoliti, di giurare il falso davanti al giudice, per toglierlo di mezzo ed evitare che si appropriasse dei soldi di sua madre, quando avesse ereditato. E che ora che la vecchia madre Laura è morta a sua volta (accidentalmente o per causa di Solomon ?), trama con maggior virulenza nell’acquisire il bottino prezioso. E che quindi bisogna far presto, perché prima o poi minaccerà direttamente le uniche persone che possano saperne qualcosa, cioè la vecchia Cécile e la nipote Charline.

Ma la polizia sospetta di tutti, e quindi anche di Michel, che si trova quindi tra l’incudine ed il martello; che sa di Solomon, ma non sa chi possa essere, perché Solomon trama nell’ombra.

Solo il finale renderà giustizia al tutto, smascherandolo dopo che ha torturato la giovane Charline, (salvata in extremis da Michel, narcotizzato a sua volta) e l’ha indotta a rivelargli il nascondiglio dei soldi.

Che accadrà a Solomon e sotto quali spoglie si nascondeva? Non lo dico. Dico solo che il finale beato (Charline e Michel sposi) ne nasconde uno più tremendo: una persona si vendicherà ed ucciderà uno dei due cattivi della vicenda: Steeman,secondo voi, chi mai avrà fatto morire? Solomon o la vecchiaccia perfida? E chi li avrà uccisi per vendetta? Saperlo, recherà con sé anche la spiegazione della morte di Laura Hamoir.

Tutta l’atmosfera, poco definita, molto nebulosa, che pervade il pensionato, e in cui noi conosciamo solo la posizione chiara dei due innamorati, contribuisce a generare e favorire il sospetto. Persino Triboul, colui che voleva affittare l’appartamento in cui si insedia Michel, si dimostrerà persona diversa da quella dietro cui nascondeva la propria vera identità.

Mi pare interessante sottolineare come Steeman, se nella strutturazione del plot, si rifà indubbiamente a Gaboriau e Leblanc, per come porta avanti l’indagine e per le false identità che connotano il romanzo di un’aura tipicamente da feuelliton, anche se intensamente tragica, dimostra di avere, differentemente da altri scrittori francesi del periodo che si rifanno quasi esclusivamente alla tradizione poliziesca francese, un afflato più internazionale: non a caso, infatti, Steeman paragona l’aria malsana che si respira all’interno del pensionato, a quella presente in un celeberrimo racconto di Poe, The fall of the house of Usher. Il fatto di riferirsi a Poe, citando un suo racconto, lo avvicina ad altri romanzieri di area anglofona, come Carr per esempio, anche lui debitore, all’inizio della carriera, alle atmosfere di alcuni lavori di Poe; e nel tempo stesso lo discosta dalla tradizione prettamente transalpina, manifestandosi come il più originale, assieme ad Aveline, degli scrittori di area francofona del periodo, soprattutto per il taglio psicologico delle varie personalità degli indiziati, per i continui ribaltamenti che creano sorpresa e variano il ritmo narrativo, e per l’imprevedibilità della storia, che fino all’ultimo consegna imprevisti e nuove certezze.

E manifesta anche un certo coraggio, nello svincolarsi dalla comoda camicia di forza del provincialismo nazionale, tentando una propria strada.

Pietro De Palma

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Minette Walters: Il segreto di Cedar House (The Scold’s Bridle) – trad. Gioia Guerzoni – R.L. Libri, Superpocket, 2004

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copertine gialli blog 073Circa un mese fa, una simpatica discussione è nata su Anobii: Alberto Cottini (Allanon, del Gruppo e Blog “Corpi Freddi”) indirizzandomi delle sue riflessioni, cioè che leggendo dei romanzi di quasi un secolo fa (“Il demonio azzurro” di Herman Landon o “La villa del mistero” di Punshon o le “Vipere di cristallo” di Pierre Very) vi aveva trovato una moltitudine di spunti appassionanti, che adesso egli non trova in opere contemporanee) ha affermato una verità da me sbandierata in più tempi e luoghi, non so quante volte: cioè che negli anni ’20 e ’30, anche la serie C delle opere poliziesche di allora avrebbe potuto vincere il Campionato di serie A oggigiorno.

Tuttavia è anche vero che talora (grazie a Dio!) qualcuno degli scrittori contemporanei si segnala per complessità e freschezza di inventiva.

Avevo già cominciato a scrivere un articolo su The Gilded Fly di Crispin (lo pubblicherò prossimamente), ma poi ho rinviato dopo aver letto un romanzo che possiedo da molti anni e che non ero mai riuscito a leggere, della scrittrice britannica Minette Walters:Il segreto di Cedar House (The Scold’s Bridle,1994) Premio Gold Dagger 1994.

E’ la storia di un delitto e dei segreti inconfessabili, tortuosi e devastanti che una donna ha annotato nei suoi Diari.

Mathilde ha una figlia Joanna e una nipote Ruth: insieme formano un trio di “streghe”, donne perfide, votate alla distruzione degli altri, ma che sono in realtà degli esseri distrutti nel più profondo delle loro anime: Mathilde, donna bellissima e di famiglia estremamente facoltosa, i Cavendish (il padre, era sì membro del parlamento, ma anche alcolizzato), così esuberante alle feste e così desiderata, al centro delle vicende del paese britannico in cui vive, in realtà è stata stuprata dallo zio orco, George Cavendish, ancora minorenne, e lo shock di questa violenza giovanile, perpetratosi nella nascita del frutto della violenza, si è trasmesso alla piccola Jeanne, figlia non voluta, nata nell’odio e figlia dell’odio.

Nel momento della nascita di Joanna , figlia illegittima di suo zio, tra l’altro a sua volta vittima della sua subnormalità (è il prodotto degli incroci nell’ambito di una stessa famiglia in cui le tare si sono esponenzialmente sviluppate), Mathilde ha trovato una persona che ha accettato di sposarla, James, a sua volta impotente. James figura come legittimo padre di Joanna, ma in seguito ad una lite familiare (dovuta ad un suo tradimento), abbandona moglie e figlia e si trasferisce ad Hong Kong. Un bel giorno riappare e decide ( dopo aver avuto un abboccamento con la sua ex moglie, per una certa collezione di orologi di valore ereditati dal padre, dichiarati rubati dalla moglie e risarciti dalle assicurazioni, ma in realtà solo messi da parte), di rendere pan per focaccia a Mathilde, che l’ha truffato: rivela alla figliastra l’effettiva paternità, e come George Cavendish, suo effettivo padre e prozio, le avesse trasmesso la propria eredità, in via esclusiva, invece diventata proprietà della madre. In realtà, proprio per via delle tare genetiche di George, il padre di lui, aveva disposto che, alla morte del figlio, la proprietà sarebbe andata al fratello in vita ancora, il secondogenito, padre di Mathilde: questo per preservare la proprietà ed evitare che l’eccessiva prodigalità di George, dovuta alla sua subnormalità, finisse per liquidarla in men che non si dica.

Il conflitto tra le due personalità Mathilde e Joanna, ma andate d’accordo, si acuisce quindi a causa della proprietà che ognuna delle due rivendica come propria. Alle due si aggiunge Ruth, figlia di Joanna, a sua volta nata nella disperazione di un matrimonio finito male ancor prima di compiersi, figlia di musicista fallito, drogato e morto per overdose, che spendeva tutti i soldi guadagnati non nel sostentamento della figlia (a cui voleva molto bene) ma in droga.

Mathilde è come se avesse bisogno di Joanna, ma nel tempo non la sopporta perché senza del suo denaro quella non riesce a tirare avanti in modo decoroso: infatti è diventata una squillo d’alto bordo, prostituendosi a Londra. D’altra parte la stessa nipote Ruth, è rimasta preda, nella sua insicurezza, di un certo Hughes, un giovane illetterato ma di grande fascino, che l’ha piegata ai suoi scopi: è a capo di una banda di giovinastri, più giovani di lui, che egli ha svezzato allo stupro di ancor più giovani ragazze ricche, ricattate e costrette sulla base di minaccia di stupri, a sottrarre denaro, e oggetti preziosi dalle proprie case di famiglia. E’ anche il caso di Ruth, violentata da Hughes e concessa da lui al branco che l’ha stuprata a turno per cinque ore. Ruth si è piegata alla volontà del suo carnefice-violentatore-amante, rubando soldi e oggetti preziosi dalla casa di Mathilda. La matriarca, non volendo lasciare il suo patrimonio a figlia e nipote, perché teme che potrebbe essere liquidato in men che non si dica , ricorre ad uno stratagemma, fantasioso ma che avra delle ripercussioni devastanti sul menage familiare e sull’ambiente cittadino: siccome ha stabilito una amicizia solida con il suo medico di famiglia, Sarah Blakeney, e anche (ma lo si verrà a sapere dopo) col marito di Sarah, Jack Blakeney (pittore non ancora riconosciuto ma di grande talento, tanto da farsi ritrarre completamente nuda, pur essendo anziana), cacciato di casa per una relazione extramatrimoniale, lascia alla dottoressa tutto il suo patrimonio, volendo in questo modo dare una scossa all’ambiente (e per far questo, dà incarico ad una troupe di girare un video, con delle musiche di sottofondo). Anche se il video deve essere ancora completato, qualcuno, cogliendo l’attimo propizio, uccide Mathilda: la vecchia viene trovata nella vasca da bagno, con le vene dei polsi recisi, e con in testa un terribile strumento di costrizione medievale, “il morso della bisbetica”, una di maschera di ferro che regge una mordacchia, una gogna che imprigiona la lingua.

Tuttavia, dei ramoscelli spinosi disposti troppo simmetricamente all’interno della maschera, sì da torturare ancor di più la vittima, induce gli inquirenti a classificare la morte, un assassinio.

Molti coloro che avrebbero potuto trarne vantaggio: la figlia e la nipote innanzitutto, che però avrebbero degli alibi a prova di bomba (in realtà si saprà che fanno acqua ambedue, e che le due donne non hanno nessuna utilità ad accusarsi vicendevolmente in quanto ciascuna delle due conosce qualcosa che è meglio che la polizia non conosca: Joanna per una depressione post parto ha tentato di uccidere Ruth, quando era bambina, mentre Ruth fa la ladra per conto di Hughes); Sarah e il marito; James, il primo marito di Mathilda; Jane e Paul, amici di Mathilda, che temono che lei diffonda i loro segreti: Jane è stata a letto con James, mentre Paul ha scopato con Mathilda, e dalla relazione è nata una creatura, che prima si pensa essere di sesso maschile, poi si scopre essere una femmina. A complicare la vicenda c’è anche la coppia di Violet e Duncan, inquilini di Mathilda, che abitano in un’ala di Cedar House: Violet ha inviato delle lettere inquinanti sulla vicenda, mentre Duncan è stato sicuramente un altro amante di Mathilda.

Ovviamente l’omicida sarà davvero il meno probabile, in un finale memorabile.

Straordinario romanzo di Walters, The Scold’s Bridle è un meraviglioso intreccio di Mystery e Thriller, che assume talora anche le movenze di romanzo sociale, secondo uno schema narrativo contemporaneo che definiremmo di Crime Fiction. I due generi indicati sono scandagliati con un profondo taglio psicologico, impietoso anche, che viviseziona la vicenda nei suoi più intimi recessi, istante per istante. La connotazione forte e intensamente drammatica, viene arricchita da ceneri hard-boiled, che donano brio e ritmo, ad una narrazione che proprio per il modo di analizzare la vicenda molto intimamente, potrebbe altresì risultare lenta.

Il disegno tipico di Minette Walters, autrice nata a Bishop’s Stortford, contea dell’Hertfordshire nel 1949, e autrice di successo inglese ( vincitrice anche:  del John Creasey Awarddel Crime Writers’ Association per il migliore primo romanzo, The Ice House, 1992; del Gold Dagger Award nel 1994 proprio per The Scold’s Bridle, dell’MWA Edgar Award  e del Macavity Award nel 1993, per The Sculptress; e di nuovo del Gold Dagger nel 2003 per Fox Evil) cioè quello di descrivere drammi all’interno di famiglie disgregate, qui, meglio che in qualunque altro caso, troviamo sfruttato alla perfezione, consegnandoci uno spaccato sociale di comunità cittadina, intimamente legata da malversazioni, furti, stupri, incesti, tradimenti, omicidi, segreti inconfessabili, ricatti, truffe, tra i suoi rappresentanti, tutti legati in un modo o nell’altro alla vicenda, se non a Mathilda, secondo uno schema tipicamente british, in cui la vittima è quasi sempre appartenente all’alta borghesia se non all’aristocrazia.

La capacità di Minette Walters di comprendere a fondo la mentalità perversa dell’omicida non è scevra anche dal renderne la potenziale debolezza: gli omicidi non sono partite a scacchi con gli investigatori, come nel mystery più classico, ma sono duelli dolorosi che da cui non escono feriti solo gli assassini ma anche i detectives, colpiti tutti nell’animo. Così l’omicida qui, non è un essere malvagio, ma una persona che uccide perché non può che agire così, vittima del fato, e anche di Mathilda, che è al tempo stesso vittima, perché stuprata e violentata nella sua infanzia perduta in un parto non voluto, e carnefice, nel suo tiranneggiare tutti coloro che la circondano, quando non nel ricattare altri con le sue memorie scritte nei famosi Diari, cercati invano dalla polizia e distrutti invece dall’omicida.

Mathilda è l’elemento chiave della vicenda e la stessa struttura narrativa ci consegna più figure di detectives che di volta in volta, reggono il peso dell’azione narrativa: Sarah, il Sergente Cooper, l’Ispettore Jones, il marito fedifrago della dottoressa, Jake. Sarà proprio lui, vendicatore di Ruth, redento marito capace di riconquistare con una tenerezza mai rivelata così a fondo, la moglie, e nello stesso tempo capace di analizzare a fondo l’azione giungendo a ricostruire la figura dell’omicida, svincolando l’azione investigativa dal clichè. Ai quatto investigatori che si alternano nella vicenda, si aggiunge una quinta figura investigativa vorremmo dire, costantemente presente: è quella di Mathilda, che, con una diversa pagina tratta dai suoi Diari, introduce ogni capitolo, e nello stesso tempo indirizza e spiega l’azione narrativa e le scelte degli altri soggetti. E’ questo uno schema già adottato da altri romanzieri (per es. come in Rim of the Pit, di Hake Talbot).

Ma non c’è solo la presenza impersonale e invadente di Mathilda a indirizzare il discorso, ma anche quella di un sesto detective, il grandissimo drammaturgo William Shakespeare, che illustra mano mano le personalità e le situazioni, con precisi rimandi e citazioni tratte dalle sue opere. La presenza di Shakespeare non è casuale, ma anzi necessaria, in quanto proprio con la figura di un suo personaggio, verrà spiegata la morte di Mathilda, il suo supplizio e il suo rapporto con il menage a lei circostante.

Ne risulta una scrittura fortemente evocativa, ricchissima di spunti metaculturali, e assai duttile nella spiegazioni delle personalità disturbate dei protagonisti (tutti  a vario titolo, vittime delle circostanze o di loro stessi), ma al tempo stesso, mai pesante, e invece estremamente sfaccettata e ricca di ritmo.

Quattrocento pagine che si leggono con straordinario piacere, e che conducono ad un finale per nulla scontato ed ad un omicida, non caduto dal cielo, ma invece assai vero, nella sua umanità e nella sua disperazione.

Volendo scandagliare meglio la materia narrativa, quello che emerge è una doppiezza di moventi, che corrono all’interno della storia su due binari paralleli, e che sono percorsi da persone varie. I due binari, sono due tentazioni da sempre presenti nell’animo umano, ma che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio del XX secolo: il denaro e il sesso. Tutti i personaggi più o meno, ne sono pervasi, ma in uno solo, le due tentazioni, si legano e si fondono fra loro ( anche se il movente più profondo sarà il sesso): nell’animo dell’assassino.

 Pietro De Palma

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Una interessante “Camera Chiusa” di John Russell Fearn

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John Russell Fearn

John Russell FearnBlack Maria (Black Maria, M.A. , 1944) – trad. Eleonora Mollona – Il Romanzo Giallo Classico N.12, Garden Editoriale, Milano, 1995.

copertine gialli blog 078Di John Russell Fearn abbiamo già parlato; pertanto, chi non lo conoscesse, può andare a leggere le note che scrissi qualche mese fa introducendo un suo poco conosciuto lavoro. Ricorderò in questa sede, solamente, che fu un prolifico autore statunitense, versato non solo al Giallo ma anche, e soprattutto, alla fantascienza, e che scrisse utilizzando una moltitudine di pseudonimi diversi, i più noti dei quali sono John Russell Fearn e Vargo Statten.

Black Maria è uno dei suoi romanzi con delitti impossibili: più precisamente è una Camera Chiusa, anche piuttosto carina.

Black Maria è la direttrice di un college femminile britannico. Un bel giorno riceve una lettera da cui apprende che suo fratello Ralph Black è morto suicida: infatti lo hanno trovato, nel suo studio, con la radio ad alto volume, ucciso da un colpo di pistola, rinvenuta peraltro per terra, accanto a del vino versato, e il tutto in una stanza chiusa dall’interno. Il suicidio è l’unica ipotesi attuabile, a detta della polizia. L’unico a non credervi è il figlio Richard (detto Dick) che esterna i suoi sospetti alla zia, quando essa, dopo un viaggio lungo dall’Inghilterra, arriva in America.

La famiglia è formata dalla moglie Alice (sinceramente innamorata del marito, ma anche intenzionata a salvare i figli da qualsiasi accusa che potesse nuocere loro) e dai figli: Dick, Janet e Patricia. Dick gestisce un teatro e degli spettacoli di cabaret, anche se è intenzionato a portare in scena un suo lavoro, che sta scrivendo assieme alla fidanzata Jane Conway, tecnico del suono; Janet invece è una cantante lirica, innamorata di Peter Wade un attore; e Pat infine, ballerina, è innamorata a sua volta di Arthur Salter, un contabile. Chi mai può aver ucciso Ralph e perché?

Ralph ha fatto fortuna con i broccoli in scatola, mettendo su una serie di fabbriche e fondando un piccolo impero. Tuttavia, è un uomo spietato, che non vede di buon occhio che i figli si sposino con gente non ricca; e così sia la ragazza di Dick (il cui fratello è stato rovinato da Ralph), sia il fidanzato di Janet, sia quello di Patricia, vengono isolati. Siccome tuttavia non riesce ad avere ragione del fidanzato della piccola Pat, ordisce nei suoi confronti addirittura una falsa accusa di appropriazione indebita, congiurando con un grosso pezzo della malavita, Onzi, e facendo finire in carcere il povero contabile. Che tuttavia fugge, con l’aiuto di Pat, nello stesso giorno in cui Ralph muore. Ralph, tuttavia, temendo che qualcuno intorno a lui, voglia tramare ai suoi danni, ha scritto una lettera alla sorella, affidandole l’incarico, qualora morisse di morte non naturale, di investigare sulla sua morte, ricevendo, qualora riuscisse a dimostrare la colpevolezza dell’assassino/a, la sua parte di eredità. Così Black Maria, comincia ad investigare.

Saprà che Arthur e Patricia, prima che lui fosse ingiustamente accusato di frode, si erano segretamente sposati; che Jane è un tecnico del suono e che assieme al fidanzato stanno scrivendo un lavoro teatrale basato sull’omicidio a distanza provocato dal suono; che Janet spesso va a trovare il fidanzato, che abita in un quartiere operaio, di periferia, ben diverso da quello ricco in cui dimora lei abitualmente; e che nello stesso quartiere si nasconde Arthur, dopo essere evaso, e che Patricia, ogni giorno lo va a trovare e gli porta da mangiare. Non solo. Black Maria riuscirà, con l’aiuto di Pulp Martin, un piccolo elemento della malavita, diventato la sua guardia del corpo, a recuperare la documentazione in base alla quale verrà scagionato Arthur; e scoprirà una serie di indizi determinanti per capire come sia stato ucciso Ralph, perché e da chi : la molla di una macchina per scrivere, un filo metallico di acciaio, del vino versato per terra, due bicchieri rotti e la gabbia con un pappagallo, una radio ad alto volume, un disco lasciato a metà sul piatto del grammofono, e un ordine al maggiordomo di portare del vino che stride con una prima ricostruzione del delitto.

Tanti avevano la possibilità e il movente per uccidere Ralph: sarà stata Jane, tecnico del suono? O Dick che lavora e che ama Jane? O Janet che lancia un acutissimo Do di petto nell’Alleluja in Fa Maggiore di Mozart? O persino Peter che odiava Ralph Blach perché non intendeva in nessun modo acconsentire al suo amore con Jane? Oppure Mary, la cameriera di Jane, anche lei nutrente odio nei confronti di Ralph, a causa della morte dei suoi genitori, il cui disastro finanziario era stato causato dall’attività commerciale di Ralph?

Sembra quasi una congiura tipo Assassinio nell’Orient- Express: tutti avevano avuto un motivo per odiare Ralph e per volerne la morte. Ma chi di loro era stato? La rivelazione finale, alla fine di una ricostruzione che l’inconsueta investigatrice terrà nella dimora del fratello, sorprenderà tutti, anche il lettore.

Gran bel romanzo di Fearn, con una soluzione impeccabile, mi ha ricordato quelle camere chiuse con meccanismi mortali, già viste in romanzi di John Rhode, J.J.Connington, Eden Phillpotts; ma soprattutto mi ha ricordato un’altra Camera Chiusa famosa, in Death Has Many Doors di Fredric Borwn, in cui l’assassinio è provocato da un meccanismo mortale, per di più alla cui base c’è una diavoleria connessa ad una legge fisica: mentre però capita la fonte, nel romanzo di Brown si riesce a desumere se non cosa almeno il principio in base al quale la morte è avvenuta, e quindi il colpevole, in quello di Fearn, anche capito il principio alla base, sbandierato in tutte le salse (cioè che una determinata nota, venendo suonata ad una determinata altezza, determina un’onda sonica non percepita dall’orecchio umano ma capace di rompere anche il vetro, in pratica un ultrasuono), non si riesce a capire come sia potuta morire la vittima, senza aspettare la soluzione finale, un vero culmine di intelligenza.

Al di là di questo, il romanzo si legge tutto d’un fiato: 150 pagine facili facili, portate avanti da un certo ritmo (cui contribuisce una vicenda a metà tra l’azione e il gangsterismo) che unisce Mystery classico ad un certo finto hard-boiled, quasi che qui Fearn avesse copiato la tendenza del giallo ibrido di Jonathan Latimer o di Craig Rice, a suo modo s’intende, creando una figura macchiettistica di direttrice di collegio imprestata alla detective fiction (probabilmente guardando anche alla signorina e maestra detective di Stuart Palmer, Hildegarde Withers), che andando a procacciarsi guardie del corpo tra avanzi di galera, riesce a salvarsi da tentativi di omicidio e ad inquadrare un complotto che si annida nella sua stessa famiglia.

Questo primo romanzo, bene accolto al tempo, fu il primo di una serie di sei romanzi impersonati da Black Maria: Black Maria, M.A. (1944); Maria Marches On (1945); One Remained Seated (1946); Thy Arm Alone (1947); Framed in Guilt (1948); Death in Silhouette (1950).

L’unica nota stonata di questo bel romanzo, pubblicato a suo tempo da Gerden Editoriale, riguarda la copertina: che c’entrano Robert Vaughn e Ben Gazzara? Mah..

Pietro De Palma

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Paul Halter : Il demone del Dartmoor (Le diable de Dartmoor, 1993) – trad. Igor Longo – Il Giallo Mondadori N.3098.

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Si può dire, senza sbagliare, che la primissima produzione di  Paul Halter sia stata la migliore. Questo non significa che i romanzi degli anni ’90 e della prima decade del XXI secolo siano stati poca cosa (anzi, in alcuni casi, il prodotto finito è stato qualitativamente assai interessante!), ma è altrettanto indubitabile che i primi 7-8 romanzi (eccezion fatta per La malediction de Barberousse, opera a parer mio ancora acerba) siano stati i migliori della sua produzione: Tutti, in un caso o nell’altro, offrono, nessuno escluso, grandi atmosfere e problemi deduttivi di primo piano: Inoltre, con l’eccezione del primissimo romanzo già citato, ambientato in Francia, tutti gli altri (almeno quelli della serie con il Dottor Twist) presentano ambientazioni in Inghilterra.

Non fa eccezione, Le demon de Dartmoor, del 1993.

Una presenza malefica si dice infesti i paraggi del villaggio di Stapleford nella landa desolata del Dartmoor nel Devon: qualcuno crede di aver visto un cavaliere senza testa, in groppa ad un cavallo, anche lui decapitato, galoppare nei pressi della roccia a forma di animale che sovrasta il torrente che bagna il villaggio. Fatto sta che tre ragazze,Eliza Gold, Constance Kent, e Annie Crook fanno tutte una brutta fine: salgono sul promontorio di granito del Wish Tor, ridendo come se stessero colloquiando con qualcuno (che non si vede però!) e poi cadono giù nel torrente tumultuoso come se vi fossero state buttate, vendo ritrovati i loro corpi ( i primi due, non il terzo, che si suppone abbia fatto la stessa fine) più a valle, imprigionati tra gli scogli , nel torrente, massacrati dalla forza della corrente che ne ha sbattuto i corpi più volte provocando fratture multiple e ferite.

Per 6 anni non accade più nulla, anzi si pensa che nulla accadrà più; e la vita riprende sonnacchiosa nel villaggio. Ma un bel giorno, Nigel Manson, attore in vista, compra il castello di Trentice, un maniero in rovina che ristruttura completamente, tranne l’ala sinistra del castello, laddove nel passato ha avuto luogo una morte misteriosa.

La moglie di Nigel, Helen, non vi vorrebbe andare, anche perché sospetta che, Nathalie Marvel, attrice e collega del marito in una fortunata piece teatrale, “L’uomo invisibile”, sia  la sua amante, e che la sua presenza nella loro dimora potrebbe coincidere col tradimento di Nigel.

Se tutto comincia male, poi finisce peggio: infatti Nigel ,fissato di fotografia e possessore di vari corpi macchina, vanitoso e amante delle pose più strane, vorrebbe posare sul davanzale della finsestra, in una posa molto pericolosa. Il davanzale è quello della finestra al secondo piano, nel salone del maniero, che dà sul prato circostante:  nel salone, con lui, sono sia la moglie Helen, vecino al camino, sia il dottor Thomas Grant, medico di Stapleford, seduto in poltrona, alle sue spalle. Nessun altro. Troppo lontani, o impossibilitati ad avere parte in quello che accade sul davanzale, almeno a sentire Franch Holloway, agente teatrale di Nathalie e in passato suo amante, che entra nel salone in pratica un attimo dopo che Nigel cade dal davanzale, con le mani in avanti, come se fosse stato spinto giù, mentre Nathalie lo riprende dabbasso con la macchina fotografica.

L’essere invisibile che ha ucciso le tre ragazze ha ucciso anche lui?

Fatto sta che altre cose inspiegabili accadono dopo: un’ombra rossa che cammina per le strade del villaggio, che riesce a spaventare persino Basil Hawkins, giardiniere, amico di Victor Sitwell, professore di filosofia al liceo di Tavistock; una foto che sparisce dalla locanda dove una sera vanno a sbronzarsi Frank e Victor e altra gente, in cui sarebbe rappresentato qualcuno che avrebbe spaventato Nigel, la sera prima che fosse ucciso (perché Twist immagina che non vi sia uno spirito dietro la sua morte, ma un assassino astuto); il tentativo di uccidere lo stesso Victor, che possiede un’altra duplicazione di tale foto. Qualcuno persino afferma di aver riconosciuto in Nigel, uno dei due bei giovani che anni prima era andati a bisbocciare nella locanda, laddove avevano richiamato l’interesse proprio delle tre ragazze, poi scomparse: possibile che egli fosse l’amante di cui le ragazze qualcuno pensa si fossero innamorate, e che per qualche oscuro motivo le avesse uccise? In quel caso si tratterebbe, per la sua morte, non di assassinio ma quasi di giustizia capitale: un giustiziere venuto dall’al di là? Oppure ci troviamo dinanzi ad una ipotesi campata in aria e Nigel è stato ucciso per dell’altro, magari per quello che egli avrebbe visto nella foto scomparsa?

Sarà ancora una volta Alan Twist a dare un volto al misterioso omicida e a spiegare le morti impossibili delle tre ragazze e di Nigel, accadute tutte e quattro sotto lo sguardo di testimoni attendibili, senza che si sia potuto vedere il loro assassino.

Ancora una volta Paul, in questo romanzo, manifesta il suo amore verso Carr: vi sono infatti molti accenni al suo autore preferito.

Innanzitutto il delitto impossibile davanti a testimoni: Nigel che muore cadendo dalla finestra del salone del castello, richiama immediatamente alla mente un celebre romanzo di Carr, il più breve dei suoi: The Case of the Constant Suicides, 1941 (Gideon fell ed il Caso dei Suicidi), in cui  un uomo cade dalla finestra di una torre, la cui porta era sprangata dall’interno. Secondo me, il romanzo di Paul, ne è una variazione molto affascinante; poi, quando a pagina 75 (16^ capitolo) parla di “L’uomo che spiegava i miracoli” appellando così l’Ispettore Hurst (ma The Man Who Explained Miracles è non solo l’altro titolo del racconto All In A Maze, del 1956, a firma Carter Dickson, ultima avventura di Merrivale, ma anche la famosissima biografia di Carr scritta da Douglas Greene). E infine vi sono delle altre cosette, che secondo me avvicinano questo romanzo a Carr: potrebbe essere una citazione di Carr, il passo finale del 19° capitolo, a pag. 94: “..i riflessi giallastri nei suoi occhi di una strana fissità rivelarono per un istante che non si trattava di una persona normale…”. A me questo passo ha richiamato immediatamente per associazione, lo sguardo dell’assassino di Death-Watch, nascosto tra i tetti. Ma questa potrebbe essere solo una mia fissazione. Invece credo che di più rilevante vi sia un’altra citazione da Carr, anzi da Carter Dickson, che richiama subito alla mente, la caduta dal promontorio delle ragazze: infatti a me ha fatto venire alla mente, She Died A Lady, del 1943, in cui due innamorati cadono dall’alto di una scogliera, nel sottostante oceano (ma nonostante le orme siano solo le loro, è un omicidio: una delle più belle Camere Chiuse di Carr ed uno dei suoi capolavori!). E ancora.. “L’Uomo Invisibile”: il titolo della commedia interpretata sul palcoscenico da Nigel e Nathalie, a me richiama oltre che il romanzo di fantascienza del 1881 di Herbert George Wells, anche una raccolta di racconti di Carr dal titolo The New Invisibile Man (col Colonnello March).

Tuttavia sarebbe sbagliato dire che Halter abbia creato il suo romanzo partendo da Carr: No! Io credo invece che Paul abbia in qualche modo sfruttato qualche cosa di Carr (magari anche inconsciamente), creando tuttavia un’opera originale, direi una delle sue più affascinanti.

Innanzitutto i due romanzieri hanno un’idea diversa delle loro storie: mentre Carr crea delle intense e drammatiche storie, Halter compone delle fiabe “nere”. Oddio, talora crea anche lui delle storie intensamente drammatiche e talora anche grandguignolesche come nei romanzi del ciclo Bencolin di Carr! Il più delle volte, però, Halter crea delle fiabe, con falsi elementi soprannaturali: qui, l’atmosfera è magica, perchè magiche sono le descrizioni dei luoghi (un simile procedimento può esser visto in L’arbre aux doigts tordus o La malediction de Barberousse), così come sono presenti i riferimenti soprannaturali (un uomo invisibile, un cavaliere senza testa, un mazzo di carte diaboliche, un cavallo volante). Inoltre Carr crea delle storie adatte agli adulti, in cui mancano quasi drasticamente soggetti molto giovani, perché la storia viene narrata con gli occhi di un adulto, a differenza di Halter dove invece questi soggetti sono spesso presenti (La malédiction de Barberousse, Le diable de Dartmoor, Spiral) perché la storia è narrata con gli occhi di un ragazzo: per questo, per Halter, il romanzo poliziesco è quello che si dice “una favola per adulti”. Riporto un passo significativo dell’ intervista da me fatta a Paul, circa otto mesi fa, e che ha avuto un’eco abbastanza significativa anche all’estero:

“..Il grosso problema per un romanzo poliziesco, è che la magia del mistero cessa di operare alla fine, quando tutto è spiegato in dettaglio. Abbiamo bisogno di trovare un escamotage per cui il fascino continui a funzionare sempre. L’esempio migliore resta a mio avviso la fine di The Bourning Court di Carr. In altre parole, trovare qualcosa per accreditare il fantastico dopo la spiegazione finale. Come definizione del romanzo poliziesco, Pierre Véry parlava di “favola per adulti” e io sottoscrivo senza riserve questa dichiarazione. Per i bambini piccoli che siamo stati, quelle storie di streghe, di fate e di draghi sono state una vera e propria scuola di preparazione al romanzo poliziesco! E inconsciamente, penso di cercare di trovare questi primi brividi scrivendo le mie storie. Il tema della fiaba è sempre celata al di sotto. Ne “L’homme qui aimait les nuages” 5 , è ancora evidente. L’eroina sembra essere una fata, mentre il colpevole è il “vento”.

(http://blog.librimondadori.it/blogs/ilgiallomondadori/2013/08/13/intervista-con-paul-halter-di-pietro-de-palma/).

Inoltre mentre nel caso dei romanzi di Carr il colpevole quasi mai è una vittima del destino e quasi sempre è un essere che magari ha ucciso spinto dalla necessità, o per fredda e calcolata abilità, ma non per follia pura, nei romanzi di Halter (e anche in Le diable de Dartmoor) fa capolino il tema insistente della follia:

“Sì, mi piace il tema della follia. Ciò consente di presentare modelli vari e sorprendente. Interessanti anche i problemi psicologici legati ai bambini (evitando il sacrosanto stupro dello zio!). Direi che i miei criminali sono spesso “ossessionati” da una passione, una fobia, ecc. Per essere più precisi, avrei dovuto dettagliare ognuna delle mie storie, ma vorrei lasciare al lettore la cura di scoprirlo di persona.”

((http://blog.librimondadori.it/blogs/ilgiallomondadori/2013/08/13/intervista-con-paul-halter-di-pietro-de-palma/).

Un’altra differenza tra Carr e Halter riguarda la costruzione del plot: mentre Carr riserva importanza sia al Come che al Chi, Halter si preoccupa principalmente di spiegare il come un fatto sia avvenuto: non a caso, eccetto La quatriéme porte e Le brouillard rouge, e qualche altro romanzo dei primissimi, come La mort vous invite o La lettre qui tue, non è così arduo inquadrare il colpevole, cosa che avviene invece nel caso di Carr. Questo perché Halter eredita la tradizione del romanzo ad enigma francese in cui ha la prevalenza l’enigma rispetto all’individuazione del colpevole.

Ancora un’altra differenza tra i due concerne i dettagli della storia: mentre in Carr, e in genere nel caso dei romanzieri anglosassoni degli anni ’30 (E.Queen, Van Dine, C.D.King, etc..), i dettagli, i particolari hanno un’importanza rilevante e sono estremamente complessi nella loro spiegazione, e ciascuno concorre per sé alla soluzione finale, in Halter questo non sempre avviene, in quanto la microstruttura del romanzo non gli interessa quanto la macrostruttura: gli interessa il problema in sé per sé e non invece le sue estrinsecazioni.  Se in La Quatriéme Porte la difficoltà presenta un livello di complessità altissimo, quasi di virtuosismo puro, nei tanti altri suoi romanzi, la difficoltà è solo apparente. Non a caso il colpevole, in una storia di Halter, se si è capito come egli la pensa, e quali sono i suoi modi di procedere (che spesso vengono ripetuti nei romanzi), non è arduo da individuare, a differenza che in Carr. Carr ha però la capacità di spiegare fino nei minimi dettagli la soluzione di un certo fatto, anche dopo aver allungato la trama del romanzo. E in questo si differenzia da altri romanzieri a lui coevi. Per es. da Talbot, che in Rim of the Pit crea una somma di situazioni impossibili a tal punto da far fatica poi, nella soluzione finale, a spiegarle realisticamente, arrampicandosi spesso sugli specchi. Ecco perché Halter, a mio modo di vedere assai intelligentemente, sapendo di non stare sullo stesso livello di Carr, non cerca di emularlo fallendo nel tentativo, ma a sua differenza e di altri romanzieri spaccacervelli (E.Queen soprattutto), crea degli edifici narrativi molto affascinanti, ma semplici da spiegare, perché privi di complessità effettive e astrusità (tranne che in qualche opera delle prime): la cosa si traduce anche nella lunghezza dei suoi romanzi, che spesso si attesta sulle 200 pagine o anche meno, a differenza dei romanzi carriani.

Nel romanzo vi sono tuttavia anche altre cose interessanti, che attengono alle citazioni presentate. Per esempio quella all’inizio del capitolo 8, a pag. 37, ci presenta Frank, in una squallida camera d’albergo, che si rivolge alla sua amante Nathalie e le dice:

“Couvrez ce sein que je ne saurais voir” .

Il periodo completo sarebbe : Couvrez ce sein que je ne saurais voir. Par de pareils objets les âmes sont blessées, et cela fait venir de coupables pensées.” (Tartufo, atto  III, scena II, versi 860-862). Cioè : “ Copritevi questo seno affinché io non lo veda. Da tali cose le anime son ferite, e questo fa venire dei pensieri peccaminosi”. I due (Nathalie e Frank) sono amanti e la nudità di lei è il prologo ad un amplesso. Tuttavia egli si rivolge a lei, citanso un passo dal Tartufo di Moliére: Tartufo vuole sedurre Elmira, con le sue massime moraleggianti, espresse in maniera che, neanche troppo velatamente, ella capisca però come lui voglia possederla. In sostanza, l’avance di Tartufo/Frank è l’anima dell’ipocrisia, della duplicità, della dicotomia tra essere ed apparire: infatti anche Frank, come Tartufo, è un ipocrita, che si manifesta in un certo modo per conquistare il prossimo, cioè le attricette e le soubrette in cerca di successo (come Nathalie).

Tuttavia il passo, per me, potrebbe rappresentare l’anima di tutto il romanzo, e non sarebbe affatto casuale che Paul l’avesse inserito: un romanzo sulla doppiezza e sulla falsità. Infatti se si analizza il comportamento dei vari personaggi del romanzo, si vedrà che parecchi fra essi, è come se recitassero una parte, e quindi in sostanza sono degli ipocriti: falsa è Nathalie, falso è Frank, falso è Nigel, falsa è Helen, falso è Victor, falsa è Annie, e potrebbe essere anche falso (anche se ha tutte le ragioni per esserlo) Basil. E posto prima dell’omicidio di Nigel e dopo la scomparsa delle ragazze, l’avance è come se suggerisse al lettore di diffidare di tutto quello che Paul Halter dice attraverso i suoi personaggi (in un certo senso anche egli sarebbe doppio).

Insomma..un altro bellissimo romanzo di Paul Halter.

 

Pietro De Palma

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UN ROMANZO SPETTACOLARE DI PETER LOVESEY

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Peter Lovesey – Il Signore dell’Enigma (Bloodhounds, 1996) – trad. Mauro Boncompagni – Il Giallo Mondadori N. 2532 del 1997, pagg. 362.

Nel panorama contemporaneo degli scrittori di romanzi gialli, specializzati nel genere classico, Peter Lovesey ha un posto di rilievo. Nato a Whitton, nel 1936, Lovesey ha passato varie vicissitudini: nel 1944 la sua casa fu distrutta durante un bombardamento tedesco; aveva la passione dello sport e si dilettò in atletica, ma ben presto capì che non era la sua strada; frequentò l’Università dove conobbe la sua attuale moglie; si dedicò all’insegnamento ma poi vi preferì la carriera di scrittore a tempo pieno. Vive vicino Chichester. Ha firmato col suo vero nominativo tutti i suoi romanzi tranne tre, firmati invece con quello di Petert Lear. Anche suo figlio Phil scrive romanzi polizieschi.

Le sue serie sono incentrate su personaggi come  il sergente Cribb, l’agente Thackeray, Bertie (ossia Alberto, principe di Galles) e Peter Diamond. I suoi romanzi hanno meritato molti premi: nel 1976 con Swing, Swing Together ha vinto il Grand Prix de Littérature Policière; nel 1978 ha vinto il premio Silver Dagger Award con il romanzo Waxwork (bissato nel 1995 con The Summon, e nel 1996 con Bloodhounds); quattro anni dopo ha conquistato l’ambito Gold Dagger Award con il romanzo The False Inspector Dew. Ha vinto anche il Prix du Roman d’Aventures con il romanzo A Case of Spirits, il Premio Macavity  con Bloodhounds (bissato nel 2004 con The house sitter) e con lo stesso romanzo anche il Premio Barry. Ha vinto anche il Premio Cartier Diamond Dagger nel 2004, e il Premio Agatha alla carriera del 2008. Nel 1988, il suo Rough Cider è stato selezionato nella cinquina finale dell’ MWA Edgar Award., cosa ripetutasi nel 1996 con The Summons.

Bloodhounds, tradotto e pubblicato in Italia come “Il Signore dell’Enigma”, è dedicato a John Dickson Carr. copertine gialli blog 080

Un gruppo di affezionati lettori di gialli, noti come i Segugi, si riuniscono in una cappella sotterranea della Chiesa dei SS. Michele e Paolo, a Bath. Sono: Milo Motion, Hilda Childmark, Jessica Shaw, Polly Wycherley, Rupert Darby, Sid Towers. A questi, un giorno si unisce anche  Shirley-Ann Miller. Ella si fa subito conoscere per la sua versatilità di conoscenze nel genere e per la sua amabilità. I Segugi sono versati soprattutto al Mystery, mentre in qualche modo aborriscono il resto. Al loro interno, Shirley-Ann riconosce delle dinamiche non certo idilliache, che le fa ben capire come, al di là delle conoscenze simili, gli affiliati al gruppo non siano tutti uniti da sentimenti di salda amicizia: già lo vede quando un giorno Rupert porta il suo cane dabbasso, provocando le ire di alcuni, e soprattutto di Hilda Chilmark, una vecchia erede di famiglia illustre ma caduta in rovina, che però, non memore di ciò, tratta gli altri come fossero una spanna sotto di sé. L’atteggiamento di rifiuto nei confronti di Rupert e del suo cane, si accentua in altra occasione, durante la quale sia Sid Towers che Milo Motion (entrambi patiti di Carr) avrebbero dovuto portare con sé una copia di The Hollow Man, per discuterne nel gruppo, leggendo anche la Conferenza del dottor Fell: in questa occasione, proprio la signora Chilmark ha un attacco di iperventilazione, da cui rinviene per intervento di Jessica Show che dopo aver rimediato un sacchetto di carta, dove Motion teneva la sua copia del Carr, la fornisce alla Chilmark perché questa possa ripristinare la corretta respirazione. Fatto sta che l’incidente fornisce l’occasione di introdurre dentro la copia del romanzo di Carr, di proprietà di Syd Tower, un rarissimo francobollo nero da 1 penny, rubato qualche giorno prima da un museo cittadino, furto che era stato preventivamente annunciato da un messaggio, in forma di quartina, e che aveva allertato la polizia cittadina: lo stesso Peter Diamond, sovrintendente della polizia di Bath, e capo della sezione omicidi, aveva dovuto fornire all’ispettore Wigfull, incaricato di approntare il piano per catturare i ladri e poi, dopo il furto, di recuperare il francobollo trafugato, alcuni suoi uomini, tra cui l’ispettrice Julia Hargreves, suo braccio destro.

Nel momento in cui il francobollo riappare, nel corso della riunione dei Segugi, e dopo l’attacco di iperventilazione di Hilda Chilmark, si insinua il sospetto (anche nel lettore) che uno dei Segugi possa essere stato il ladro del francobollo.

Syd, dopo un confronto con gli altri Segugi, decide di andare al Posto di Polizia, e denunciare il ritrovamento, nel suo libro, che giura di non aver mai lasciato dal momento in cui l’ha preso a bordo della sua barca, dove vive. Fatto sta che Syd, dopo aver denunciato la cosa in più interrogatori, ed esser riuscito a dimostrare la sua estraneità al furto del penny, ritorna alla barca di sua proprietà, in compagnia di John Wigfull, e, dopo aver aperto il lucchetto con cui tiene chiusa la cabina, vi trova morto stecchito Milo Motion: il lucchetto è di tipo speciale, tedesco, con due sole chiavi che possano aprirlo, di cui una è caduta nello specchio d’acqua dove è ancorata la barca più di un anno prima; la cabina non ha altre aperture, se non un’altra porta che è però sprangata dal di dentro da numerosi catenacci; Syd giura che la sola chiave che possa aprire il lucchetto è stata sempre nelle sue mani, e nello stesso tempo si professa innocente. Il prosieguo delle indagini dimostrerà che non è lui l’assassino. Come ha fatto Milo Motion a entrare nella cabina e perché? Come ha fatto qualcuno a ucciderlo e riuscire non solo ad aprire un lucchetto che Syd giura di aver chiuso, ma anche a chiuderlo, stante l’impossibilità materiale che quel lucchetto possa avere altra chiave per aprirlo? E soprattutto, perché è stato ucciso?

La cosa più incredibile è che l’omicidio impossibile sembra essere stato preventivamente annunciato da un’altra quartina, di cui il significato prima incomprensibile viene successivamente messo in relazione proprio al romanzo di Carr. E’ chiaro a questo punto che, se prima qualcuno aveva avanzato l’ipotesi che il ladro sarebbe potuto essere uno dei Segugi, ora deve esserci tra gli stessi anche un omicida, salvo poi che lo stesso ladro non si sia macchiato anche di omicidio.

Varie ipotesi si faranno strada sull’identità del ladro, anche in grado di spiegare l’omicidio, ma alla risoluzione si arriverà solo alla fine del romanzo, dopo che ben due ipotesi circa la soluzione della Camera Chiusa si saranno fatte ammirare (la seconda, quella di Diamond, distruggerà la prima di Wigfull, dopo il ritrovamento, da parte dei sommozzatori della polizia, della prima chiave del lucchetto) per genialità ed estrosità, dopo che un secondo omicidio avrà gettato altra sabbia negli occhi degli inquirenti (verrà ucciso Rupert Darby, personaggio scomodo ed inviso ai più, che qualcuno aveva supposto esser stato l’accusatore di Jessica, all’apertura di una mostra pittorica presso la Galleria di cui lei era proprietaria, per la morte di Milo, e l’autore di un “Je t’accuse” scritto con la vernice bianca su una delle vetrine della galleria); e dopo che qualcuno avrà cominciato a sospettare anche un ricatto al danno di altra appartenente dei Segugi, per una gravidanza scomoda e la nascita di un figlio segreto, sempre gravitante nel gruppo dei Segugi.

Il romanzo non ha neppure un finale scontato, perché ben due finali si susseguiranno serrati: il primo, con due colpevoli quasi sicuri ma troppo annunciati, ed un altro, quello definitivo, con un colpevole per nulla scontato, non lontano dall’azione e nello stesso tempo mai tenuto presente nelle indagini, e riportato sotto le luci dei riflettori, solo dopo la riflessione finale di Diamond.

Romanzo bellissimo e spettacolare, presenta un’incredibile varietà di personaggi ( e quindi di moventi), pur all’interno di una struttura narrativa, già consolidata e affrontata in altri romanzi da altri scrittori: infatti l’associazione cosiddetta di Segugi, formata da lettori e appassionati cultori di gialli, è solo l’ultima in ordine di tempo, tra le tante che l’hanno preceduta: basterà ricordare quella dei Vedovi Neri di Asimov, o quella dei Sette Solutori di Sladek in Invisibile Green, o ancora i tre amici appassionati di gialli, che si affronteranno in Gammal Ost di Ulf Durling. Tuttavia è il caso di ricordare che Lovesey, introduce nel romanzo anche una vena decisamente umoristica, e ironica (basterà ricordare che i Segugi son fatti incontrare in una cappella sotterranea di una chiesa, neanche fossero gli adepti di una setta, nel cui ambito si scontrano rivalità, odii, e vengono perpetrati furti, ricatti e omicidi: una setta satanica, quasi): è come se lo stesso autore ironizzasse su chi il mystery lo prende terribilmente sul serio.

Lovesey però imprime in questo romanzo, un suo marchio riconoscibilissimo: l’omaggio a John Dickson Carr, ricordato dall’inizio alla fine, attraverso accenni, citazioni e conferenze, che hanno come riferimento, il romanzo più ricordato di quello: The Hollow Man, Le tre bare. Questo omaggio non è però solo formale ma anche sostanziale in quanto viene elaborato un doppio enigma da Camera Chiusa: un assassinio in una cabina di una barca, ermeticamente chiusa dall’esterno per mezzo di un lucchetto a prova di ladro, e dall’interno da un’altra porta chiusa per mezzo di un catenaccio; l’apparizione di un francobollo rarissimo, rubato da un museo, in un libro che il possessore giura di non aver mai depositato altrove (e non è lui l’assassino!).

A questo si aggiunge la vena leggera di cui è impregnato il romanzo, l’humour sempre presente, la ridda dei sospetti, le piste vere e false, le invenzioni scoppiettanti che non sono mai definitive ma lasciano sempre una seconda possibilità al ragionamento.

Diversamente da altri autori che tengono alto il ritmo con trovate affini all’action, Lovesey riesce ad attrarre l’attenzione del lettore (che non scema mai fino alla fine) solo con le ripetute trovate. Anzi, il fatto che a venti pagine dalla fine, Lovesey faccia intravedere un possibile sospettabile, non è per me da mettere in relazione con la tendenza di alcuni scrittori di vecchia scuola di utilizzare le ultime pagine, come una sorta di riepilogo che spieghi i fatti precedenti, quanto con il fatto che l’autore stia lanciando un’altra falsa esca, sì che la verità ultima sia ricercata altrove: è il vecchio presupposto di Agatha Christie, in base al quale perché il quadro della situazione possa dirsi risolto in tutto, è necessario che tutte le tessere del mosaico vadano a posto, non forzando in alcun modo il loro inserimento.

L’unica cosa che lascia qua e là interdetti è la spiegazione nascosta di un determinato evento, non comunicata al lettore immediatamente e invece rivelata solo in un secondo momento (gli spruzzi della vernice bianca non solo sul basco di Rupert ma anche sul mantello del pelo del suo cane, che non era stato da lui portato al vernissage della mostra di pittura), anche se si capisce subito la sua portata: tiene alta l’attenzione del lettore spettatore sull’ipostesi contestuale, finchè non viene rivelato il particolare nascosto, che porta ad una soluzione diametralmente diversa, anche se non definitiva per quanto attiene la scoperta dell’assassino.

L’attenzione di Lovesey sulle personalità degli attori del dramma, per di più, non è per nulla relativa: lo dimostra l’influenza che tutti i personaggi hanno nello svolgimento dell’azione narrativa: persino quella che sembrerebbe essere l’unica persona a non poter essere inserita nel gruppo dei sospettabili, perché l’unica ad essere entrata a far parte del gruppo dei Segugi, avrà una parte importantissima seppure indiretta, ed entrerà di prepotenza nella soluzione finale,a nche se non personalmente.

Così nel romanzo, l’andamento dell’azione vedrà l’inizio coincidente nella fine e viceversa.

Pietro De Palma

P.S.

Notizie più dettagliate sull’autore, nel suo sito:

http://peterlovesey.com/about

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La maieutica socratica in Fredric Brown

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Fredric Brown – Tutto in una notte (Night of the Jabberwock, 1951) – trad. Andrea Ogumbisi – Il Giallo Mondadori N.2233 del 1991.

copertine gialli blog 081Fredric Brown è famoso per le trame originali e bizzarri e i finali inconsueti, e ho conosciuto alcune persone che lo amano. Mauro Boncompagni per esempio, si è sempre detto entusiasta di Brown.

Ora, è lampante che le sue trame non siano convenzionali, anzi molto originali, leggendo le sue opere: direi che fosse una cosa anche normale, visto che l’autore era un famoso autore di fantascienza, e che quindi il fantastico futuribile era per lui un modo di vedere le cose di ogni giorno sotto una luce diversa. Tuttavia, al di là che fosse o meno, un autore essenzialmente di fantascienza imprestato alla letteratura poliziesca o un autore di letteratura poliziesca imprestato a quella fantascientifica o tutte e due assieme, Brown cercava sempre di stupire a meno che non fosse una caratteristica così connaturata in sé che non vi potesse rinunciare. Talora la sorpresa è legata all’uso di strumentazioni strane o a fatti che ricalcano la fantascienza (per es. è il caso di Uno strano cliente, romanzo che abbiamo recensito tempo fa), talaltra a situazioni veramente strane. E’ questo il caso del romanzo di oggi.

Tutto in una notte ( Night of the Jabberwock, nell’edizione americana) è un romanzo del 1951.

E’ la storia di un piccolo editore di provincia, che risiede in un piccolo paese dell’Illinois, Carmel City, dove non accade mai nulla. Ciò lo costringe ad accanirsi su quello che avrebbe potuto essere se fosse vissuto altrove, e a procacciarsi purtroppo le notizie più strane nel novero di quelle dozzinali, che possono accadere in un paese dove mai nulla accade di originale, tanto che la gente possa acquistare il giornale che le riveli. Così, tanto per dire qualcosa di nuovo, è riuscito persino a mettersi contro la polizia locale, il cui sceriffo non gli ha perdonato gli attacchi contro di lui. Infatti Doc Stoeger desidererebbe un bel delitto, non per gli scopi per i quali lo desiderava il Gervase Fen di Crispin, cioè come sfida intellettuale, ma per avere materiale per un bell’articolo. Anzi, la cosa che vorrebbe fare, è pubblicare un bel numero, un ultimo numero, in cui potesse scrivere tutto quello che ha sempre voluto, e poi chiudere. Perché si è scocciato (di non vendere nulla) e quindi vorrebbe cessare la pubblicazione della rivista.

Doc ha qualcuno a cui lui potrebbe rivenderlo, ma intanto vorrebbe pubblicare almeno un numero che avesse successo; tanto da chiudere almeno in bellezza.

Ma a Carmel City non accade mai nulla.

Doc ha due amici veri: Carl Trenholm, avvocato; e il barista Smiley Wheeler, e con loro passa gran parte del suo tempo: con il primo riflette, con il secondo beve (è quali alcoolista). Un terzo suo conoscente è Al Grainger, un giovanotto le cui entrate nessuno sa quali siano, ma che conduce di per sé una vita spensierata, e che impegna Doc in estenuanti partite di scacchi.

Un bel giorno accade tutto quello che non gli è accaduto per anni: una serie di fatti talmente fuori dell’ordinario (sempre avendo come riferimento la vita troppo routinaria di Carmel City) che anche uno solo sarebbe bastato a coprire il buco nell’impaginazione, che sta facendo arrovellare Doc.

In sostanza, assiste a quello che sembrerebbe un furto in banca, ma penetratovi attraverso una finestra (si tratta di una banca di provincia, del 1951, non di una dei giorni nostri, dove se hai anche una chiave addosso il metal detector all’ingresso non ti fa passare!) stende in men che non si dica il ladro maldestro, per poi accorgersi che si tratta del figlio adolescente di un suo conoscente, il banchiere Clyde Andrews; viene a sapere che il marito della sua donna delle pulizie, ha avuto un incidente nel Reparto delle Candele Romane, di una fabbrica di fuochi artificiali, ustionandosi una mano; si accorge che in città girano dei brutti ceffi : due gangsters, di cui uno ricercato, famosi per la loro ferocia, che per poco non lo gonfiano di botte, solo perché lui per strada, ha tirato dritto senza rispondere su quale città fosse quella in cui stavano transitando, e che ritrova successivamente da Smiley: anche Smiley li ha riconosciuti, anche se solo a lui scappa, ma in loro presenza nel locale, chi siano: si salveranno da morte certa solo per la prontezza di Smiley che approfitterà di un momento di incertezza dei due gangsters per averne la meglio, sparando con la pistola che Doc porta per caso in tasca; un pazzo scappa dal manicomio, e la polizia organizza posti di blocco per acciuffarlo; Ralph Bonney, ricco industriale proprietario della fabbrica di fuochi pirotecnici, e Miles harrison, vicesceriffo, che lo sta scortando per via delle paghe dei lavoratori, da una banca in altra città, scompaiono nel nulla; e infine un ultimo incredibile avvenimento accade davanti agli occhi dell’incredulo Doc che non riesce a credere che tanti accidenti quanti mai sono capitati in quella oscura cittadina in cui lui vive, gli siano passati davanti agli occhi, a distanza di poco tempo. Ma la cosa a cui di più non può credere e di cui non si capacita proprio, è che di nessuna di queste cose per lui straordinarie, lui possa scrivere un pezzo, perché per una ragione o per l’altra, le persone ivi implicate accettano che lui scriva un pezzo sui fatto o su loro stessi.

Tuttavia sono tutte cose che Doc non ha propriamente vissuto, tranne l’avventura assieme a Smiley contro i due gangsters, in cui però ha fatto tutto il barista. Quello che gli accade ora ha invece dell’incredibile.

In un intervallo tra una cosa e l’altra, gli si presenta alla porta non il suo amico Grainger, con cui lui intrattiene sfide scacchistiche, bensì uno strano ometto, che si qualifica come un certo  Yehudi Smith, biglietto da visita alla mano, che lo intrattiene sulle sue conoscenze di Lewis Carroll e di Alice nel Paese delle Meraviglie: pochi lo sanno che lui anni prima ha scritto uno studio proprio su quest’opera visionaria e che ne è un discreto studioso. Ben presto Doc mette a fuoco che quello strano tipo è affascinante per lui, come gli si manifesta, per via delle sue conoscenze dell’opera di Carroll, anche di saggi assai poco conosciuti riguardanti la matematica: così i due familiarizzano e tra un bicchierino e l’altro, drinks e quant’altro, Doc viene da Yehudi invitato ad una riunione di una certa setta in una casa abbandonata e stregata, dove avverrà un rito che dovrà capacitare gli astanti sull’esistenza vera del  mondo fantastico di Alice, in un’altra dimensione.

Doc ne è rapito. Vanno assieme, penetrano in una soffitta, trovano il tavolino con una chiave e una bottiglietta con una etichetta con la scritta BEVIMI (come in Alice nel paese delle Meraviglie), Yehudi beve dalla bottiglietta e…stramazza avvelenato e stecchito.

Doc fugge dalla casa, si reca al posto di polizia dove denuncia tutto allo sceriffo il quale non gli crede, ma manda il suo secondo vice alla casa, dove non trova alcunché; tuttavia dal bagagliaio dell’auto di Doc cola qualcosa che viene accertato potrebbe essere sangue: con la chiave Yale che Doc ha trovato sul tavolino in soffitta, essi aprono il bagagliaio dell’auto (ne è la chiave) e trovano l’industriale e il vice sceriffo scomparsi, morti, massacrati con calcio di una vecchia pistola.

Doc dev’essere stato!E’ chiaro: è impazzito, e tutto per colpa di tutto il liquore che ingurgita!

Lo sceriffo Kates che lo odia, sta per ucciderlo, quando lui riesce a scappare e a nascondersi nel bar di Smiley: nei fumi dell’alcool, vede seduto ad un tavolo Yehudi che gli parla e che risponde alle sue domande. Non c’è nulla si soprannaturale: è Doc che mette in bocca ad un’ estensione del suo subconscio, le risposte che cerca, e finalmente capisce come il tutto possa essere accaduto, chi possa essere stato a organizzare quel complotto contro di lui, e per quale motivo abbia ucciso tre persone:  E con l’informazione avuta da Smiley, circa una fobia di cui soffrirebbe il presunto assassino, la pirofobia (la paura del fuoco), riesce a costringerlo a rendere piena confessione.

Accade altro in questo romanzo e il finale è quantomai estroso, anche se senza sconvolgimenti dell’ultimo rigo.

Innanzitutto il romanzo, come tanti altri nella produzione di Brown, è un ibrido: mischia ambientazioni e situazioni hardboiled, con un enigma di tipo deduttivo. Potremmo dire che è molto vicino alle atmosfere di Jonathan Latimer o di Craig Rice: gangster e cazzotti, alcool e pistole; ma anche atmosfere fantastiche alla Carroll, un avvelenamento, un cadavere che scompare, e due che appaiono nel bagagliaio dell’auto, una chiave che dovrebbe aprire una porticina ed invece apre un bagagliaio, e un piano cervellotico per accusare un innocente e nello stesso tempo ereditare una fortuna.

In sostanza ci troviamo dinanzi ad un Pout-pourri, ad un minestrone di situazioni spassose e ironiche, bizzarre e sconclusionate, ma anche drammatiche e tese e soprattutto ad una serie di circostanze assolutamente paradossali:

una situazione paradossale, un soggetto paradossale, un’ambientazione paradossale, un avvelenamento paradossale, una scomparsa ed una ricomparsa paradossali, e soprattutto un assassino paradossale ed un movente paradossale. Quasi potremmo dire che se il romanzo non l’avesse scritto Brown e non l’avesse confezionato in tale maniera, fintamente arrangiata ma stilisticamente assai ricercata, potremmo attribuirla alle fantasie pazzoidi di uno scrittore alcolizzato.

Il fatto è che movente e assassino, spuntano fuori come un cavolo a merenda: perché mai proprio quella persona dovrebbe essere l’assassino e  come mai Doc riesce a capire quale possa essere il movente? Semmai immagina quale possa essere, ma…senza l’ombra di una prova.

Sembra quasi che i drinks, i cocktails, rimettano in moto le sue cellule nervose. Doc è alcolizzato e come tutti gli alcolizzati ha bisogno di bere per riuscire a stare meglio: nel nostro caso usa i drink per riuscire a capire come sia stato ordito il disegno, perché e da chi. E il delirium tremens gli procura la soluzione sdoppiando la sua identità in due diverse: lui e Yehudi. Yehudi, oramai morto, appare come un alter ego di Doc, il suo subconscio. Questo colloquio assurdo, onirico e irreale tra la parte cosciente di Doc (Doc stesso) e il suo subconscio (Yehudi) non incarna altro che la ricerca della verità in se stessi, la maieutica socratica: come Socrate attraverso il dialogo trovava la verità (Metodo di indagine filosofica altrimenti detto metodo socratico), così Doc, attraverso il dialogo con una parte di se stesso a cui pone delle domande, coglie il nesso. In altre parole,  Γνθι σεαυτόν.

Il bello è che tutto questo viene incarnato in Doc, un uomo che per riflettere ha bisogno di “bere”.

Ma il “bere” oltre che essere la molla per conoscere, fa sì che Doc arrivi alla verità in un modo assai strano: cioè supponendo, senza avere indizi; sulla base di un teorema assurdo, per cui se tutto quello che è accaduto in quella notte è assurdo, anche la verità deve esserlo.

Voleva forse dire Brown che la verità non sempre la si raggiunge con metodi assolutamente razionali e che talora anche il caso e la fortuna hanno importanza negli avvenimenti umani? O forse che alla verità, per davvero vera che sia, talora ci si possa arrivare anche senza prove certe, basandosi su assurdi costrutti mentali?

Ecco allora che il finale di Brown, per me  il vero pugno nello stomaco: sulla base di quale indizio o ancor meglio, sulla base di quale prova, Doc inchioda il suo nemico, l’assassino? Nessuna.

La rivelazione avviene attraverso la tortura: ponendo davanti alla minaccia di essere arso, l’omicida rivela tutto quello che già Doc ha pensato. E non potrebbe essere avvenuto che l’omicida non fosse quello vero e che ha ammesso di esserlo solo perché vittima di una tortura psicologica (che per lui è anche reale)?

Perché non pensare che Doc per salvarsi, abbia inventato un finale di comodo, creando anche lui un colpevole ideale, che lo decolpevolizzi a sua volta? E che il finale abbia rappresentato per Brown un Je t’accuse della tortura ?

Che lo si veda per i suoi significati nascosti o perché sia un omaggio affascinante ad Alice nel Paese delle Meraviglie (ogni capitolo è introdotto da una strofa del libro di Carroll), questo è uno delle opere migliori, forse, di Fredric Brown, per me.

Pietro De Palma

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Un delitto impossibile per Constance & Charlie

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Kate Wilhelm : L’arte del delitto (Seven Kinds of Death, 1992) – trad. Gioia Selis – Il Giallo Mondadori N° 2732 del 2001

Tanti anni fa scrissi alla redazione del Giallo Mondadori, nella fattispecie all’Editor di allora, Sandrone Dazieri. Per vent’anni non avevo fatto altro che leggere, però avevo una falla da sanare: volevo leggere il più possibile sul sottogenere che mi attirava (e mi attira tutt’ora) di più: Le Camere Chiuse e i Delitti Impossibili. Dazieri mi indirizzò a Igor Longo, “il loro esperto in materia”, mi disse lui. Igor seppe nutrire la mia inguaribile curiosità con accenni, con brevi riferimenti ai temi che condividevamo (bastava che lui mi dicesse una cosa ed io mi procuravo il libro!), persino aprendomi le porte di un suo blog (che non esiste più da molto tempo: un gran peccato!) dove mi invitò a leggere alcuni articoli che aveva scritto per Il Foglio Giallo, una fanzine che aveva pubblicato per la prima volta, qualche racconto sparso di Paul Halter, sconosciuto allora o quasi. In breve costruimmo un’amicizia fatta di lunghe missive, e telefonate, data la distanza che ci separava (lui piemontese, io pugliese). Il merito maggiore che gli riconosco, oltre ad avermi spalancato le porte del sottogenere che più amavo, indicandomi all’inizio gli autori più rappresentativi (ho ancora parecchie missive), è stato quello di avermi incitato a scrivere, a partecipare al Concorso Tedeschi (con un romanzo tutt’ora inedito con 3 Camere Chiuse!) e ad alcune edizioni del Mystfest di Cattolica. Tutto ciò che ideavo, glielo facevo leggere in primis, anzi devo dire che alcune cose gliele ho dedicate personalmente e scritte apposta perché le leggesse (con strampalate Camere Chiuse). Scrissi anche un secondo romanzo, con cui non ho mai partecipato ad alcunché, che qualche anno fa, Luca Conti, dopo aver letto il primo (disse che “con un editing appropriato sarebbe venuta fuori una cosa molto carina”) mi lanciò la proposta di scriverlo a quattro mani cambiando nel soggetto (adattandolo al centenario di Liszt) ma lasciando immutata la messinscena del delitto e il finale: di questo romanzo a Igor era piaciuta molto la Camera Chiusa. Mi aveva detto che era una Camera che lui non aveva trovato mai altrove (l’avevo ideata io, ovvio!) e che poteva paragonarla a certe Camere ideate da Herbert Resnicow o Kate Wilhelm. Ecco la prima volta che sentii parlare di Kate Wilhelm: Resnicow lo conoscevo (Il Grande Gold) ma la Wilhelm proprio no.

Kate Wilhelm è nata ottantasei anni fa in Ohio. Ha scritto molti racconti e romanzi di fantascienza: nel 1965 il suo primo romanzo, The Clone,  fu finalista al Nebula Award; tre anni prima, aveva scritto il suo primo romanzo giallo: More Bitter Than Death, 1962. Ha vinto parecchie volte il Nebula Award nella categoria “Short Story” e una volta, nel 1977,  l’Hugo per il miglior romanzo di fantascienza: Where Late the Sweet Birds Sang (l’anno prima era stata finalista con lo stesso romanzo al Nebula Award). Ha scritto parecchi romanzi mystery e thriller psicologici, e in particolare ha creato due serie fisse, quella di Barbara Holloway (detective fiction) e quella basata sulla coppia Charlie Meiklejohn e Constance Leidl (mystery classici con delitti impossibili). Dopo la morte del suo secondo marito, il noto scrittore di racconti di fantascienza, Damon Knight, avvenuta nel 2002, attualmente vive in Oregon.

La sua produzione di romanzi e racconti, comprende:

Constance & Charlie: Omicidio in tre atti (The Hamlet Trap, 1987)

La porta oscura (The Dark Door, 1988), pubblicato da Mondadori nel 1990 nella collana Urania

La casa che uccide (Smart House) (1989)

Constance & Charlie: dolce veleno (Sweet, Sweet Poison, 1990)

L’arte del delitto (Seven Kinds of Death, 1992)

A Flush of Shadows (1995)

The Casebook of Constance and Charlie (1999).

copertine gialli blogCharlie Meiklejohn e Constance Leidl sono una coppia nella vita e nel lavoro: infatti gestiscono un’agenzia investigativa ben avviata.

Constance è amica di Marion Olsen, Tootles per gli amici, un’artista che ha raccolto attorno a sé, in una piccola fattoria, un gruppo di giovani promettenti: pittori, scultori, etc..

Tootles le chiede aiuto perché deve inaugurare una mostra di opere, una sua rassegna personale, in cui la parte più importante l’ha Seven Kids of Death, l’opera che l’ha lanciata nel mondo dell’arte, ma intorno a cui lei ha costruito un suo percorso personale di arte contemporanea. La “personale” è stata sponsorizzata da Max Buell suo secondo marito e noto costruttore edile, che intende lanciare definitivamente Tootles ma nel tempo stesso sponsorizzare un complesso condominiale ultramoderno che ha edificato nel frattempo, poco distante dal luogo dove è previsto il ricevimento che deve ufficialmente lanciare il progetto; al condominio hanno lavorato oltre che Max, anche suo figlio Johnny, desideroso di mettersi in luce presso il padre e riuscire quindi a convincerlo a lasciare a lui l’impresa, e Thomas Ditmar, capo cantiere e braccio destro di Max Buell da quasi trent’anni.

Alla manifestazione sono stati invitati molti diversi personaggi: la risonanza dell’evento è alta, e fra gli invitati c’è la creme dell’ambiente. Vi sono anche personaggi della finanza e dell’imprenditoria, perché il villaggio ultramoderno, costruito non lesinando soldi e tecnologie all’avanguardia, è destinato ad accogliere artisti ma non solo.

Fra gli invitati arriva anche Paul Volte noto critico d’arte e la sua ex Victoria Leeds, editor newyorkese che, a sua volta, avendo conosciuto Toni, giovanissima scultrice, l’ha introdotta nel gruppo di artisti che fa capo a Tootles.

Al momento dell’inaugurazione, tuttavia, proprio Victoria Leeds scompare. Si mettono molti alla sua ricerca, ma invano. Battendo vari luoghi, esaminano dapprima il fienile, dove sono state accatastate le casse contenenti le opere che devono partecipare alla mostra: sospettando che in una possa essere stato celato il corpo dell’amica di Paul, sempre che sia stata uccisa o comunque messa fuori gioco, le aprono una ad una e rinvengono le varie opere o imbrattate di vernice o rotte o comunque lesionate gravemente, tale da non poter essere più esposte: perché sono state chiuse addirittura nelle casse d’imballaggio, quando per una persona che si sospetta si sia dovuta assentare furtivamente dalla festa per compiere il misfatto, sarebbe stato necessario non perdere tempo per evitare di essere sorpresa? Perché chiudere le casse, quando sarebbe bastato aprire le casse e distruggere o rovinare per sempre i capolavori di Tootles? E perché alcune opere sono state lesionate e altre no?

Fatto sta che qualcuno comincia a sospettare che la persona scomparsa, sia quella che abbia intenzionalmente voluto distruggere la fama di Tootles: ma perché Victoria Leeds, critico e amica di Tootles avrebbe dovuto compiere un’azione tanto meschina? Ma, sempre non tralasciando nulla, si sente la necessità di andare a perquisire il complesso condominiale, ancora disabitato, in cui andranno ad abitare sia Tootles che suo marito: pur essendo virtualmente impossibile, perché l’appartamento, come tutti gli altri del villaggio, è protetto da sistemi di sorveglianza elettronici di ultima generazione, trovano  Victoria Leeds strangolata.

L’ora della morte è presumibile, ma neanche tanto, visto che l’aria condizionata, presente nell’appartamento è così inferiore a 18° da far rabbrividire dal freddo chi vi si avventura dentro. Visti gli spostamenti delle persone interessate, sarebbe proprio l’organizzatrice della mostra peronale, Tootles, la maggiore sospettata, in quanto si ipotizza che, avendo trovato Victoria Leeds

intenta a rovinare per sempre i suoi capolavori, avrebbe potuto ucciderla: ma perché proprio nel suo appartamento e non invece nel fienile, dove sarebbe stato più comodo e più pratico? Perché correre il rischio di essere scoperta, portando il corpo ? E se invece la vittima vi fosse andata di persona, vi è stata costretta oppure no?

Lo sceriffo della contea è perplesso, e non vuole arrestare Tootles senza prove, e così è contento quando apprende che Constance e Charlie sono stati assunti da Max per trovare il vero colpevole e scagionare la sospettata principale. Ben presto si riesce a capire, come apparentemente in modo impossibile, la vittima si trovasse lì: il fatto è che le porte sono accessibili solo mediante ascensori esclusivi per ciascun appartamento e usabili con chiavi elettroniche; quindi, escludendo che la vittima vi si fosse recata personalmente e fosse riuscita ad accedere da sola, è chiaro che qualcun altro l’avesse fatta entrare. Il fatto è che, monitorando i tempi, parrebbe che nessuno avrebbe potuto farlo, perché all’ora in cui si ritiene sia stata uccisa, nessuno parrebbe essere stato lontano dal ricevimento, tranne il figlio di Max, Johnny, che era lì assieme ad alcune sue amiche, le quali però giurano che nell’appartamento non vi fosse nessun cadavere. E poi da lì è andato via con loro, e il suo alibi è stato confermato. Quindi dev’essere stato qualcun altro. Ma nulla si trova. Tanto più, ci sarebbe anche il custode dello stabile che nega di aver visto qualcuno avvicinarsi al complesso. In sostanzam le possibilità che qualcuno possa avere ucciso Victoria Leeds in quell’appartamento, sembrano inesistenti.

Ben presto altre indagini si intersecano a questa: quella di uno strano incidente dell’architetto Muscleman, uno dei professionisti che erano stati incaricati di approntare il progetto del complesso abitativo, sfracellatosi al suolo cadendo dal terrazzo di uno degli stabili del complesso condominiale. Pare che lui avesse preso contatto, alcuni giorni prima della sua morte, proprio con Victoria Leeds. C’è un filo comune che unisce le due morti?

A queste 2 piste, si unisce un’altra ancora che ha per fine quello di separare il danneggiamento delle opere dalla morte di Victoria: e se queste fossero state danneggiate da altra persona? E in più vi è ancora un altro motivo di confusione: sia Marion che sua sorella Beatrice (Ba Ba) sono fissate di spiritismo, e in particolare Marion sostiene di aver avuto un dono, quello dell’arte in cambio del dolore che avrebbe causato a chi si fosse unito a lei: così le sue disavventure amorose. Pare che giustifichino questo strano patto “diabolico”. Il fatto è che Paul Volte si convince di aver ricevuto anche lui questo dono, e che il prezzo sia stato la morte di Victoria. Constance e Charlie devono quindi dimostrare che non sia lui il responsabile della morte della sua ex e che sia qualcun altro. Innanzitutto dimostreranno chi abbia danneggiato le opere e perché, chi sia stato ad uccidere Victoria, e che non sia la stessa persona. E che non c’entrano né Paul che Victoria.

Non si tratta evidentemente di una Camera Chiusa propriamente detta, perché manca il presupposto della chiusura dell’appartamento o dell’impossibilità che l’assassino sia potuto fuggire: infatti la testimonianza del custode non è detto che sia definitiva. Invece direi che si tratti di Delitto Impossibile: mancherebbero le condizioni per cui possa essere stato messo in atto.

La soluzione non è però relativa ad uno spostamento dei tempi (come in Hag’s Nook di John Dickson Carr o in Evil under the Sun di Agatha Christie, che vede l’inganno dell’assassino o della vittima), ma piuttosto può ricercarsi nello spostamento dei luoghi: come? A me pare molto simile la soluzione, se non addirittura derivata, rispetto a quella ideata da John Sladek in By Unknown Hand, il racconto con cui Sladek si affermò ad un importante concorso letterario inglese nella cui giuria sedeva nientepopodimeno che la stessa Agatha Christie: un detective (quindi un testimone oculare) vede la vittima entrare in una camera d’albergo, mentre lui è seduto nel corridoio di fronte alla porta (deve sorvegliare perché nulla possa accadere al padrone di casa); poi, quando irrompe in essa, trova la vittima strangolata, senza che l’assassino possa essere uscito da qualche parte. La grandezza di quell’opera, da noi completamente sconosciuta, sta nella sua sconcertante semplicità di messinscena, come del resto accade nell’opera della Wilhelm.. Entrambe le opere hanno una sola debolezza, che poi è l’unico indizio capace di indirizzare il genio deduttivo nella direzione esatta: nel racconto di Sladek, è una poltroncina arancione, su cui il testimone era seduto, che poi scompare; nel romanzo della Wilhelm, è un enorme mazzo di rose, che sarebbe dovuto essere trovato nell’ascensore privato dell’appartamento, dove era stato messo in bella vista lì, la stessa mattina, e che invece risulta essere scomparso, senza che nessuno possa averlo nel frattempo potuto toglierlo, visto che le chiavi elettroniche sono pochissime ed in mano di persone che hanno alibi di ferro. In sostanza l’apparizione di un corpo e la sparizione di un oggetto.

Per il resto, il ritmo del romanzo è lento nell’incedere almeno all’inizio, con argomenti che alla lunga, risultano poco in connessione diretta col delitto e pertanto appesantiscono inutilmente il plot, che risulta troppo complesso.  Poi, man mano che l’indagine procede, acquista ritmo, ma sempre piuttosto relativo, in rapporto soprattutto alle multiformi personalità dei personaggi, che non sempre hanno attinenza con il fatto in sè per sè. Di rimando, esse sono ben delineate e pertanto possiamo dire trattarsi di un mystery con movenze psicologiche, non eccessive, che risulta molto simile al racconto di Sladek: chi lo conosce, forse può capire dove io voglia andare a parare, chi non l’ha letto, dovrà invece procurarsi il libro della Wilhelm per capire cosa io voglia dire.

L’ambientazione iper-tecnologica distoglie però l’attenzione del lettore e non lo fa riflettere sulla possibile facilità di risoluzione: se da un lato, questo causa la sorpresa per la soluzione, essa risulta però come se cadesse dal cielo, senza che il lettore sia riuscito a collegare da solo i fatti, seguendo un filo logico ben definito.

 

Pietro De Palma

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Un Mystery firmato Stefano Di Marino

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Stefano Di Marino – Il Palazzo dalle Cinque Porte – Il Giallo Mondadori N.3100 del 23 febbraio 2014.

Ho sempre guardato con occhio severo alla partecipazione italiana al mystery, non perché sia “bastion contrario” per partito preso, ma perché, in passato, di originalità ne ho vista poca. Parimenti sono stato sempre attento al tono con cui parlarne, per rispetto nei confronti di chi scrive, avendo provato anch’io a scrivere e quindi avendo sperimentato quanto sia difficile farlo. Purtuttavia, ho sempre cercato di formare il giudizio improntandolo all’originalità della lettura.

Di originalità, nella fattispecie, non è che ce ne sia stata molta negli anni passati in opere di autori italiani, almeno in grado di impressionare, tranne qualcosa: mi ricordo soprattutto dell’opera prima di Giulio Leoni, Dante Alighieri e i delitti della medusa , che innovò il filone storico del Giallo (cominciato decadi fa da Josephine Tey e da J.D.Carr e rinverdito poi da Paul Doherty, Peter Tremayne e Ellis Peters) affidando il ruolo del detective ad un personaggio storico famoso; poi ci fu Lorenzo Arruga, famoso musicologo italiano, che tentò il Mystery di ispirazione musicale (tramontato dopo due tentativi); e anche il tentativo di Luceri (che mischiò il giallo d’atmosfera al gotico). Ma altri tentativi di innovare la letteratura poliziesca italiana non è che mi abbiano molto impressionato, tranne qualcosa della Baraldi, di Lucarelli e ovviamente di Camilleri. Oltre questi autori c’è Stefano Di Marino, che fa gruppo a sé, perché non a caso è il più grande e prolifico autore di letteratura di genere in Italia (. Del resto ho sempre detto, anche quando ci confrontavamo in opposte fazioni nell’ambito delle discussioni appassionanti all’interno del Blog Mondadori, soprattutto quattro-cinque anni fa, che è autore di razza, sapendo ben scrivere e raccontare. Tuttavia, non avrei mai pensato di leggere un suo romanzo mystery, seppure in un’ottica contemporanea, in quanto da sempre è autore versato all’Hard Boiled, al romanzo d’azione e alla Spy-Action. Segno che i tempi cambiano, e le posizioni granitiche non giovano a nessuno, come mi ha risposto in un post giorni fa.

Di Stefano ho molto poco a casa: soprattutto Segretissimi. Non mi piace molto l’action (mi stufa dopo un po’) soprattutto quella “tutta azione”: ecco perché i romanzi di Spillane, pur possedendoli quasi tutti, non mi piacciono. Mi piace molto di più l’Hard Boiled venato di sfumature, alla McCoy o alla MacDonald. Insomma mi piace tutto ciò che è classico. Tuttavia Stefano sa scrivere. Questa è la caratteristica sua peculiare: è un dono che ha. L’unica cosa che non mi è mai andata giù è che fosse diventato una sorta di apripista per tutta una serie di autori, che passavano per la nuova leva italiana, ma che sembravano a me ed ad altri (mi ricordo dei commenti di Fabio Lotti su Sherlock Magazine) solo dei suoi cloni; da ciò derivò l’avversione mia e di altri a quel tipo di narrativa (che  non escludo tuttavia che ad altri possa essere piaciuta)  che prese come esempio la trilogia di Montecristo e che imperversò anni fa per del tempo.

Ecco perché quel volume in edicola mi ha attirato: non è stato amore a prima vista, piuttosto si è trattato di un’attrazione fatale. E’ come se mi adocchiasse dallo scaffale e mi invitasse a prenderlo in mano. Poi non ce l’ho fatta più e l’ho acquistato; e ne sono rimasto incantato. Non credo che abbia letto negli ultimi anni, con maggior passione di questo, qualche altro romanzo di scrittore italiano che abbia scritto Gialli, tranne il primo romanzo di Giulio Leoni con protagonista Dante Alighieri ( Dante Alighieri e i Delitti della Medusa): un altro straordinario inizio.

Il famoso illusionista e studioso di storia arcana, Sebastiano “Bas” Salieri, è invitato a Venezia perché nominato erede del “Palazzo dalle cinque porte”, un palazzo antico di Venezia, che suo zio Mattia ha restaurato profondendovi energie e denaro per riportarlo all’antico splendore, lasciandoglielo poi in eredità, quando è morto in circostanze tragiche: nella darsena in cui stava facendo dei lavori, è morto bruciato. Anche il padre di Bas, Pietro, è morto in circostanze poco chiare durante una missione archeologica condotta assieme allo zio, il quale è stato sospettato da Bas di esser coinvolto nella morte del fratello.

Ben presto, sin dal suo primo apparire sul palcoscenico di Venezia,  Bas, ammesso in circoli culturali cui apparteneva lo zio, capisce di essere stato messo in mezzo ad un  piano di cui lui è il fulcro. Le persone con cui trattava lo zio (Zemanian, ricco mercante d’arte; Padre Pardi, un prete, direttore di un Centro Studi romeno; l’amante di Zemanian, Issa Zabulovna, medium e proprietaria di un laboratorio-deposito di costumi e maschere; i coniugi Loredan, lui nobile decaduto, lei, Rossana Chiarentin, proprietaria di una vetreria; lo stesso notaio Parisi; Ascanio Mirri, giocatore incallito e sfortunato) sembrano essere opposte le une alle altre o comunque non essere necessariamente amiche, ma tutte ben presto si rivelano appartenenti ad un medesimo circolo esoterico, una specie di setta occultista, il cui fine è quello di ricercare qualcosa che Mattia Salieri ha cercato non trovandolo. Ecco perché Bas è stato messo in mezzo ad un gioco che è più grande di lui: dovrà riuscire laddove lo zio non è riuscito.

Beninteso, nessuno obbliga Bas a prestarsi al gioco: potrebbe benissimo preoccuparsi di fare altro, o ereditare il palazzo e venderlo . Ma chi lo ha messo in mezzo, sa benissimo che non si sottrarrà al gioco, sempre che di gioco possa trattarsi. E giocherà. Innanzitutto trova una cosa che lo zio aveva vanamente cercato, un oggetto magico diabolico simile ad un sestante ma più complesso: a cosa mai servirà? E da uno degli appartenenti a quel circolo esoterico cui apparteneva anche lo zio, gli viene offerto (in vendita) un dipinto di tale Betto Angiolieri, oscuro artista del ‘500, raffigurante il palazzo in cui lui, Bas, abita: Il Palazzo dalle Cinque Porte (che poi ne ha quattro in realtà). La quinta infatti sarebbe una porta magica, una entrata alchemica, come quella esistente a Roma. Lui scoprirà che questo Angiolieri ha disseminato per Venezia, quarantatre raffigurazioni di quello che sembra un drago o comunque un serpente magico, che poi si rivela essere un Basilisco, secondo un ordine ben preciso, che deve condurre ad un certo luogo. Gli stessi  adepti della setta hanno adottato lo stesso termine in uso cinque secoli prima presso un circolo esoterico molto ristretto, cui appartenevano alcuni nobili e persino un doge dell’epoca : I Figli del Basilisco.

Non è un gioco. E c’è un male antico che sovrasta le azioni che si svolgono: Maddalena, un’amica di Bas, medium e studiosa di occultismo, dopo esser riuscita a mettere in guardia Bas, viene uccisa in maniera feroce, non senza esser riuscito a fornire le tracce, che solo lui potrà decifrare, per arrivare ad un testo che lei ha nascosto in casa sua: Il Compendium Arcani. Tramite questo tomo, Bas e un’altra sua amica e amante, Martina, nipote del notaio Parisi, riescono a comprendere come lui Bas, sia uguale nei lineamenti del viso ad un suo antenato, tale Radu Salieri, capitano di ventura e avventuriero romeno, che aveva rubato il segreto della cantarella, il veleno dei Borgia e aveva portato con sé il segreto di antico codice che sarebbe servito ad aprire il cosiddetto Oculum Diaboli, una porta per accedere all’Inferno, luogo di conoscenza, per chi ci crede.

Ben presto moriranno anche il notaio Parisi (avvelenato in una Camera Chiusa); la moglie separata del nobile Loredan, dopo aver cercato di uccidere Martina e Bas nel ritrovo antico di Betto Angiolieri racchiuso in una vetreria in disuso; Ascanio Mirri, dilaniato dalle eliche di un natante, quando stava per rivelare qualcosa a Bas; la stessa amante di Zemanian, caduta in una botola del suo laboratorio, aperta da non si sa chi; poi infine, laddove dovrebbe aprirsi l’Oculum Diaboli, anche vengono uccisi Zemanian, Pardi e Loredan: insomma una mattanza. Tuttavia al plot del Mystery si interseca un subplot, costituito dalle apparizioni del fantasma di una giovane donna, che prima appare solo a Bas poi agli altri, nel corso di una seduta spiritica, che chiama in causa diretta per la sua morte. Il fantasma apparirà per l’ultima volta proprio su un isolotto laddove avrà luogo il drammatico finale, molto gotico, in cui verranno dipanati molti misteri, tutti assieme, e appariranno per l’ultima volta, anche in vita, il maggiordomo di casa Salieri, Bepin, e l’amante di Bas, Martina.

Molte altre cose accadono nel corso di questo mystery che amalgama razionalità tipica del poliziesco deduttivo ad atmosfere sovrannaturali tipiche del genere fantastico.

Si è detto, lo ha affermato anche l’autore, che questo romanzo sia nato dai ricordi di tutti quegli sceneggiati e anche films, che lui aveva visto negli anni ’70. “La casa dalle finestre che ridono”, di Pupi Avati innanzitutto, mi pare che lui abbia citato da qualche parte (il finale del romanzo mi sembra ispirato dal finale del film, soprattutto dal colpo di scena, del prete che si rivela altra persona, come Bepin nel romanzo di Di Marino) e qualcos’altro di Bava tra i films, mentre tra gli sceneggiati è evidentissimo il numero di citazioni da “Il Segno del Comando” di Daniele d’Anza, a significare quanto sia stato importante nell’ invenzione del plot di questo romanzo: la reincarnazione di Radu Salieri in Bas Salieri (Forster-Tagliaferri in ISDC), l’apparizione del fantasma di Ludmilla Szaresku morta precedentemente (L’apparizione del fantasma di Lucia, modella del pittore Tagliaferri, in ISDC), una seduta spiritica in cui opera una medium, Issa Zabulovna (Lucia in ISDC); un negozio- deposito di costumi; dei nobili decaduti: qui I Loredan, in ISDC il Principe Anchisi; poi c’è un artista maledetto che nel romanzo di Stefano è Betto Angiolieri, mentre nello sceneggiato era Lorenzo Brandani;  un oggetto magico: qui una specie di sestante, nello sceneggiato proprio Il Segno del Comando, un medaglione; infine un bassorilievo che appare qua e là: in ISDC era una civetta, qui è un basilisco. Insomma i riferimenti sono tantissimi.

Tuttavia Di Marino non attinge solo dallo Sceneggiato RAI, Cult degli anni ’70, ma anche da altri: da “Ritratto di Donna Velata” (fantasma e reincarnazioni) a “I Compagni di Baal”, sceneggiato francese, soprattutto per la setta che si riunisce in grotte, e i cui adepti mascherano le proprie sordide ambizioni sotto la rispettabilità di ogni giorno. Vi sono altri riferimenti: il fantasma che entra anche nel finale, trasforma prepotentemente il romanzo poliziesco in un romanzo a metà tra il poliziesco ed il fantastico, ritrovandosi sulle orme di Carr: curioso che proprio Di Marino abbia copiato il famosissimo autore americano specializzato in camere Chiuse (tra l’altro la morte del notaio Parisi è in una Camera Chiusa dall’interno, risolta a parere mio non brillantemente: per spostare una chiave che è all’interno di una serratura ci vorrebbero delle pinzette molto sottili e così si lascerebbero dei segni sulla chiave, ma fare quello che dice Stefano è materialmente impossibile, a meno che ad imbrigliare la chiave non fosse un sottile filo di ferro. Ma anche in questo caso, la struttura non avrebbe quella sufficiente durezza che assicurerebbe la possibilità dall’esterno di manovrare la torsione riuscendo effettivamente a sortire un risultato: In questo caso si vede come Di Marino non sia avvezzo, a parer mio, alle Camere Chiuse!) , ma mi ricordo di aver letto in una sua intervista, che uno dei romanzieri che più aveva letto quando era giovane era stato Carr. Apparentemente potrei dire che il riferimento privilegiato a questo punto potrebbe essere The Bourning Court (La Corte delle Streghe ) in cui la vicenda sovrannaturale, corre al fianco di quella razionale; tuttavia a me sembra che se un lavoro di Carr egli possa aver seguito, potrebbe essere più di The Bourning Court ,

The Door To Doom , famoso racconto del 1935 in cui una figura simile al Comte de Villefleur, ucciso un secolo e mezzo prima, viene visto sul luogo del misfatto. Ma non vi è solo Carr: vi sono anche Milos Forman (l’Antonio Salieri contrapposto a Mozart) e persino Martin Mystere: come non confrontare le linee d’energia che attraverserebbero il pianeta terra presenti in molti fumetti di Mystere con le linee che simili a meridiani e paralleli attraverserebbero il pianeta determinando ai punti di convergenza i portali, che la specie di sestante è in grado di individuare?

Il quadro di Angiolieri che lo attira, a significare che nasconde qualcosa, mi ha fatto venire in mente una serie di telefilms della fine degli anni ’60, Wild Wild West, in cui in un episodio, i protagonisti venivano trasferiti nel  paesaggio di un quadro, ma soprattutto “La Tavola Fiamminga” di Perez Reverte, in cui in un quadro si nasconde un mistero. E lo stesso finale, mi ha in qualche modo fatto ricordare soprattutto un altro romanzo di Reverte, Il Club Dumas, in cui la storia è per certi versi simile (un codice che porta alla rivelazione di un segreto, nascosto nelle incisioni del Libro delle Nove Porte, in una trama che parla di Scienze Occulte e Magia Nera, e dell’apertura di nove porte con rituali satanici).

Ma sarebbe un errore dire che Stefano Di Marino abbia solo attinto dagli altri. NO. Stefano ha preso indubbiamente delle cose, inserendole però in un racconto affascinante, legandole mirabilmente in un affresco talmente vivido di Venezia, da far dimenticare che alcuni luoghi sono sicuramente inventati. Tuttavia, l’aver mischiato elementi inventati con altri reali, ha creato un luogo mitico, leggendario come quello della Roma misteriosa di Il Segno del Comando, in cui il Quartiere Monti è trasfigurato in un qualcosa che non esiste.

Per di più, Stefano Di Marino ha creato un romanzo che forse non sarà piaciuto a chi ha seguito le vicende di Montecristo, ma a me parecchio, soprattutto perché ben scritto: ricreando un ambiente fantastico, attraverso le inserzioni di riferimenti e personaggi e opere che in quel contesto sarebbero potute essere anche vere, e attraverso descrizioni così accurate da far nascere il sospetto che abbia mischiato abilmente contesti veri con altri immaginari,  forma un’opera assai ben scritta e con una tensione palpabile, che poi viene, man mano che ci si avvicina al finale catartico, accelerata. Essa è in funzione di due elementi ben distinti: l’uso di elementi acclarati (la nebbia, l’oscurità, la luna, la presenza di elementi sovrannaturali, tipo un fantasma, una seduta spiritica) per create atmosfere significative; l’uso di elementi stilistici per accentuare la tensione e il thrilling: all’interno della struttura dei paragrafi, i periodi vengono, in base alla tensione che si vuole ottenere, opportunamente accorciati, così da colpire nella loro essenzialità, come tante stilettate.

Indubbiamente Bas è lo stesso Stefano, o meglio quello che lui sarebbe voluto essere: sono sicuro che vi ha immesso dei particolari propri (come sempre si fa), che sono nella fattispecie caratteristiche legate al modo di vestire e di camminare. A pag. 24 si legge:  “..rimase sotto la doccia bollente, sinchè la pelle non fu rossa. Senza curarsi di asciugare i capelli, cambiò biancheria e indossò un paio di pantaloni scuri e una camicia cremisi fuori della cinta: Piedi nudi. In quel modo riusciva a cogliere meglio le sensazioni della casa”. Ora in una foto tempo fa lo stesso Di Marino si è fatto riprendere con una camicia cremisi addosso. Non ho visto il resto, ma mi sembra plausibile pensare che abbia immesso nel personaggio da lui creato un suo modo di fare. Il fatto di camminare a piedi nudi, per cogliere meglio le sensazioni della casa (attraverso il contatto col pavimento) mi ha fatto pensare del resto a Ivo Pogorelich, il pianista famoso parecchi anni fa, che utilizzava una specie di pantofole in raso per sentire materialmente il pedale del pianoforte e dosare più opportunamente la forza al fine di ottenere un effetto il più calibrato possibile nella resa del suono.

A Stefano piaceva o meno Pogorelich?

Mah, che a Stefano piacesse  o meno il pianista croato, è indubbio che abbiamo seguito gli stessi stimoli da giovani: a me piacevano da matti gli sceneggiati anni ’70, piace Martin Mystere, piace moltissimo Carr. Un bel giorno abbiamo cominciato a leggere altre cose, ma l’età e i ricordi sono simili.

Spero solo che questo non sia un romanzo isolato nella sua produzione narrativa.

Pietro De Palma

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Margery Allingham : OSCURI PRESAGI (Black Plumes, 1940) – Trad. Igor Longo – Il Giallo Mondadori N.3077 del marzo 2013

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Margery Allingham, una delle 4 Crime Queen,  è stata una delle grandi firme del romanzo poliziesco del ‘900. E non a caso. Infatti ha sondato vari sottogeneri nella sua lunga carriera: dal Giallo avventuroso al Whodunnit classico, dal Thriller alle Camere Chiuse, il tutto però con grande classe, e molta originalità, cosa propria di questo romanzo.

Che il vento potesse diventare quasi un elemento cardine di un romanzo poliziesco, non ce ne eravamo accorti.

Proprio il vento è l’elemento base del romanzo in cui mi accingo a parlare, OSCURI PRESAGI (Black Plumes, 1940): compare in tutti i momenti cardine della vicenda e col suo apparire scandisce il ritmo.

E proprio col vento incomincia il romanzo:  “Il vento autunnale aveva promesso pioggia per tutto il giorno e ora esitava sui marciapiedi umidi per scagliare nel suo folle volo una manciata di gocce sulle finestra della grande casa di Hampstead. Il rumore prodotto fu secco e sprezzante e andò ad interrompere il silenzio tra le due donne nel salotto dando quasi l’impressione di volerle insultare” (Cap.1 pag.7).

Le due donne sono Gabrielle Ivory e Frances Ivory, nonna e nipote: due generazioni a confronto: l’ottuagenaria Gabrielle vecchia nel fisico ma con la mente ancora sveglia e la ventenne Frances, fresca e ingenua, pronta ad innamorarsi ma anche a lottare. Non a caso due delle tre maggiori personalità del romanzo (l’altra è David Field) sono donne: questo è un vero e proprio romanzo delle donne! Quasi tutti i ruoli più importanti sono svolti da donne: Gabrielle, Frances, Phillida, l’infermiera di Gabrielle, Dorothy la segretaria. Gli uomini, hanno invece ruoli comprimari o quasi, tranne David che è l’eroe senza macchia e senza peccato, una specie di cavaliere dei tempi passati, che salva la donzella (Frances) dalle mire dell’orco di turno (Lucar). Ma fra le varie figure femminili, quelle che secondo me si stagliano maggiormente sono proprio Frances e Gabrielle. Non a caso il vento, insinuandosi e producendo un rumore secco, è come se imponesse all’attenzione del lettore le due figure: il rumore le separa, rompendo il silenzio che le accomunava e ne definisce i contorni; ma nel tempo stesso le unisce, differenziandole dagli altri soggetti che si agitando confusamente nella grande casa.

Gabrielle è la madre di Meyrich Ivory, gallerista, padrone della Galleria d’Arte al 29 di Sallet Square, un vero paradiso di collezionisti, dove si può acquistare la paccottiglia ma anche i capolavori dei grandi artisti. La galleria nel tempo ha avuto alterne vicende ma su di essa pesa una tragedia: Dollie Godolphin, famoso esploratore che aveva condiviso con Robert Madrigal e il suo attendente Henry Lucar, un viaggio nel Tibet alla ricerca di favolosi tesori in grado di riportare la Galleria ai fasti del passato, è scomparso. Pare che si sia sacrificato, infermo, impossibile ad essere trasportato, con un atto di eroismo personale, permettendo ai due compagni di salvarsi, abbandonandolo in mezzo alle nevi perenni. Quando Godolphin è partito, era il favorito di Phillida, ma dopo averlo aspettato invano e dato per morto, ella si è sposata proprio con Robert, diventato in breve tempo socio del suocero e suo finanziatore. M anche, in sua assenza, un pessimo dirigente. Il fatto è che, per di più, Robert è stranamente succube del suo segretario Lucar, un personaggio viscido e pericoloso, che tenta di approfittare del suo influsso fortissimo su Robert e dell’assenza del padrone della galleria, per sposarne la di lui figlia più giovane, Frances, nonostante lei lo rifiuti completamente. Perché mai Robert appoggia Lucar nel suo tentativo di sposare Frances e quindi tentare la scalata alla proprietà degli Ivory? Lucar ricatta Robert e lo tiene in suo potere in virtù di qualcosa di scottante che sa e che Robert non vuole si sappia:, per di più, per vincere la mera resistenza del marito di Phillida, Lucar ricorre a veri e propri atti intimidatori: distrugge all’ultimo momento il catalogo della Galleria approntato per la visita dei Reali, fracassa una preziosissimo vaso, e danneggia irreparabilmente un dipinto del giovane pittore David Field, protetto di Meyrich e in rapida ascesa.

David è il terzo personaggio forte della vicenda: è lui che salva Frances dalle mire di Lucar, simulando un fidanzamento agli occhi del mondo, che invece non esiste, tanto più che lui è refrattario alle unioni e ancor più ai matrimoni; tuttavia questa unione, che all’inizio è fittizia, diventerà vera in quanto lui riuscirà a conquistare il cuore della ragazza. Interessante è notare come, mentre Robert ed Henry sono legati fra di loro dall’odio e da un rapporto di sottomissione psicologica (del primo verso il secondo), ma tendono comunque a proporsi come soci della galleria, tentando di diventarne i padroni sposando le due figlie di Meyrich, essendovi riuscito uno e tentandovi il secondo, l’unico che non avrebbe voluto legarsi alla Galleria, impegnandosi sentimentalmente, cioè David, è proprio lui a farlo. Quando David e Frances si mettono d’accordo per gabbare Lucar, è sempre il vento a scandire la marcia: “E per tutta quella tragica giornata il vento fu un motivo ricorrente, come la tromba di una sentinella che tentava inutilmente di avvisarli mentre loro marciavano sordi verso il loro destino” (Cap.3 pag.21).

Poi, prima a pag. 31, riappare, tanto per concentrare l’attenzione : ” ..qualcun altro era dunque uscito nel buio e nel vento” (Cap.6).

Il vento anticipa il primo evento tragico: Robert scompare dopo una discussione con David.  Poi, ecco che il vento torna ad assalire la casa, quasi a portare altri lutti e disordini. Ma come un meccanismo a orologeria, mentre  viene ritrovato Robert, o meglio il suo cadavere, già in stato di decomposizione, in un vecchio armadio (occultato da soprabito, cappello, come se fosse stato per uscire e poi fosse stato sorpreso) in quella stanza che si affaccia sul giardino, dove era stato visto da Frances discutere con David,  ecco che  torna Dolly: “Il vento assalì di nuovo la casa, non con l’intensità di dieci giorni prima, ma con la stessa irritante intermittenza, come se un nemico in carne ed ossa stesse tentando di penetrare nella loro fortezza” (Cap. 9 pag. 64).

Il cadavere presenta una ferita profonda: qualcosa di tagliente e affilato, come un lungo tagliacarte, l’ha colpito tra le costole, raggiungendolo al cuore,  solo che l’arma non si trova.

Tanti i sospettati: David innanzitutto; ma anche Phillida, che alla morte del marito, esclama: “Grazie a Dio!” (Cap.4 pag.28); Gabrielle, che pur essendo invalida, si scoprirà esser buona a camminare da sola di notte; Lucar, che si è dato alla fuga e per questo sembrerebbe essere il colpevole acquisito; lo stesso Meyrick, che sarebbe potuto ritornare in incognito; e lo stesso Godolphin, che alla stessa maniera, sarebbe potuto ritornare prima ed uccidere il rivale: solo che questi due sarebbero materialmente esclusi. E allora?

A complicare le cose, è la scoperta che Phillida, prima di sposarsi con Robert, si era sposata segretamente con Godolphin, prima che questo partisse per la spedizione sfortunata, e che il testimone dei due sarebbe stato lo stesso Field.

Gabrielle è contraria che la nipote fresca vedova vada a finire a letto con un altro, anche se risulterebbe essere il suo primo marito; e così Godolphin e la vecchia, si accordano per un armistizio sotto il tetto della vecchia casa: se Godolphin riuscisse a scoprire il colpevole, potrebbe portarsi via Phillida.

Dopo il ritorno dell’esploratore, e soprattutto dopo quello di Lucar, che convoca i presenti nel salotto per una serie di messaggi, che egli vuol lanciare all’assassino, al fine di fargli capire che egli sa (e quindi coinvolgerlo in un ricatto), ecco di nuovo il vento che fa la comparsa, associato ad un altro evento delittuoso: “Si sedette in poltrona e Dorothea, imperturbabile nel suo vestito nero, rimase in piedi, a portata di gomito. Fu in quel momento che si accorsero che il vento aveva ripreso a soffiare. Le lunghe tende di broccato si gonfiarono alle spalle di Lucar, spinte dalla brezza gelida che entrava da uno stretto spiraglio dell’alta finestra a ghigliottina” (Cap.15 pag.107).

Tutte le volte che il vento compare, accade qualcosa: è come se fosse un messaggero di qualcosa, anche di sventura. Anche il riferimento alla ghigliottina a me non sembra casuale, in questo momento. E Lucar sarà di lì a poco trovato ucciso, alla stessa maniera di Robert, per mezzo di un’arma affilata e lunga, come uno stocco, ma di cui non v’è traccia.

Fra tutti i sospettati, parrebbe essere David il più classico dei colpevoli e per questo sarà anche fermato, dopo l’assassinio numero due.  Ma intanto il colpevole vero quando crederà di essere al sicuro, sarà smascherato ad opera dell’Ispettore Bridie, che per farlo, dovrà convincere i vari personaggi a rivelare il loro, per spiegare l’inspiegabile, e togliere di mezzo gli indizi falsi che non lo aiutano a risolvere l’enigma.

Romanzo estremamente affascinante. Margery Allingham attinge dalla grande tradizione classica il motivo del vento, annunciatore di sventure quando non di messaggi che non vengono interpretati nel giusto modo. La cosa interessante è che la Allingham, grazie ad un escamotage del tutto particolare, cioè paragonando di volta in volta il vento a persone od oggetti, col meccanismo delle similitudini, gli conferisce un’anima, facendolo diventare un vero e proprio personaggio al pari di quelli canonici altrimenti presentati nel libro. Un personaggio nascosto, ma con una importanza del tutto particolare, in quanto è proprio il vento a introdurre le varie sezioni, ad annunciare al lettore che qualcosa sta per avvenire: è come se fosse un campanello d’allarme. Altre volte si comporta però come se fosse un’estenzione delle altrui volontà, quando per esempio Frances e David sono sul tetto e lui cerca di scappare per sottrarsi ad un arresto ingiusto:  “Il vento aggrediva con avido nervosismo i loro vestiti e gli gettava fuliggine negli occhi” (Cap. 16 pag. 131).

Donando al vento un ruolo che altrove non avrebbe avuto,  non destinandolo a contribuire alla creazione dell’atmosfera, ma inserendolo nello stesso meccanismo dell’azione, Margery Allingham indubbiamente inserisce un elemento di grande originalità. Per altro, invece, il romanzo si manifesta come un prodotto acclarato di Mystery classico.

Innazitutto l’armadio in cui trova posto un cadavere: è un topos che si trova già in Mary Robert Rinehart (The Yellow Room),  in Rufus King (Murder by the Clock), persino nei fratelli Shaffer (The Woman in the Wardrobe), anche se dopo l’uscita di questo romanzo.

E anche la presenza del gong, ci rimanda a tanti romanzi famosi  dell’età d’oro del giallo: da quelli di Sax Rohmer  ad Agatha Christie (And Then There Were None), da Ngaio Marsh (A Man Lied Dead) a Christopher Bush (The Case of the Chinese Gong).

Un’altra caratteristica interessante è come contribuisca all’atmosfera, anche la casa in sé, testimone, come la vecchia Gabrielle, dell’eredità dell’età vittoriana, con i suoi mobili, le sue tende, i suoi broccati, i suoi quadri: un insieme di orpelli che, appesantendo l’atmosfera, rendono anche tangibile e stridente il contrasto tra il vecchio ed il nuovo, tra Gabrielle e Frances  (e David).

copertine gialli blog 032E’ infine interessante sottolineare  ai neofiti  come  questo romanzo non è un inedito tradotto per l’occasione, come potrebbe parere ai più: niente di più falso! Sebbene pochi lo sapessero, l’opera della Allingham era già stata tradotta da CELT di Piacenza nel 1966 col titolo “Le ali della morte”: volume introvabile, è bene dire, ma qualche collezionista come me lo possedeva già.

Pietro De Palma

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Peter Lovesey : Un fantasma per Cribb (A Case of Spirits, 1975) – Trad. Mauro Boncompagni – Il Giallo Mondadori N.2773 del 2002

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Di Peter Lovesey abbiamo già parlato in occasione di Il Signore dell’Enigma. Oggi parleremo di un altro suo romanzo, Un fantasma per Cribb (A Case of Spirits, 1975), che vinse nel 1987 il Prix du Roman d’Aventures col titolo francese  Le Médium a perdu ses esprits.

A differenza del precedente che vedeva in azione Peter Diamond ed era ambientato nel tempo contemporaneo, questo vede in azione due altri personaggi  ricorrenti di Lovesey: Il sergente Cribb e l’Agente Thackeray.

L’azione è spostata indietro nel tempo, nell’ Inghilterra di fine Ottocento.

Peter Brand è un giovane medium, introdotto nell’aristocrazia inglese, in continua ascesa per popolarità, da quando ha partecipato in casa di Sir Harley Bratt ad una seduta spiritica, nella quale si sono verificati delle manifestazioni che hanno indotto i presenti, persone non suggestionabili, a parlare in giro dei poteri del giovane. Sia la Signorina Laetritia Crush, aristocratica, che Henry Strathmore, noto craniologo e per di più membro della Società Occultistica, ritengono di essere alla presenza non di un ciarlatano, bensì di uno straordinario medium. Tuttavia, vi sono state delle circostanze, indirettamente legate all’attività di Brand, che hanno richiesto l’interesse della polizia: sia in casa della Sig.na Crush, che in quella del dott. Probert , noto fisiologo dell’Università di Londra, in cui Brand si è esibito nella sua specialità, sono avvenuti degli strani furti: nella prima è sparito un vaso di valore assolutamente irrisorio, da una collezione che invece annoverava pezzi di valore decisamente superiore; nella seconda è sparita una tela, raffigurante una ninfa nuda, di un noto pittore, un quadro che per il soggetto e per la posa, era celato sotto un tendaggio, e di cui ignoravano l’esistenza sia la moglie che la figlia: insomma un passatempo lubrico, da recuperare, ma la notizia del cui furto un personaggio noto non può arrischiarsi di rendere pubblico, in una società come quella vittoriana.

Ecco perché si rivolge all’Ispettore Jowett di Scotland Yard, perché lo aiuti nel recuperare la tela.  A sua volta, tuttavia, quest’ultimo passa la palla delle indagini vere e proprie al Sergente Cribb assistito dall’Agente Thackeray.

Dalle indagini, risulta che mai e poi mai Brand avrebbe potuto rubare il vaso, proprio perché il medium ha una conoscenza non indifferente dell’antiquariato e se fosse stato lui a compiere il furto, certamente non avrebbe sbagliato nel sottrarre un vaso di valore assai modesto se confrontato a quelli inestimabili lì vicino.

Quindi, qualcun altro deve essersi macchiato di quel crimine, ma sicuramente la circostanza della presenza di Brand lì, proprio nei luoghi dove poi sono avvenuti i misfatti, suggerisce di approfondire le indagini, tanto più che ad un’ennesima esibizione del medium, alla quale sono presenti Jowett, Cribb e Thackeray insieme ad altra gente, la presenza di un paio di manette in una busta provoca in Brand una reazione di paura, tanto da suggerire a Cribb e Thackeray un supplemento di indagine.

Tuttavia sia Strathmore sia la Signorina Crush si dicono assolutamente convinti della buona fede del medium, tanto più che Brand rivela delle cose riguardanti uno zio della Crush, lo zio Walter, di cui nessuno all’infuori di lei sa qualcosa, tanto più che è morto, e di cui lui assicura la beatitudine nel luogo dove ora vive.

Perciò viene organizzato a casa dei Probert, un’ulteriore seduta spiritica, proprio da Strathmore in cui Brand sarà chiamato non solo a mettersi tramite il tavolino in contratto con uno spirito ma anche a far sì che si materializzi. La seduta spiritica si compone di due parti distinte: la prima in cui si tenta la materializzazione di qualcosa, ma il medium è collegato, mediante la catena delle mani intorno ad un tavolino, ad i presenti che sono: la Sig.na Crush, la Sig.na Probert figlia del medico, l’ispettore, il medium, il fidanzato della Sig.na Probert,  Sig. Nye ed Henry Strathmore. Durante la seduta si sentono rumori, poi qualcuno avverte una certa presenza nella stanza, ed improvvisamente viene vista una mano fluttuante nell’aria, poi sia la Signorina Crush che Alice Probert dichiarano che quella mano (che pensano sia dello zio Walter, noto bontempone) le ha sfiorate se non toccate, e quando William Nye insorge contro chi, seppure dell’altro mondo, sta toccando la fidanzata, delle arance vengono lanciate contro di lui, anche se non colpiscono solo la sua faccia ma anche un vaso di crisantemi. Fatto sta che la seduta viene interrotta, Brand con spirito cavalleresco, pulisce col suo fazzoletto la mensola del camino bagnata dell’acqua proveniente dal vaso di crisantemi, poi, dopo un po’ comincia la seconda parte in cui avverrà un esperimento mai tentato prima: per avvalorare la serietà della misurazione e la schiettezza del risultato, e per tentare una materializzazione completa dello spirito, è stata preparata una misurazione che coinvolgerà l’energia elettrica, da poco introdotta per uso domestico a Londra, e solo in determinati ambienti signorili: un trono avrà ai due bracci laterali avvitati a ciascuno due poli collegati a garzine imbevute di una soluzione salina; sarà proprio Peter Brand, lì assiso, a fare da tramite all’energia elettrica e chiudere il contatto; ovviamente un trasformatore ridurrà la corrente ad una 20 volts sufficiente a produrre un lievissimo pizzicore, ma un galvanometro collegato al circuito assicurerà con le sue continue misurazioni, che il medium resti seduto, non tentando quindi operazioni fraudolente che possano alterare la serietà dell’esperimento.

L’esperimento comincia e tutto va bene all’inizio. Poi ad un certo punto entra in casa Eustace Quayle, noto studioso di fenomeni occultistici e anch’egli conoscente di Brand, che è sospettato di aver commesso i furti nelle case. In occasione del trambusto, qualcuno rovescia una ciotola con la soluzione salina sul tappeto, su cui è posto il trono su cui è assiso Brand, e su cui posano i piedi del medium; la corrente viene tolta, poi viene rimessa, poi…quando si riva a trovare Brand lo si trova morto stecchito, anzi fulminato, dice qualcuno. Il fatto è che apparentemente non si capisce come possa essere morto: l’unico indizio che sia stato attraversato da corrente ad alto voltaggio, è la posizione contratta di una mano attorno al bracciolo, i capelli ritti in testa e le labbra scoperchiate, in una posa come digrignante i denti.

L’autopsia rivelerà numerose fratture derivate dalla contrazione terribile dei muscoli e la morte certa: in sostanza, non si sa come, quello scranno è diventato una sorta di Sedia elettrica ante litteram. Non si trova nulla che possa aver provocato la morte, e anche se Brand stesso avesse toccato il polo positivo del trasformatore, situato dietro alla sedia, avrebbe dovuto allungarsi ben oltre la distanza consentitagli, neanche fosse stato un gorilla. Insomma non si capisce come egli sia morto, tanto più che il trasformatore è perfettamente funzionante.

Le indagini di Cribb e Thackeray rivelano tuttavia come tutti i presenti chi in un modo chi in un altro avessero motivi per desiderare la morte di Brand, e tutto ciò perché egli non era altro che un vile ricattatore ed un ciarlatano: avendo saputo di essere figlio illegittimo della Sig.na Crush e avendo visto la figlia di Probert posare completamente nuda davanti ad un pittore, mentre la famiglia sapeva che la figlia era impegnata in attività di beneficenza, Brand aveva ricattato più persone perché confermassero le sue qualità di medium e lo aiutassero a frodare gli astanti durante sedute spiritiche appositamente allestite.

In uno spettacolare finale, Cribb dimostrerà la morte di Brand per assassinio, come Brand fosse riuscito a inventare un modo praticamente unico per materializzare uno spirito, usando talco, una camicia da notte e della fluorite, senza interrompere il circuito elettrico, e come l’assassino possa aver utilizzato il trucco di Brand per ucciderlo a sua volta. Lo farà in un triplo finale, accusando prima uno, poi un altro ed infine inchiodando il terzo dei presenti alle sue responsabilità, in un crescendo di tensione.

Ci troviamo dinanzi ad un altro bellissimo romanzo, non c’è che dire! Noto tuttavia una certa differenza rispetto a quello recensito precedentemente, forse anche in virtù del luogo e del tempo scelti per ancorarvi la storia: è come se Lovesey avesse mutato la qualità della sua scrittura e delle descrizioni al diverso tempo. In altre parole, si percepisce immediatamente, nella lentezza con cui procede l’azione, come la storia sia ambientata in un altro tempo: almeno nel caso mio, quando leggo un romanzo ambientato nell’Ottocento, soprattutto inglese, di marca vittoriana, provo un certo spaesamento e noto un certo rallentamento nei ritmi delle azioni. Ancor più quando si tratta di un romanzo Giallo, in cui la tensione narrativa gioca una certa parte. Però, man mano che l’indagine va avanti, seppure stancamente, in quanto non si riesce a capire se e perché si voglia per forza catalogare la morte del medium come assassinio non essendovi prove che essa sia appunto ciò, l’interesse aumenta, in virtù di un pazientissimo dosaggio di indizi:

innanzitutto una foto pornografica trovata nel portafoglio del falso medium, con una serie di numeri e un quadratino disegnato; come essi potessero intesi da una persona analfabeta come Brand ma estremamente ingegnosa  come il modo per ricordare un indirizzo; come l’indirizzo fosse quello di una delle persone coinvolte; come essa fosse legata a lui, come altre, da certi tipi di legami; come egli avesse concepito una serie di ricatti; come durante la prima parte della seduta spiritica per materializzare una forma di mano (in realtà la sua cosparsa di fluorite) egli avesse interrotto la catena e quindi nel momento che almeno una persona che a lui fosse stata collegata aveva gridato alla bontà dell’apparizione, significava che fosse stata sua complice; ed un’altra ancora lo fosse stata, per aver gridato come fosse stata toccata da una mano. Insomma vi è un crescendo situazioni che legittimano un gran finale, che innalza improvvisamente il livello della tensione narrativa fino ad un climax inarrestabile, visto che prima viene inchiodato Probert, poi sua figlia, poi…l’assassino. E in cui Lovesey attraverso il suo personaggio Cribb, finalmente chiarisce come il povero (un gran fetentone in realtà!) Brand sia morto, non in virtù di un oggetto che c’è ma di uno che manca dalle sue tasche  e che invece ci sarebbe dovuto essere. Oggetto assolutamente insignificante, ma che la qualità dell’invenzione narrativa di Lovesey rivaluta per la prima volta credo, nella storia della letteratura poliziesca, in quanto arma mortale.

Per di più le descrizioni di Londra, e degli ambienti occultistici, il ricreare la moda dello spiritismo tipico della fine Ottocento inizio Novecento (ricordiamo che per esempio Conan Doyle fu un famoso studioso dell’occulto e di spiritismo) fà del romanzo un’autentica perla, così come le descrizioni delle prime macchine per generare energia elettrica. Insomma il romanzo ci immerge in un’atmosfera vera, come se per un momento anche noi appartenessimo a quel mondo e ci dedicassimo alle stesse incombenze.

La caratteristica maggiormente indicativa della qualità narrativa di Lovesey, mi sembra però il riuscire a spezzare il greve grigiore che una certa ambientazione d’epoca può produrre, quasi il bianco nero di una pellicola muta, con degli sprazzi di umorismo e di dissacrazione: la foto pornografica delle modelle inizio secolo; la Sig.na Laetitia Crush, rispettabilissima lady vittoriana, amica dei Probert, che nessuno sa essersi concessa più volte ad un vetturino taccagno e di qualità morali ben al di sotto (sembrerebbe, ma poi non è vero) delle sue, nella sua angusta carrozza, invece che su un letto profumato;  il Dottor Probert, membro della Royal Society, rispettato per le sue virtù morali, che nessuno sa doversi concedere visioni lubriche (come oggi vedere un film porno) di quadri con modelli femminili in pose e situazioni discinte, essendosi sposato ad una moglie (dice lui, “di una noia…”); la moglie, Winifred Probert, che mentre il marito si concede i suoi piaceri e le sue occupazioni, si incontra furtivamente e di nascosto in camera sua con il Dottor Quayle, vecchio suo amico e compagno di sbronze (e di altro !); infine la figlia Alice, fidanzata all’integerrimo Nye, che dice essere impegnata in attività di beneficenza ed invece si presta ad essere ritratta completamente nuda. E Nye infine che non sapendo nulla (felice e cornuto!) ma sospettando qualcosa, segue la fidanzata e finisce non per sorprendere lei, ma il povero agente Thackeray mandato da Cribb a pedinarla, appeso alla grondaia, che non vuol dire cosa abbia visto (le chiappe allo stato evitico di Alice) e perciò per cavalleresco onore si becca un pugno nell’occhio da Nye, che lo ritiene un guardone.

Insomma situazioni da feuelliton che spezzano l’azione quando è o sembra troppo snervante e donando qui e là delle pause, la rendono più frizzante.

Per di più, la soluzione è veramente straordinaria. Non è un delitto impossibile, ma il trucco inventato da Lovesey /Brand e sfruttato dall’assassino dimostra ancora una volta una ineguagliabile ricchezza di immaginazione: in un certo modo mi ricorda The Black Spectacles di John Dickson Carr: come una persona sarebbe dovuta essere in un posto ed invece  trovarsi altrove, pur convincendo gli astanti di non essersi mossa dal suo scranno. Anzi secondo me, proprio questo romanzo di Carr è il trampolino da cui Lovesey può aver preso le mosse!

Pietro De Palma

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Jonathan Latimer : Destinazione Sedia Elettrica (Headed for a Hearse, 1935) – trad. Bruno Tasso – Serie Gialla Garzanti “Le tre scimmiette” N. 54 del 1955 – I Classici del Giallo Mondadori N.726 del 1994

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Nella cella di destra, un uomo piangeva ancora. Era ormai il tramonto, e lui piangeva da mezzogiorno. Piangeva adagio, con brevi singhiozzi insistenti e strazianti, senza speranza e senza convinzione, come un bambino atterrito nella notte.

Nella penombra della sua cella, nella casa della morte, Robert Westland lo ascoltava. Senza questi singhiozzi, il crepuscolo sarebbe stato pieno di dolcezza. Le tenebre si andavano facendo rapidamente più fitte, come se qualcuno ricoprisse di veli di mussola una lanterna magica; la penombra aveva già cancellato le sbarre della cella, aveva già spento il riflesso di porcellana sudicia dello sciacquone scoperto. Dopo un poco, l’uomo della cella vicina smise di piangere e annusò l’aria, attentamente e rumorosamente, come un cane raffreddato. Ci fu un momento di fragile silenzio, poi egli mormorò:” Non voglio morire! Gesù, non voglio morire!”(op.cit. pag. 5)

Così comincia, il memorabile romanzo di Jonathan Latimer, Headed for a Hearse.

Pubblicato nel 1935, il romanzo, seguito nello stesso anno da un’altra opera storica dello stesso autore, Murder in the Madhouse ( 1935 ), è un ottimo esempio di quella che viene definita “la Commedia Nera”, invenzione stilistica di Latimer, con cui fuse l’Hard-boiled della scuola dei duri, col Mystery, e con una vena talora estremamente dissacrante. Non si può infatti dimenticare la terza opera veramente memorabile di Latimer, ossia The Lady in The Morgue, in cui l’Hardboiled americano viene ridotto ad una parodia, molto nera e talora anche grottesca.

E’ da dire comunque che Latimer, nato nel 1906 a Chicago, da giovane si fece le ossa come reporter di cronaca nera, e negli anni del proibizionismo e dei gangster, Latimer, che aveva conosciuto personalmente Al Capone e Bugs Moran, si fece ben presto conoscere per la sua facilità di scrivere, per la capacità innata di narrare. Successivamente affinò questa sua peculiare caratteristica scrivendo i discorsi per il Segretario si Stato Harold Ickes.

Nel 1935, inaugurò la carriera di scrittore, con il romanzo Headed for a Hearse (Destinazione sedia elettrica) accolto in modi entusiastico. A questo primo romanzo, seguirono altri romanzi fino allo scoppio della II Guerra Mondiale in cui lui, arruolatosi, combattè in marina.

Latimer, parallelamente alla carriera di scrittore, come era in uso in quegli anni, affiancò anche quella di sceneggiatore per il cinema, diventando uno dei più quotati. La sua ultima sceneggiatura fu quella del 1972 per l’episodio “Il terzo proiettile” (“The Greenhouse Jungle“) della serie “Colombo” con Peter Falk.

Morirà nel 1983, dieci anni dopo la decisione di cessare l’attività narrativa, per un tumore.

Da ricordare è anche il fatto che all’inizio degli anni ’40, diventò vicino di casa, in California, del suo migliore amico, Raymond Chandler.

Robert Westland è condannato a morte per un delitto che non ha commesso. Dopop aver ricevuto una lettera in cui un tale M.G. gli scrive che lui sì che potrebbe evitargli la sedia elettrica essendo stato testimone di quello che è accaduto la notte che è morta la moglie di Westland, cerca di corrompere il direttore del carcere, promettendogli diecimila dollari se farà in modo che lui possa salvarsi. Joan è stata trovata nella sua camera d’albergo, con la porta chiusa a chiave, uccisa da un colpo di pistola alla nuca. Il bello è che il proiettile rimanda ad una Webley, una pistola inglese che Robert possiede da quando ha militato nell’esercito inglese. Solo che questa pistola non si trova. La serratura della porta aveva due sole chiavi che l’aprissero: era un serratura speciale: una chiave si trovava nella camera d’albergo, la seconda era in possesso di Robert. Per cui la polizia ha pensato che…

Ma nel caso Robert non fosse stato, ci troveremmo dinanzi ad una Camera Chiusa. E’ in effetti tale. Bisogna spiegare come ha fatto l’assassino a commettere il delitto e poi ad inscenare che ad uccidere sia stato un altro, cioè come ha fatto a chiudere la porta se le chiavi erano solo due.

Il bello è che Robert ha ammesso davanti alla corte che fino ad una certa ora della notte è stato in camera con la moglie, che due coniugi hanno sentito di notte uno sparo, che nessuno avrebbe motivo di sbarazzarsi di lui, neanche i suoi soci Richard Bolston e Ronald Woodbury; in sostanza scagiona dal complotto a suo danno sia la fidanzata cui andrebbero i due terzi del suo patrimono sia il cugino Lawrence, che riceverebbe il restante terzo: eppure il suo patrimonio ammonta a trecentoquarantamila dollari; inoltre si può pensare che lui invece avrebbe avuto motivo per eliminare la moglie, visto che ha un’altra relazione sentimentale: il fatto è che il loro divorzio era ormai fissato, anche se la sera dell’omicidio, qualcuno che parlava come se fosse stata Lou, cioè la sua fidanzata, lo aveva spinto ad andare dalla moglie dalla quale vi era stata una lite terribile tra i due coniugi separati. Insomma tutto gioca contro Robert, ma c’è un punto: è stato condannato a morte sulla base di una presunzione, che la pistola che ha ucciso Joan fosse proprio la sua, ma intanto non si trova. Per di più prima che si recasse dalla moglie, Westland aveva ricevuto una telefonata da una donna che gli è sembrato facesse il suo meglio per copiare la voce di Lou senza riuscirci.

Il direttore gli procura un avvocato, Finklensten, che si mostra convinto dalla deposizione di Robert: gli procurerà il miglior poliziotto privato d’America, William Crane, perché trovi le prove che lo possano scagionare. Le dovrà trovare solo in quattro giorni, perché quattro giorni mancano alla esecuzione sulla sedia elettrica per Robert Westland.

Il misterioso testimone che si firma M.G. è identificato come Mamie Grant, un amico durante il proibizionismo di Al Capone: ha un locale, ed è là che Crane e Lou lo trovano, solo che qualcuno, davanti a loro, lo fa fuori. Devono quindi cominciare tutto daccapo.

Martedì fanno visita all’appartamento teatro della tragedia, ma lo trovano occupato: l’amministratore dando oramai per spacciato Westland anche se l’appartamento è ancora a lui affittato e quindi contiene le sue cose, l’ha dato ad abitare alla sua amichetta, un’attrice di varietà, Miss Hogan, che si dà a chi ha abbastanza “grana” per mantenerla. Ma anche nell’appartamento, per quanto girino ed esaminino, non trovano nulla. E anche martedì è passato. Anche se di sera, Crane va a trovare un suo amico, il Tenente Strom della Polizia di Chicago, al quale chiede di vedere se qualcun altro, in quell’affare, risulta tra i presenti e comunque gli interessati a che Westland fosse condannato a morte, risulti qualcuno che abbia una fedina penale macchiata.

Intanto i giorni passano (la vicenda si svolge nell’arco di quattro giorni, è bene rammentarlo ancora!) e accadono molte cose: innanzitutto qualcuno da una macchina in corsa spara una raffica di mitra all’indirizzo di Crane e Doc Williams, il suo socio, mancandoli per poco. Poi qualcuno simula un incidente stradale ed elimina Amos Sprague, capo-ufficio dell’agenzia di borsa di Westland. Perché è stato ucciso? Simmons, il maggiordomo di Westland, messo alle strette, rivelerà che prima di morire pare che dovesse avere una trattazione d’affari con Woodbury, uno dei soci di Westland. Crane si convince che c’è qualcosa di poco pulito nella gestione dell’agenzia, quando, analizzando a fondo certi titoli posseduti dalla moglie di Westland e rinvenuti in cassaforte, ci si rende conto che sono o fasulli o addirittura rubati nel corso di rapine a furgoni postali.

I giorni passano, gli indizi aumentano, ma non c’è nulla di concreto a favore di Westland. Intanto però miss Hogan ha lasciato l’amministratore e “la dà” all’avvocato Finklensten: la bella fanciulla a Crane piace da pazzi, e una sera che hanno fatto una rimpatriata a casa dell’avvocato, Crane si ubriaca e si ritrova la mattina dopo nel letto della bella Hogan, con un suo pigiama. Insomma per dirla breve lui ci prova ma si ritrova con in labbro morso dalla caliente Myrna che però gli lascia intendere che se lui avesse “la grana” lei abbandonerebbe in men che non si dica l’avvocato e andrebbe con lui e lo farebbe anche con piacere, perché Crane gli piace.

Tutto ciò non c’entra nulla con la trama però la rende più frizzante e stempera parecchio l’opprimente cappa che grava sulla storia. Fatto sta che però Crane ha un motivo in più per salvare Westland: sa che almeno tutti i soldi che avrà se riesce a dimostrare che quello è innocente, li potrà spendere con la bella Myrna.

I tasselli del puzzle cominciano ad andare al loro posto quando Westland gli rivela che nel sottofondo della telefonata la falsa Lou, lui aveva sentito come un rumore di acqua che scoscia, come le cascate del Niagara. Stabilito che la telefonata era partita effettivamente dalla casa di Lou, vi si recano tanto per scoprire che il filo della linea telefonica è stato tagliato e da lì è stata creata una derivazione non controllata. Seguono il percorso del filo telefonico sotto lo sguardo attonito della madre di Lou che continua a ripetere come nessuno mai che fosse esterno era mai entrato da loro eccetto degli operai della linea telefonica chiamati per correggere delle seccature. Ecco questo è un altro problema: perchè la madre aveva chiamato un operaio, ma invece ne sono arrivati due. Il secondo cosa è andato a fare e per di più il giorno della morte della signora? E’ stato lui ad imitare la voce di Lou? E perchè si sentiva il rumore di una cascata nel sottofondo?

Crane intravede la soluzione e capisce anche dove può essere andata a finire la pistola di Westland che nessuno trova, o almeno lo pensa. Ingaggia un automobilista e gli fa fare tutte le possibili strade che possano essere fatte per arrivare allo studio di Westland passando vicino al fiume; poi individuata la via meno trafficata e l’unica in cui non vi sia il controllo di poliziotti, sotto lo sguardo attonito di Williams che pensa che il collego sia impazzito del tutto, compra dal taxista una chiave inglese e la fa lanciare dalla macchina in movimento nel fiume, si segna il punto dove ha lanciato la chiave inglese, poi affitta un battello ed un palombaro solo per recuperare la chiave inglese e qualsiasi altra cosa che sia rinvenibile, delle dimensioni di una chiave inglese, nella melma. Così viene recuperata una pistola, una Webley inglese con tanto di targhetta intesta a Robert Westland, con un grado di ruggine compatibile con la permanenza in acqua da almeno sei mesi (tanto è il tempo passato dalla morte della moglie di Robert), ma ancora in grado di sparare. Tuttavia, senza che si possano comparare i proiettili sparati da quella pistola con quello che ha ucciso la vittima, non si potrà confermare che quella pistola abbia sparato. Ma Crane ha un’altra pista da seguire: si fa dire quali società che vendano armi possano avere venduto a qualcuno una Webley, che non è un’arma comune in America; e così riesce a d arrivare ad una società che dice di aver venduto ad un certo Brown una partita di armi europee diverse tra cui una Webley. Sia il direttore della società che l’impiegato che si è occupato materialmente di far provare le pistole ed in particolare la Webley al misterioso compratore, lo associano ad una delle quattro foto propostegli da Crane. Inoltre, saputo che i proiettili sparati dalle pistole, ed in particolare da quella Webley, non sono stati recuperati e giacciono nella sabbia dietro ai bersagli, Crane inaugura una specie di caccia al tesoro: dichiara di pagare cento dollari per ogni proiettile sparato da quella pistola che l’impiegato riesca trovare nella sabbia.

Riuscirà così a dare un volto al misterioso assassino, a spiegare come abbia fatto ad uscire da una stanza chiusa, a spiegare il perchè e chi abbia fatto la misteriosa telefonata, a illustrare il movente dell’omicidio, e se l’assassino abbia agito da solo o con una complicità e di chi, e infine a spiegare anche il mistero dei titoli rubati o fasulli. E potrà anche andarsene in vacanza a godersi i soldi guadagnati con la bella Myrna, sapendo che potrà vederla finalmente al naturale e non solo intravvedendone le forme senza reggiseno al di sotto di un pigiama di seta, così come aveva fatto la mattina seguente alla sbornia.

Il capitolo finale è un ritorno nel braccio della morte, da cui Robert è stato separato per le due ore finali della sua vita, nel corso delle quali Crane davanti alle autorità ha risolto il mistero: questa volta è però una recita, una mesta recita che deve impersonare ad uso dei suoi compagni, condannati come lui a morte, e che non devono sapere che lui si è salvato: sia Connors, un gangster che ha eliminato i Canzonieri, sia l’ebreo Varecha, affronteranno il loro destino finale, cambiando il loro atteggiamento: il primo insofferente alla religione, si inginocchierà; il secondo, debole tanto da aver tentato di suicidarsi per scampare alla sedia, troverà la forza per andare al patibolo.

Straordinaria opera prima, realizza già in questa sua prima tornata quello che sarà il leit-motiv di tutta la produzione di Latimer: evolvere la struttura narrativa dell’ Hardboiled americano, svincolandolo dalla ripetitività delle situazioni oramai diventate tipiche del genere (la femmina fatale, bella e sfuggente, i mascalzoni, assassini spietati meglio se gangsters, sbornie colossali e fumate continue, atmosfere grigie, e tutto un sottofondo che non è mai a colori come nel romanzo Mystery ma in bianco e nero, come nella tradizione del Noir, scazzottate, omicidi a ripetizione, violenza e nessun enigma classico: insomma tanta ma tanta azione, romanzi che si leggono in un niente perchè sorretti da un ritmo notevole, ma in cui l’elemento deduttivo manca se non del tutto, quasi), e quindi donando una freschezza che oramai tutte le opere del genere hard boiled non avevano più. In sostanza è come se preparasse un cocktail, che tanto piacciono agli autori polizieschi americani del tempo (mystery e hardboiled) tutti gran bevitori: invece di quello a base di gin con il quale Crane si sbronza a casa della bella Myrna, ottenuto mischiando gin, seltz e limone, Latimer ne fa uno narrativo, mischiando una bella dose di azione tipica dell’Hard boiled con un’altra bella dose di enigma deduttivo e completando il tutto con battute dissacranti, umoristiche e con una storia d’amore e sesso che non guasta perchè stempera l’atmosfera plumbea del condannato che vede approssimarsi l’attimo in cui gli metteranno gli elettrodi e gli daranno la scarica. Il tutto a formare la Commedia Nera americana che i critici riconosceranno esser stato lui il primo ad inaugurare ( e che poi ha avuto altri esponenti direi soprattutto in Pronzini e Westlake).

Innumerevoli i motivi di interesse di questo romanzo.

Innanzitutto, c’è una componente hard boiled molto accentuata: la sparatoria con cui viene eliminato Mamie Grant, il tentato omicidio di Crane e del suo amico Doc Williams (il killer che abbassa il finestrino e spara una sventagliata di mitra) per strada, i metodi molto convincenti usati dai due scagnozzi rimediati da Crane e messi a disposizione tramite Westland dal suo compagno di cella vicina, Connors, uno che si era opposto ad Al Capone: questi due torchiano un tale che sarebbe dovuto essere uno di quelli che hanno sparato dall’auto in corsa, e lo fanno con uno spremi limoni con cui gli spremono una mano, dopo averlo gonfiato di botte.

Poi c’è una storia d’amore disperata tra Westland e Lou Martin, ed una invece che Crane vorrebbe che nascesse (“tra un grande poliziotto privato ed una grande peripatetica”, come dice lui in un inciso).

Infine c’è l’enigma più tipico del whodunnit, anni ’30, la Camera Chiusa. Infatti l’unico che avesse le altre chiavi della porta d’ingresso era lui, e le chiavi della moglie son state trovate dentro la casa. Come si vede, si tratta, a ben vedere di una Camera Chiusa, un po’ inusuale: si è tentati a pensare che non lo sia, perché l’accusa ha dimostrato che non poteva essere altri che proprio Westland ad aprire la porta e a rinchiuderla con le proprie chiavi, e anche se la pistola non viene trovata, tuttavia il calibro è quello di una Webley automatica, di proprietà dell’agente di borsa. Ma alla fine si dimostrerà che in un certo senso era proprio una Camera Chiusa.

Ohibò! Latimer che usa una Camera Chiusa nel suo primo romanzo? Ecco un’altro dei motivi per cui quest’opera si distingue: il coraggio di proporre qualcosa di nuovo, di inaugurare un genere ibrido, non temendo di ricorrere al tanto vituperato “Mistero deduttivo classico”. Di coraggio ne aveva Latimer, non c’è che dire! Sembra la stessa scelta che avrebbe fatto qualche anno dopo (diciotto per l’esattezza) Howard Browne nel suo Thin Air, 1953 (Controfigura di un rapimento) un altro Hard Boiled che comincia con una Camera Chiusa!

Rompere col genere Hard-Boiled, proponendone un imbastardimento, una variazione fantasiosa, e soprattutto alleggerendone la pesantezza, con i battibecchi gustosissimi tra Doc e William, e la dichiarazione d’amore tra il poliziotto uscito da una sbronza e la bellissima peripatetica. Una specie di ripetizione di questo simpatico connubio tra il poliziotto sensibile al fascino femminile (le gambe e i seni) e la bella mantenuta sensibile ai soldi, ma anche al modo un po’ rude di Crane, diciamo “ruspante”, si avrà in un romanzo di Colin Dexter, Il Mistero della Stanza N.3 , in cui il romantico Ispettore Morse solo per un istante penserà di passare una notte di passione tra le braccia (e le gambe) di una bellissima prostituta d’alto bordo.

E ancora c’è un metodo deduttivo di prim’ordine, utilizzato per individuare la pistola di Westland, data per scomparsa; ed una volta saputo che il proiettile che aveva ucciso la moglie di Westland non è uscito dall’arma ritrovata, e che la pistola che invece è stata usata dall’assassino per commetere l’omicidio non si trova, Crane riesce con un modo empirico, comunque, ad attribuire al compratore misterioso, l’attribuzione dell’omicidio. E poi a rivelare altre cose, sempre con l’uso della ragione.

Al di là di questo, il romanzo dovette essere molto popolare se Rufus King molto probabilmente pensò di copiarne il ritrovamento della pistola, almeno questo penso. Riporto un passo emblematico, citato nel mio breve saggio pubblicato sul Blog Mondadori, tempo fa, a riguardo di Rufus King, in cui mettevo a confronto la scena di Latimer Il palombaro si chiamava Peter Finnegan. Indossava lo scafan­dro con le scarpe di piombo. Guardò Crane con i suoi òcchi di un azzurro slavato e disse: — Volete che mi immerga per recuperare la chiave inglese?. Crane disse: — Voglio che riportiate alla superficie tutti quegli oggetti d’acciaio che riuscirete a ritrovare. Chiavi inglesi o qualsiasi altra cosa…” (Jonathan Latimer, op. cit., pagg. 148-149)” con quella in Holiday Homicide (Omicidio a Capodanno) di Rufus King:

….Ormai anche il giovanotto del comando di polizia aveva af­frontato il vento ed era salito a bordo. Ci raggiunse: — Brutta giornata, signor Moon — osservò.

Sì, vero?

Sono Duffy, della squadra omicidi.

Come sta, signor Duffy? Conosce il mio segretario, Bert Stanley?

No.

Il signor Duffy, il signor Stanley.

Il signor Duffy e il signor Stanley si strinsero i guanti. ..Si sarebbe quasi potuto ritrovare il capitolo sul “Modo di avvi­cinarsi alle persone” nel manuale, da cui era venuto fuori questo genere di chiacchiere (“ammansite-la-vostra-vittima-prima-di-assalirla”).

Bene, poiché presumibilmente Moon era stato pienamente am­mansilo, quel giovane di belle speranze iniziò l’attacco. Fece un cenno vago verso il rimorchiatore e disse:

— Si direbbe che ci sia un palombaro.

Già.

Fa fare un’immersione, signor Moon?

Pensavo di farlo.

Qui?

Qui.

E perché?

Qui lo voglio, signor Duffy. Non lo so.

Possibile?

Voglio dire che non lo so, nel senso che quell’uomo s’im­mergerà semplicemente per un tentativo di scoprire qualche indi­zio..

E quale, per esempio?

Moon fu abilissimo nel prendere un’aria leggermente tediata e imbarazzata. Gli avrei dato il mio voto per un primo premio qua­le attore.

Signor Duffy, non ho nessuna ragione per non essere per­fettamente franco con lei — disse (Dio aiuti il signor Duffy, pen­sai io). — Non risparmiamo nessuna spesa né alcuno sforzo per cercare di mettere sicuramente in luce l’innocenza del nostro cliente.

E con questo?

Una delle prove testimoniali che, secondo me, scagionerà completamente Bruce è la pistola del delitto. Si ritroverà il possessore della pistola, e il vero colpevole sarà arrestato. Fino­ra la polizia non è stata in grado di ritrovare l’arma. Ho preso un palombaro per scandagliare il letto del fiume nelle vicinanze del luogo del delitto. ”(Rufus King, Holiday Homicide, “Omicidio a Capodanno”, I Classici del Giallo Mondadori N° 754, pagg. 68-69).

L’osso è una pistola che possiede Cotton Moon, un ferrovecchio, che tiene un attimo in acqua fuori dal bordo dell’imbarcazione, perché appaia gocciolante, che viene consegnata “zelantemente” al gabbato poliziotto:

Ce la svignammo in un modo meraviglioso. Harry Lochbittern ci staccò senza rumore dal rimorchiatore, i due motori presero a vibrare, e con la stessa gentilezza di un fiocco di neve allargam­mo lo specchio d’acqua che ci divideva dalle due imbarcazioni della polizia. ..S’accorsero che ce ne eravamo andati quando la neve che ca­deva aveva ormai reso confusa la nostra immagine, e in quel mo­mento già facevamo le nostre sessanta miglia, e nessuno avrebbe potuto raggiungerci. Moon non aveva bisogno di dirmi nulla, quanto alla pistola. Era un ferrovecchio che gli era stato regalato da un ammiratore di Melbourne. Avevo visto benissimo quando Moon se l’era sfilata dalla tasca del soprabito e l’aveva tenuta in acqua fuori del motoscafo, in modo che apparisse tutta bagnata quando avesse finto di staccarla dal gancio.

Svitai il coperchio del thermos e offrii da bere a tutti quanti. Walter si era comportato bene. Il rum era bollente, aromatizzato a dovere e veramente buono.”(Rufus King, op. cit., pag.73)”.

http://blog.librimondadori.it/blogs/ilgiallomondadori/2010/05/26/un-%E2%80%9Cborn-writer%E2%80%9D-rufus-king-invenzioni-stile-e-rapporti-con-la-letteratura-di-genere-coeva/#more-6051

Nel mio saggio dicevo anche dell’altro: impostavo l’ipotesi che a sua volta Latimer, avesse preso qualcosa da un altro Rufus King. E ciò non deve meravigliare, in quanto il taglia e incolla era una specialità di Latimer, che in parecchi dei suoi romanzi citò opere di altri suoi colleghi, mutando però qualcosa do sostanziale e ottenendo delle opere originali:

Fatto sta che parrebbe che Rufus King si fosse rifatto a Rex Stout e come a lui anche a Latimer : faccio notare che come il titolo originale americano di “Destinazione: Sedia Elettrica” sia dato sostanzialmente da due parole che cominciano per H : Headed for a Hearse, anche il romanzo di Rufus King presenta la stessa curiosa caratteristica: Holiday Homicide. Solo un caso?

Parrebbe quindi che Rufus King avesse preso da Latimer, se tuttavia non vi fosse dell’altro: infatti ben prima che fosse uscito “Destinazione:Sedia Elettrica”(pubblicato come abbiamo detto nel 1935), Rufus King aveva pubblicato il suo The Lesser-Antilles Case. Il romanzo, noto in Italia col titolo “La prova in fondo al mare”, era stato pubblicato un anno prima, nel 1934. Ecco un significativo brano, estratto dal Cap.XX “Predizione sinistra”:

Lo scafandro che la signori­na Whitestone aveva procura­to per mezzo dei signori Wor­thington Worthington e Pice era un modello americano dotato dei più recenti perfezionamenti. Consisteva in una pompa ad aria a tre cilindri e un pistone, che conveniva a qualunque ge­nere di immersione, di un casco e di una corazza di rame (il ca­sco era munito di vetri fissati in cornici di metallo; quello di­nanzi, a cerniera, si poteva rial­zare; i vetri laterali, contraria­mente a certi tipi, non erano protetti da sbarre metalliche trasversali). Cerano, poi, un paio di stivali con la suola di piombo, i pesi per la schiena e per il petto e un tubo per l’aria, pieghevole e di una so­lidità a tutta prova.

La signorina Whitestone non aveva badato a spese, non ave­va esitato ad aggiungere al­lo scafandro un apparecchio telefonico composto di un cavo che serviva per i segnali del pa­lombaro e gli permetteva di ri­manere in comunicazione co­stante con la superficie.

Così il tenente Valcour avrebbe potuto dirigere perso­nalmente le ricerche nel rotta­me in fondo al mare. Questo sistema offriva anche il van­taggio di permettere al palom­baro di comunicare a Valcour le sue scoperte man mano che le faceva.

Tutto l’equipaggiamento era stato disposto con cura sul se­condo ponte, in una cabina chiusa a chiave.

Il palombaro, che era stato fornito anche lui dai signori Worthington Worthington e Pi­ce, era un uomo d’aspetto giovanile a nome Arthur Stumpf, molto agguerrito contro gli incerti del mestiere, nonostante la sua apparenza fragile. E tut­tavia – benché né i signori Wor­thington Worthington e Pice se ne fossero resi conto – costituiva il solo anello debole della catena, che in tutti gli altri suoi pun­ti era invece saldamente co­struita.”(Rufus King, The Lesser-Antilles Case, “La prova in fondo al mare”, I Capolavori del Giallo Mondadori N° 51, pag.97).

In realtà il palombaro in questione, dopo una immersione, vi rinuncia a causa delle sue precarie condizioni di salute; ed il suo posto verrà preso, secondo una trappola abilmente tesa da Valcour, proprio dall’assassino che si smaschererà, trovando immediatamente la cabina che avrebbe dovuto cercare a bordo dell’Elsinore affondata, pur non potendolo sapere in quanto apparentemente non si sarebbe mai immerso lì. Apparentemente perché in un finale a sorpresa, è.. : si legga il libro e lo si conoscerà.

Veniamo così a sapere che Latimer può aver usato un espediente che già R.King aveva usato l’anno prima. La tendenza a riutilizzare i materiali, abbiamo detto prima, era una sua peculiarità: questa tendenza verrà utilizzata da Latimer in tarda età: nel 1972 firmerà una sceneggiatura originale per The Greenhouse Jungle, “Il Terzo proiettile”, secondo episodio della seconda serie de Il Tenente Colombo: nipote e zio fingono un falso rapimento, per svincolare un fondo fiduciario utilizzabile solo in casi estremi, poi lo zio uccide il nipote e fa ricadere la colpa su altra persona. Il colpevole, interpretato magnificamente da Ray Milland, sarà smascherato quando Il Tenente Colombo scoprirà l’esistenza di un terzo proiettile, e lo troverà utilizzando un metal detector. Questo strumento, che era stato inventato nella sua versione avanzata nel 1930 da Gerhard Fisher, non era altro che un apparecchio che emetteva onde radio: Fischer aveva notato che le onde radio venivano distorte dalla presenza di materiali metallici.Applicando l’intuizione, ad un congegno magnetico, egli realizzò il primo Metal detector. Ora, a pag. 149 del CGM 726 già citato, si legge : “..Il palombaro si piegò oltre la balaustra. Fra questo punto ed il fazzoletto là in fondo. Non sarà una faccenda troppo difficile.La profondità non supera i dieci metri e, per mia fortuna, ho un elettromagnete in grado di recuperare qualunque pezzo di acciaio in un raggio piuttosto vasto..”. L’eletromagnete non è altro che un metal detector: rileviamo quindi che nella sceneggiatura dell’episodio di Colombo Latimer aveva preso una sua idea e l’aveva trasformata. Così secondo noi può aver fatto rispetto al romanzo di King e aver preso l’idea del palombaro. Ma Latimer non si sarebbe limitato solo a questo per noi;  e la fonte di ispirazione sarebbe stata sempre Rufus King.

Infatti, parecchi anni prima, King aveva esordito nel panorama della letteratura gialla, e prima di Murder by the Clock in cui avrebbe fatto entrare in scena il tenente Valcour, con dei racconti in cui aveva introdotto il suo primo detective, Reginald de Puyster. Ora in uno di questi, The Weapon That Didn’t Exist (1926), troviamo un assai singolare inizio:

In una cella, nel carcere delle Tombe a Nuova York, una ragazza irlandese fissava l’alba attraverso le sbarre dell’inferriata. Se nel pomeriggio l’avessero incolpata di tentato omicidio, non avrebbe più visto un’altra alba. Era decisa: nella cavità tra il pollice e l’indice teneva nascosta una compressa tolta dall’armadietto dei medicinali della sua signora, prima che la polizia venisse ad arrestarla: Sul flacone che aveva contenuto la compressa era il cartellino: Veleno” (Rufus King, Un’arma eccezionale, numero 15 dei “Gialli di Ellery Queen”, Garzanti, marzo 1951[16]), che è stranamente, assai stranamente, molto simile all’inizio di “Destinazione: Sedia Elettrica”, e anticipandolo di ben nove anni. Sarebbe stato possibile che Latimer avesse più tardi tratto ispirazione da questo racconto? Ci piace pensare di sì. Del resto anche in questo caso abbiamo in pratica il realizzarsi di un delitto impossibile: in un’automobile è stato compiuto un delitto. L’auto è uno spazio chiuso, e quindi siamo ancora una volta in una Camera Chiusa, in cui l’arma non si trova, come pure nel caso del romanzo di Latimer: lì una pistola, qui un qualcosa che può aver avuto a che fare con una puntina da microsolco, un pickup imbevuto di veleno: un bocchino da sigarette trasformato genialmente in una minicerbottana”.

http://blog.librimondadori.it/blogs/ilgiallomondadori/2010/05/26/un-%E2%80%9Cborn-writer%E2%80%9D-rufus-king-invenzioni-stile-e-rapporti-con-la-letteratura-di-genere-coeva/#more-6051

Ora a vedere bene, così come Colombo ritrova con un metal detector la pallottola all’interno della serra, così anche Crane è riuscito a ritrovare una pallottola all’interno del poligono di tiro; così come grazie ad un metal detector un palombaro aveva ritrovato nel romanzo pubblicato trentasette anni prima una pistola. E’ bello pensare che il vecchio Latimer abbia ricordato il suo primo romanzo nella sua ultima sceneggiatura. Ma è ancora più interessante sottolineare come il giornalista del Chicago Tribune che aveva conosciuto personalmente Al Capone, a metà degli anni ’30 esprimesse con altrettanto inusuale coraggio nel suo romanzo, una posizione così netta contro la pena di morte. Non è solo, come ho detto prima, forse una citazione da un racconto di Rufus King. No. Il riferimento alla scena nel Braccio della Morte mi sembra assolutamente voluto. E’ sicuramente un attacco dal forte sapore drammatico e cinematografico (e benissimo può essere visto che come abbiamo detto, Latimer fu anche sceneggiatore cinematografico e televisivo), ma i toni con cui riporta la vita di un condannato a morte, che non aspetta il momento della sua liberazione ma che vorrebbe che questa non ci fosse mai (anche se la morte in taluni casi può essere anch’essa una liberazione!), sono emblematici. Si coglie un afflato che non è solo melodrammatico, ma invece profondamente sentito. Del resto, se così non fosse, non si capirebbe perchè il romanzo non finisca con una scena solare – per esempio la liberazione di Westland, o con Crane sdraiato al sole con labilla Myrna – ma con una tetra, la morte di Dave Connors e Isadore Varecha. Semmai c’è la volontà di dare della morte, una visione eroica comunque, seppure nella inumanità di una morte già annunciata, vissuta lentamente ad ogni minuto che passa, e nellostesso tempo nella ineluttabilità del tempo che passa inesorabile e che non si vorrebbe passasse mai. Non è tanto nella stoicità dell’attteggiamento di Connors che è in prigione perchè cercando uccidere chi lo voleva fare fuori della banda di Capone, ha ucciso involontariamente anche un poliziotto, che Latimer indugia, quanto nella disperazione di Varecha, che cerca persino di uccidersi, impiccandosi coi suoi pantaloni e che viene salvato solo perchè possa essere ucciso di nuovo. Quasi che ad un condannato a morte non sia permesso di morire da solo perchè è lo Stato che l’ha condannato a morte, che deve ucciderlo: non sarebbe giusto (ma che giustizia è questa?).

La condanna di questo tipo di morte è in quella lapidaria implorazione di Varecha: “Non voglio morire..non a quel modo” (pag.14). Varecha nell’ultima pagina del romanzo, mentre lo stanno avviando alla sedia elettrica rivolgendosi a Westland, dirà: “Non ho paura se tu vieni dopo di me”.

Il coraggio è venuto dal trovarsi vicino a Westland, mentre alla stoicità di Connors e al suo rifiuto del conforto religioso si sostituiranno la mera rassegnazione e la richiesta di perdono per una via migliore.

Westland, una volta libero, lascia la sua fidanzata. Il perchè non lo dico. L’ultima battuta è una al vetriolo. A Crane che gli dice simpaticamente: “Non preoccupatevi troppo per miss Martin, amico mio. Per una che perdete, ne ritroverete dieci!”, lui risponde: “E chi diavolo ne vuole dieci?” (pag. 175). Insomma è come se avesse detto sarcasticamente:

“Una cercavo, e m’è pure capitata put..!.”.

Grande, Latimer!

 

 Pietro De Palma

 

 

The post Jonathan Latimer : Destinazione Sedia Elettrica (Headed for a Hearse, 1935) – trad. Bruno Tasso – Serie Gialla Garzanti “Le tre scimmiette” N. 54 del 1955 – I Classici del Giallo Mondadori N.726 del 1994 appeared first on La morte sa leggere.

John Dickson Carr : Un colpo di pistola (The Witch of The Low Tide, 1961) – trad. A.M. Francavilla – I Classici del Giallo Mondadori N. 700 del 1993

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carr 001Romanzo poco conosciuto, se non addirittura sconosciuto, è invero uno dei più affascinanti di Carr.

Pubblicato nel 1961, cioè negli stessi anni di In Spite of Thunder e di The Demoniacs, sembrerebbe per la collocazione temporale, un Giallo storico. Tuttavia, collocare un romanzo 50 anni prima del suo tempo, a me non sembra scrivere un romanzo storico; semmai è un tentativo intelligente di spostare indietro il tempo e poter descrivere minutamente la società: non solo le costumanze, ma anche l’abbigliamento, l’architettura, le scoperte, le automobili, le prime forniture di elettricità per la casa. Descrizioni minute così accurate da lasciare a bocca aperta e nello stesso tempo capaci di far calare il lettore nell’atmosfera dei fatti narrati.

La vicenda, inoltre, nasconde varie situazioni iumpossibili.

David Garth è un famoso medico, neurologo. Ha un segretario, Michael Fielding, ed una fidanzata con cui è in procinto di sposarsi (Betty Calder). Suoi amici sono Vincent e Marion Bostwick, tra loro sposati. Betty Calder, bella ragazza già vedova di un governatore della Giamaica, molto più anziano di lei, ha un passato un po’ oscuro: faceva la ballerina quando fu notata dal suo ex marito che le propose di sposarlo. Ha 3 sorelle ed una di loro, Glynis, pure ballerina, per guadagnare molto di più non ha esitato a spogliarsi, ad accalappiare uomini per poi ricattarli. E c’è chi, per sfuggire al disonore, s’è pure sparato! Ora senza soldi, e ricercata dalla polizia, non ha esitato a farsi passare per la sorella: per di più, recatasi da lei, non ha esitato a ricattarla. E’ quanto rivela Betty agli amici di David e a David stesso, a casa di Marion dove la governante del suo tutore, il colonnello Selby, Lady Montague, è stata aggredita da una donna, vestita come Betty, da lei apostrofata più volte “puttana”, che ha tentato di strangolarla, quasi riuscendovi. Interrotta per intervento di Marion stessa, a suo dire, è fuggita attraverso la cantina, dove una uscita secondaria comunica con l’esterno: questo perchè davanti all’uscita principale stava sostando in quel momento un poliziotto. Però, quando Garth la esamina, la trova chiusa da due pesanti chiavistelli i cui occhielli sono tirati fino in fondo.

Le possibilità che mette in risalto la Camera Chiusa (perchè è quella che è) sono:

  1. Che Garth abbia mentito (avremmo il caso di Carr che copia la Christie)
  2. Che Garth abbia detto la verità.

In questo caso avremmo:

  1. che Marion ha mentito dicendo che l’attentatrice è fuggita da lì
  2. che Marion ha mentito affermando che vi era una seconda persona che ha tentato di uccidere Lady Montague
  3. che la presunta strangolatrice sia svanita, riuscendo ad uscire da una cantina le cui finestrelle sono sbarrate dall’interno e sbarrata è anche l’unica uscita verso l’esterno.

Al primo enigma insolubile – uscita dalla cantina sbarrata dall’interno da due pesanti chiavistelli e finestrelle chiuse dall’interno – segue un secondo altrettanto ostico ad essere decifrato coi mezzi dell’intelletto: Betty Calder, dopo aver litigato in maniera plateale con la sorella Glynis che l’ha raggiunta nella sua villetta sul mare, e dopo essersi allontanata in bicicletta, quando si presenta all’appuntamento che le ha dato Garth alle 18 , lo trova già nel padiglione che si affaccia sulla spiaggia. Garth ha però intanto fatto una scoperta terribile, dopo essersi fatto accompagnare alla villetta e al padiglione sul mare, dal nipote in auto: ha trovato Glynis strangolata, col corpo ancora tiepido, ed il tè, contenuto in una teiera ancora bollente (?). La ragione vorrebbe che l’omicida fosse ancora presente sul luogo del delitto, visto che le sole impronte sulla sabbia sono solo quelle prodotte da Garth, quando si è avvicinato al padiglione sul mare, e da Betty quando l’ha raggiunto. Garth ha stabilito trattarsi della sorella di Beth, in quanto le si è inginocchiato davanti e l’ha voltata, e dopo ha rimesso le cose apposta e poi senza volontà ha provocato la rottura di una tazza di porcellana. Come ha fatto l’assassino a strangolarla lì, se impronte non ve ne sono, e se l’unica persona che sia stata vista allontanarsi verso il padiglione era la stessa Glynis che indossava un costume da bagno di Betty, origine di una ennesima litigata fra le due sorelle?

Pur avendo controllato l’attendibilità delle dichiarazioni di Betty circa l’identità della sorella, e avendole confermate, la polizia non è sicura che l’assassino di Glynis non sia stato commesso da Betty, magari con il favoreggiamento di Garth.

Nella persona di Abbot Cullingford, vicecapo del CID, si fa strada la proposta a Garth, da lui conosciuto precedentemente, che in cambio dell’accettazione delle versioni proposte, lui riveli tutto quello che sa a riguardo del tentato strangolamento della governante di Marion e del perchè lui non creda alla di lei versione. Ma Garth è un medico integerrimo, che avendo avuto in cura Marion, non vuole rivelare cose che possano danneggiarla, oltre che per amicizia. Ma il rifiuto di Garth, provoca il risentimento del vicecapo del CID, che gli toglie il suo appoggio e lo lascia nelle mani dell’Ispettore Twigg, che non lo può vedere.

David crede di sapere chi possa essere l’assassino e che non è Betty; così come immagina che la storia raccontata da Marion sul tentato strangolamento, abbia delle falle; nonostante ciò è intenzionato a tenere fuori dal giudizio sia Marion e Betty, e la fatica diventa improba, perchè Marion, fidandosi della sua parola, tenta però in tutte le maniere di far accusare Betty, dato che le due sono incompatibili l’una all’altra: David in un drammatico facia a faccia nel quale vengono alla luce non meglio precisate abitudini sessuali di Marion con un uomo non meglio specificato, a Parigi, la mette a nudo e la costringe ad ammettere delle cose, che sono preda non solo delle sue orecchie ma anche di quelle di qualcuno di cui lui sente i passi e che è stato ad origliare alla porta.

A questo punto è Garth a ricercare Abbot, ed in nome della loro amicizia, gli chiede di concedergli 24 ore, perchè lui possa tendere una trappola all’assassino e consegnarlo alla polizia, chiedendo in cambio come le due donne vengano esentate dal testimoniar e e rivelare fatti “scandalosi” del loro passato. Intanto si appura che il giovane Fielding abbia conosciuto Glynis, e come egli sia scampato ad una aggressione nel Grotto, cioè nella sala biliardo, posta nelo seminterrato di un famoso albergo.

In un serrato finale, l’assassino si rivelerà dopo che proprio Garth gli avrà fatto capire di aver raggiunto la verità, ma sarà l?isepttore Twigg a indovinare come sia stata uccisa Glynis Stukeley e chi abbia confuso gli avvenimenti così da far intendere che il delitto fosse stato commesso nel padiglione, senza lasciare orme nella sabbia.

Innanzitutto ci troviamo dinanzi ad uno dei più grandi romanzi di Carr: si tratta di un autentico capolavoro! Divinamente scritto (le descrizioni, come ho accennato prima sono magnifiche: vedasi quella dell’Hotel, o addirittura quelle dell’abbigliamento dei soggetti coinvolti o anche dei passanti, e addirittura le descrizioni delle automobili! Carr, che si sa era abbastanza pignolo, quando si trattava di rievocare atmosfere che non gli appartenevano, documentandosi sui periodi e le vicende, deve aver fatto un intenso studio, non c’è che dire! In più d’una occasione pare quasi che egli le avesse vissute quelle atmosfere, che ci si fosse trovato a viverle: quasi un caso di reincarnazione che avrebbe potuto appassionare Paul Halter ( sempre che lui non ci abbia pensato).

Mi sono accorto di una cosa, di cui non mi ero mai accorto prima: un altro particolare stilistico di Carr. Quando vuole colpire con enfasi un certo particolare, un nome o un certo atteggiamento, Carr opera una cesura: fa riferimento a quello che vuole dire, poi si ferma e di solito descrive qualcosa (un caminetto per esempio con le fotografie di Betty e dei genitori di David, oppure un statua di dea o un candelabro con fiamme tremolanti o altro ancora) e subito dopo riprende da dove aveva lasciato, affermando con maggiore enfasi quando aveva prima detto. In un certo senso è sempre parte di quel meccanismo cosiddetto accrescitivo, che è presente in alcuni romanzi del primo periodo, per esempo It Walks By Night: per accrescere la tensione, si afferma qualcosa, poi ci si ferma e poi, quando si riprende il dialogo, accade qualcosa per cui quello che si era prima detto viene ingigantito, perchè magari si è cambiato il tono, che so la fontana che prima sembrava ridere in modo cristallino ora sembra farlo sinistramente o sogghignare, etc..

Mi piace sottolineare un altro particolare, anzi due: innanzitutto, la camera chiusa è ancora una volta frutto di una messinscena. Qui essa riguarda un dato spaziale ed uno temporale insieme: ricordatevi l’esemplificazione della Conferenza del dottor Fell sulle Camere Chiuse e quello che dice Leona in Nine Times Nine di Boucher a riguardo: si fa riferimento ad elementi spaziali (come una camera possa essere chiusa) e temporali (quando l’omicidio è stato compiuto prima, durante o dopo che la stanza fosse stata chiusa). Beh, in questo romanzo i due elementi vengono riuniti in un trucco veramente spettacolare: Carr in questo romanzo cerca in tutti i modi di mettere in bocca a Twigg e Garth Le mystère de la chambre jaune di Gaston Leroux, e in un certo senso questo suo romanzo può essere un omaggio. Ma…ci sono anche altre cose interessanti:

innanzitutto il detective che risolve l’arcano è Garth che è un neurologo, che ha letto le teorie sulla Psicanalisi di Freud (e qui Freud c’entra parecchio!), che è pero anche un autore di romanzi gialli, uno dei quali immagina che accada proprio quello che accade qui: è come se chiamato a risolvere il caso fosse un’estensione di Carr stesso, come se lui una volta tanto avesse detto: Ecco , lo risolvo io il caso! Costruendo un edificio assai complesso.;

in secondo luogo, se un romanzo c’è che possa essere preso ad esempio (non per la camera chiusa ma per il delitto impossibile) è Evil under the Sun di Agatha Christie, che mi sembra assai pertinente anche per il luogo utilizzato, una spiaggia;

in terzo luogo, il movente: è il ricatto, per qualche inconfessabile segreto. Qui c’entra la psicanalisi, e in realtà tutto ciò che nasce da un certo tipo di pulsione sessuale: si potrebbe quasi dire che questo sia il romanzo più attuale di Carr, ed uno dei più atipici: è molto raro trovare nei romanzi di Carr, allusioni a motivazioni di natura sessuale (mentre invece è molto più frequente in romanzi di Ellery Queen). Ma John Dickson Carr quando scrisse questo romanzo era andato via dall’Inghilterra, la patria del perbenismo,e quindi può essere che qualcosa l’abbia riguadagnato. Tuttavia il tema trattato è molto rognoso: la pedofilia. Un adulto che intrattiene rapporti sessuali con un’adolescente. Quello che è interessante notare è come Carr, un uomo, un conservatore, inquadrasse questa perturbazione di natura psichica e sessuale, non dalla prospettivadalla quale siamo soliti noi, uomini del ventunesimo secolo, osservarla, cioè come una violenza dell’adulto nei confronti del minore, ma da quella tipica di quello scorcio temporale, cioè una perturbazione sempre di origine psicosessuale che interessasse un minore ed un adulto, ma in cui il minore pur essendo stato sedotto in origine, manifestasse in un secondo tempo un certo potere sul seduttore: una sorta di parallelismo di quell’altro abietto atteggiamento per cui il carnefice diventa prigioniero della sua stessa vittima, secondo un meccanismo svelato già da Proust nella sua Recherche. Dobbiamo infatti ricordare che la Lolita di Nabokov è del 1955, e che quindi Carr può esser stato benissimo impressionato da quell’opera! L’omonimo film di Kubrick, invece, succede al romanzo di Carr, essendo del 1962 ;

il quarto particolare che mi sembra utile sottolineare, è come ancora una volta, il John Dickson Carr avanti negli anni, pur confezionando un problema assolutamete magnifico (il delitto nel padiglione), nel momento in cui prevede un doppio problema (la camera chiusa in cantina), finisce per concentrarsi su uno solo, finendo per dare dell’altro immediatamente la soluzione più semplice possibile, anche se qui è direttamente in relazione con la natura della vittima della seduzione pedofila che in un secondo tempo diventa l’arma con cui lei in certo senso tiene avvinto a lei, lui, reagendo poi entrambi, il primo autoaccusandosi, la seconda negando, dinanzi ad una terza persona che li ricatti. In una situazione del genere, magari in un romanzo più giovanile, oppure se l’avesse svolto Paul Halter, una volta proposto il problema, si sarebbe fatto in modo da dare una spiegazione in linea con la difficoltà dell’asserto.

Un’ultima cosa.

Ancora una volta, il titolo in italiano è ingannevole: Un colpo di pistola fa riferimento all’epilogo, ma non c’entra assolutamente con la Camera Chiusa che è l’anima del romanzo, mentre il titolo inglese la asseconda in maniera assai furba.

 

Pietro De Palma

 

 

The post John Dickson Carr : Un colpo di pistola (The Witch of The Low Tide, 1961) – trad. A.M. Francavilla – I Classici del Giallo Mondadori N. 700 del 1993 appeared first on La morte sa leggere.

Ulf Durling : L’ospite che non arrivò (Gammal ost, 1971) – trad. Monica Bianchi – Il Giallo Mondadori N.2554 del 1998.

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Ulf Durling è un nome che ben pochi, sospetto, conosceranno. Eppure ha meritato la menzione nel famoso Mystères à huis clos di Roland Lacourbe, nell’appendice, memore del meeting del 2007 cui partecipò anche l’italiano Igor Longo, e che è espresso nel bellissimo articolo, A Locked Room Library,  del mio amico John Pugmire ( http://mysteryfile.com/Locked_Rooms/Library.html ) . Il perchè è chiaro: in quell’elenco, erano riportate le migliori Camere Chiuse, a parere di un pool di esperti. E Gammal ost ha una gran bella Camera Chiusa, non c’è che dire!

Ulf Durling è uno scrittore svedese, nato nel 1940 a Stoccolma e diventato poi, dopo laurea e specializzazione, un famoso psichiatra. Nel 1971 ha provato ad esordire proprio com Gammal Ost ( trad. Formaggio vecchio) che è stato un grande successo, tanto da convincersi a scriverne altri. E’ tuttora vivente. E’ l’unico romanzo che gli ha pubblicato Mondadori

La trama si svolge in un pensionato svedese, laddove dimorano: il tipografo in pensione, fondatore del Club del Giallo, Johann Lundgren; Carl Bergmann, anche lui socio fondatore, e libraio in pensione, e il dottor Nylander, appartenente al club del giallo; Alex Nilsson; il commesso viaggiatore, Johanson; le due insegnanti, signorina Hurting-Olofson e la signora Soderstrom; il maresciallo dell’esercito Renqvist.

Uno degli ospiti della pensione, Alex Nilsson, 52 anni, già dimorante da alcune settimane nella pensione, è trovato morto nella sua camera, chiusa a chiave dall’interno: giace “completamente vestito, vicino al letto, come se si fosse ferito battendo la testa contro la spalliera…sangue sul viso e sul davanti della camicia. Sul tavolo..una bottiglia di vino rovesciata ed il vino..sparso sul pavimento…e anche sul viso e sulla camicia di Nilsson” (Prima parte, cap.2 pag.21). Inoltre viene trovato nel cestino della spazzatura un pezzo di formaggio; e sul comodino, un diuretico molto potente, il Diclorotride-K. Inoltre c’è un asciugamano macchiato di rosso (solo vino?).

Però qualcuno ha sentito del trambusto in quella camera la sera prima, come se ci fosse stato un litigio: quindi c’era una seconda persona, anche perchè compare la richiesta della stessa vittima di un cerotto, al Signor Blom, il padrone della pensione: eppure non c’è nessuna ferita, neppure piccolissima sul corpo di Nilsson.

Efraim Nylander suppone che la lite sia finita in tragedia, e che l’assassino non si sia neppure accorto di quanto era accaduto: in sostanza, la morte sarebbe sopravvenuta in un secondo momento, e quindi sarebbe stata la stessa vittima a spegnere la radio, rimasta accesa durante buona parte della notte, richiudere la porta e quindi rimanere quindi soccombere per un colpo già precedentemente riportato; Johann Lundgren invece lega il misterioso visitatore di Nilsson a suo fratello Edvin, che sarebbe stato il responsabile di un avvelenamento mortale da metanolo ( un po’ quello che accadde in Italia tanti anni fa), e che sarebbe ritornato per via di una misteriosa eredità e del resto lo stesso Alex Nilsson anni prima era stato ricoverato varie volte per disintossicazione dall’alcool: sarebbe stato ospite del fratello nella sua stanza al pensionato, senza che nessuno lo sapesse e per farlo avrebbero escogitato un trucco, cioè Alex avrebbe finto di essere zoppo perchè il fratello lo era, e in questo modo sarebbe ro stati scambiati l’uno per l’altro e non ci sarebbero stati problemi. I due avrebbero avuto una lite ed Edvin avrebbe ucciso l’altro fratello. Infine Carl propone la sua teoria: la radio accesa durante la notte, avrebbe significato un modo come un altro per Nilsson di addormentarsi a causa del vino bevuto, perche lui aveva un appuntamento col suo assassino che si suppone sia il marito della figlia: Nilsson ricattava il genero e la figlia. In pratica, secondo questa ultima ricostruzione, ci sarebbero state due visite: la prima casuale di un amicone di Nilsson, con cui si mangia formaggio e si beve vino e durante la quale il visitatore si ferisce tanto da far chiedere a Blom da Nilsson un cerotto; poi questo va via ed ecco che avviene la seconda visita durante la quale il secondo visitatore uccide Nilsson e poi, dopo averlo ucciso con un oggetto contundente, salta dalla finestra, utilizzando come materasso delle coperte prese dalla pensione, che poi riporta furtivamente dentro da una porta secondaria.

La seconda parte del romanzo supporta invece la teoria di Gunnar Bergmann, figlio di Carl, e poliziotto (Vice Commissario), secondo la quale la morte sarebbe stata dovuta a cause naturali : una emorragia cerebrale, non causata dalla botta, ma che avrebbe causato lo sbandamento alla base della botta.

La terza parte infine è quella in cui uno dei tre appassionati, il dottor Nylander, rivede la sua teoria precedente e integrandola con tutte le novità apprese, la rimodula: Nilsson avrebbe avuto precedentemente al suo ritorno in Svezia dall’ America, un attacco apoplettico o una emorragia cerebrale, che avrebbe causato una emiparalisi: da qui il movimento claudicante. Inoltre avrebbe sofferto di pressione alta: lo avrebbe fatto rilevare l’ingrossamento del cuore. Proprio alle sue condizioni di salute sarebbe stata connessa l’assunzione del medicinale trovato sul comodino, un diuretico molto potente, il Diclorotride-K. Come avrebbe fatto a morire di emorragia cerebrale un paziente molto assiduo nell’assumere il medicinale prescritto, per di più molto efficace? Per via di un pezzo di formaggio stagionato e di un altro medicinale del tutto innocuo. Efraim Nylander troverà l’omicida, che ha dovuto agire per proteggere la figlia e il suo matrimonio da un passato che non sarebbe dovuto ritornare, con un’azione delittuosa insime semplicissima ma altrettanto altamente geniale.

In sostanza nel romanzo di Durling, le 3 ipotesi sostanziali fanno capo a tre diverse sezioni del romanzo, che inquadrano ovviamente le stesse verità, secondo tre prospettive ed inquadrature diverse:

  1. La prima, elaborata da tre appassionati di Mystery classico, mette in primo piano il fatto che la porta fosse chiusa dall’interno e quindi si dovesse in sostanza spiegare un Mistero di Camera Chiusa: questa prima teoria viene di volta in volta supportata da tre diverse ipotesi che recano a tre diversi postulati accusatori e quindi a tre possibili soluzioni diverse ;
  2. La seconda, approntata da un ufficiale di polizia, figlio di Carl Bergmann, che ridicolizza l’azione dei tre investigatori dilettanti, paragonandola a quella di tre vecchi troppo innamorati dei libri, che ragionano sulla base delle letture fatte, perdendosi per strada: la verità sarebbe purtroppo molto più semplice e banale: morte per cause naturali.
  3. La terza sviluppata da uno dei tre investigatori, il medico, eliminando le ipotesi più fantasiose, riesce basandosi sugli indizi raccolti, a formulare la soluzione, individuando l’omicida, un altro anziano.

Il romanzo è il pretesto per confrontare e raffrontare 3 diversi modi di vedere le cose: lo stesso fatto, con l’aggiunta o la mancata visione di determinati particolari, è passibile di tre distinti, separati e contrastanti giudizi, tre diverse ipotesi con altrettante diverse individuazioni dei responsabili: In sostanza Ulf Durling sviluppa, alle estreme conseguenze, il confronto/scontro presente ne “I tre investigatori” di Leo Bruce, laddove i tre investigatori non sono quelli dei romanzi omonimi pubblicati da Mondadori negli anni settanta ottanta (e scritti in origine da Robert Arthur), ma delle parodie di Poirot, Lord Peter Wimsey e Padre Brown, che parlano e si atteggiano come i loro rispettivi riferimenti originali. Del resto non va dimenticato che già in Berkeley, ne Il caso dei cioccolatini avvelenati, diverse esposizioni dello stesso antefatto, svolte da diversi personaggi, avevano portato a diverse ipotesi con individuazione di responsabili altrettanti differenti. E’ il caso ancora di segnalare, come lo stesso procedimento fosse stato adottato ne I Cinque frammenti di George Dyers (The Five Fragments, 1932) , pubblicato da Mondadori ne I Libri Gialli (Palmine) col numero 110 nel 1935, altro straordinario romanzo assai poco conosciuto; uno stesso fatto, che visto secondo la prospettiva diversa di cinque testimoni, rivela diverse angolazioni e verità.

Anzi mi verrebbe quasi da pensare che, siccome nel romanzo trovano spazio molti riferimenti ad autori del Giallo Classico, cui il romanzo è un omaggio (Bentley, Sayers, Carr, Allingham, Christie, Millar, Brand, Milne, etc..), e addirittura un riferimento alla Conferenza del Dottor Fell in The Hollow Man di John Dickson Carr, potrebbe essere benissimo accaduto che piuttosto che prendere ad esempio Case for Three Detectives di Leo Bruce, egli avesse preso come propria ispirazione, proprio The Five Fragments di George Dyers: potrebbe essere valida sia la prima che la seconda ipotesi, poiché se tre sono le sezioni del libro che sottendono a tre diverse formulazioni dell’ipotesi accusatoria, è anche vero che nel primo caso abbiamo tre diverse sotto-ipotesi, che unita alla seconda e alla terza, assommerebbero a cinque.

Nell’ambito del divertissement, che è quello che poi è, il romanzo è per di più scritto in forma parodistica. Non è un caso unico, perchè almeno in tempi molto vicini a noi, altri autori hanno cercato di portare il loro mattone all’edificazione del palazzo del Giallo, scrivendo dei romanzi in cui i protagonisti sono investigatori dilettanti che prendono le mosse dai libri che leggono: così John Sladek, così Isaac Asimov, così Peter Lovesey, cosi…Ulf Durling.

La Camera Chiusa, viene spiegata, solo nelle prime tre ipotesi della prima parte, perchè esse fanno capo ad una idea di assassinio che preveda la presenza diretta dell’omicida assieme alla vittima, mentre nella seconda, non si parla di omicidio perchè è morte naturale, mentre la terza parte pur inquadrando la morte di Nilsson con un omicidio, esso pur scaturito dal tentativo di salvare qualcuno e quindi di evitare il male, lo provoca, con la premeditazione dell’omicidio di Nilsson, che presuppone che l’passassino non sia presente nella stanza quando muore Alex, che chiude lui la porta a chiave dall’interno e poi muore, per una emorragia cerebrale, causata non da eventi naturali ma da un farmaco sostituito e da un vecchio pezzo di formaggio ultrastagionato, il Cheddar, acocmpagnato da una buona bottiglia di vino.

Tutto sommato un romanzo assai interessante, la cui soluzione è presente già nella prima parte, solo che non è sondata a dovere, e in cui la soluzione finale avviene tra lo stupore del lettore distolto da altro, non avendo avuto il modo per metabolizzare quanto letto.

 

Pietro De Palma

The post Ulf Durling : L’ospite che non arrivò (Gammal ost, 1971) – trad. Monica Bianchi – Il Giallo Mondadori N.2554 del 1998. appeared first on La morte sa leggere.

Joel Townsley Rogers : La fune sospesa (The Hanging Rope, 1946) – trad. Alessandra Roccato – vol. 3 di Delitti Impossibili – Editrice Garden, 1994

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Devo essere obiettivo: l’articolo che avevo una mezza idea di scrivere sarebbe dovuto essere un altro, ma…proprio non ce l’ho fatta: Mary Roberts Rinehart non meritava di essere descritta così. E’ stata una scrittrice di enorme successo, che ha guadagnato moltissimo e ha influenzato tutta un’epoca, con le sue storie in cui mischiava thrilling, mystery & love. Si può dire che certi autori come per esempio Cameron Disney e io penso anche in un certo senso Rufus King gli debbano essere stati riconoscenti alquanto. Però la Rinehart, dopo un periodo di fulgore, ne conobbe anche uno di appannamento. Si sa che alla fine degli anni trenta fu colpita da un attacco di cuore, da cui derivò un mutamento delle sue condizioni di vita (probabilmente ebbe una qualche forma di paralisi) e la sua stesse verve letteraria subì un decadimento progressivo: come non confrontare le opere successive al suo attacco a quelle precedenti, e trovarle banali se non addirittura inconsistenti? Mentre prima il romanzo era una progressione cadenzata ed inarrestabile verso la fine (vedi per esempio La Scala a chiocciola) i romanzi ultimi rivelano delle lacune anche di memoria notevoli, che lasciano interdetti: è come se l’autore, dopo ave paventato un certo accadimento, non lo svolgesse, anzi non si ricordasse neanche di averne parlato. Ciò sicuramente è da mettere in relazione con un peggioramento delle condizioni di salute e col fatto che la mente fosse distratta da altro (morì sette anni dopo, nel 1952, per un tumore al seno, in conseguenza del quale era stata sottoposta ad una devastante mastectomia totale).

rinehart 001Perciò non parlerò del romanzo che avevo in un primo tempo deciso di introdurre, La Camera Gialla (The Yellow Room, 1945), un romanzo anche scialbo in certi sensi, che non risponde a molti interrogativi lasciati lacunosi nel corso della sua trama, e che ha solo ancora viva una delle caratteristiche della Rinehart, che avevano altre autrici del medesimo periodo, ad esempio Mignon Eberhart: cioè parlare di personaggi femminili,  che si trovano al centro di macchinazioni, da cui devono disperatamente fuggire. Qui è Carol Spencer che si trova a dover rispondere di un cadavere trovato semicarbonizzato in un armadio della biancheria in una magione, che sarebbe dovuta essere chiusa da un pezzo, e che invece viene riaperta per offrire una residenza al fratello che ha ottenuto una licenza-premio, durante il secondo conflitto mondiale. Il libro procede stancamente fino alla conclusione, anche in virtù di un numero di pagine tutt’altro che disprezzabile (più di 300). L’unica cosa in certo senso interessante è la descrizione delle condizioni di vita e delle ristrettezze in tempo di guerra, patite anche dalle classi socialmente più distinte. Perciò..parlerò della Rinehart un  altro giorno, introducendo ben altro romanzo.

Oggi parlerò invece di Joel Townsley Rogers.

Rogers è conosciuto soprattutto in Italia per La Rossa Mano Destra (The Red Right Hand,1945) opera che assomma in sè mistero, orrore, fantasy e una vena di bizzarria non certo poco evidente. E sicuramente quest’opera merita il favore del pubblico e della critica. Purtuttavia Rogers, non ha scritto solo quella cosa, ma..moltissimo altro. Anzi, The Red Right Hand, è solo una delle tante opere che scrisse. Rogers fu un autore non tanto di romanzi lunghi o brevi, ma di racconti: ne scrisse a centinaia. Ecco qui un’estratto di una lettera che scrisse negli anni ’60 ad un certo Mr. Vreeland:

How did I come to write stories? In college I’d done poetry and editorials and stories and articles for the college magazines. In the fall of ’19, fresh from the service, jobs were scarce, and so I began writing. For absurd magazines called Snappy Stories, and the like. Better than working at a job, I thought. For three years I wrote a little book-review magazine in New York, and became a kind of pundit….But I didn’t [stay with that job], because I’d got married, and the job didn’t pay enough. So I began writing reams and reams of imaginary war flying stories, for swarms of magazines which were popular at the time. And when the magazines died away, it was too late for me to get an honest job. In fact, if one says one has been a fiction writer, it is like saying one has been a strip-tease artist. You may have a brain, but it is doubtful.

E lo stesso The Red Right Hand fu un ampliamento di una storia scritta e pubblicata sullo stesso magazine sul quale venne pubblicato The Hanging Rope: infatti la prima storia breve da cui fu tratto il famosissimo romanzo, fu pubblicata nel Marzo 1945 su New Detective Magazine, a differenza di The Hanging Rope che fu pubblicato nel settembre 1946. C’è  tra le tante, un’altra storia che vale essere ricordata, di Rogers, che è il suo ultimo romanzo The Stopped  Clock, 1985: un thriller mozzafiato, giocato sulla speranza che l’assassino che ha abbandonato una donna morente non torni a finire il lavoro prima che ella sia riuscita a barricarsi in casa (in qualche misura, il lettore fa il tifo con la donna perché si salvi). Due romanzi quindi. Non unici. Ci sono infatti anche altri romanzi propriamente detti di Rogers, che sono Once In A Red Moon, e Lady With The Dice. Ci sarebbe anche Never Leave My Bed, che però pare sia una revisione di The Stopped Clock.

Però oltre a questi romanzi, ne ha scritto anche uno breve, una sorta di lungo racconto (ma io opterei più per l’accezione “romanzo breve” perché di poco, ma sempre sostanzialmente, l’opera supera la soglia delle 100 pagine che è accettata come un limite perché si possa cominciare a parlare di romanzo), The Hanging Rope. Il romanzo, è stato dimenticato per tantissimo tempo e solo nel 1990 è stato riscoperto da Robert Adey (autore della Bibbia delle Camere Chiuse, Locked Room Murders and Other Impossible Crimes: A Comprehensive Bibliography) e di Jack Adrian, che assieme hanno realizzato un’antologia vorrei dire storica, The Art of the Impossible, contenente novelle e racconti di assoluto valore, in cui accanto a opere più conosciute (ma non moltissimo) ve ne sono alcune quasi del tutto sconosciute. E’ il caso di quest’opera di Rogers.

In Italia, fu pubblicata nell’ambito del volume N.3 dell’edizione italiana, approntata dall’Editrice Garden di Milano (ma come fece a soffiarla a Mondadori?), consistente appunto in tre volumetti, intitolati “Delitti Impossibili”. Nel terzo appunto, oltre all’opera di Rogers, sono presenti opere di Walkmann, Perowne e Atkinson.

rogers 001Daniel McCue vive al quarto piano di un grande palazzo lussuoso, in un grande appartamento signorile: è un ricco imprenditore che fa anche il politicante.

Ogni sera, e la sera del fattaccio pure, lo vanno a trovare due suoi amici: il suo avvocato Paul Bean, che oltre che legale è anche suo amico (il quale dopo averlo lasciato, per strada viene fatto oggetto di uno scherzo da parte di ragazzacci, cade, si sbuccia un ginocchio e le palme delle mani, e sanguinante torna a casa sua, senza che nessuno per strada sia stato presente al fatto né l’abbia pertanto aiutato) e Padre Finley, un prete devoto alla causa dei gatti abbandonati, mite e bislacco. Entrambi tuttavia, sono usciti dal palazzo ben prima che si appurasse che qualcuno avesse ucciso il vecchio McCue, e il testimone che lo conferma è Boaz, l’omino dell’ascensore. E quindi parrebbe che non c’entrino proprio con l’omicidio del vecchio compiuto con l’ausilio di una bottiglia di champagne che l’amico oltre che ex-genero Paul Bean gli ha portato in regalo per il compleanno, e poi con l’attizzatoio: ma, se Paul Bean ritorna a casa con le mani insanguinate, il prete entra in un palazzo poco distante da quello in cui è morto il vecchio McCue, in cui lui sa che non c’è nessuno, per trovare un gatto.

Tuttavia in quel palazzo, mezzo disabitato, in un appartamento spoglio, privo di suppellettili che non siano quasi solo  un letto, un tavolo ed una macchina da scrivere, vive anche il famoso commediografo Kerry Ott, sordo, lì dimorante, nel silenzio più assoluto, affinchè trovi l’ispirazione per la sua nuova commedia.

Tuxedo Johnny Blythe è quello che dà l’allarme. Ex tenente di polizia, proveniente da Washington, arrivato all’appartamento di McCue, di cui è ex genero avendo sposato la di lui figlia, prima che questa si risposasse a Paul Bean e se ne divorziasse, trova la maniglia della porta di casa sporca di qualcosa che sembra sangue. Spaventato dal sangue, scende le scale e trova che il portiere, tale Ignaz Slipsky che indossa l’uniforme della polizia di ronda, ma che anche lui dalla polizia è uscito (ma Tuxedo non lo sa).  A quello che gli conferma che nessuno è uscito, dice che la porta è bloccata, avendo provato ad aprirla utilizzando la sua chiave e non essendoci riuscito.

Insieme decidono di entrare in casa e quindi dal di fuori, dai balconi. Il custode, Rasmussen, altro tipo strano, dice loro che ha visto il diavolo uscire dall’appartamento del vecchio Dan: vi si sarebbe recato per riprendersi l’anima del vecchio indemoniato.

Quando Tuxedo e Slipsky arrivano sul balcone al quarto piano grazie alla scala antiincendio e rompono il vetro, si trovano davanti al cadavere di Dan: con le mani rattrappite nell’atto di afferrare i bordi del Bukkara persiano, vicino alla scrivania Luigi XV, e la nuca sfondata da una pesante bottiglia di Champegne (che gli ha portato Paul) e da selvaggi colpi di attizzatoio. Mentre Johnny va a vedere la porta d’ingresso (per accertarsi se sia chiusa dall’interno) e non si accorge che dietro a lui c’è Slipsky, si sente un grido lacerante proveniente da una delle altre stanze. Tuxedo si slancia verso una di essa, e un secondo dopo Slipsky lo trova frastornato presso il cadavere di Kitty Kane, la bellissima Kitty, cui qualcuno ha reciso la giugulare: il sangue caldo sta ancora uscendo a fiotti dalla mortale ferita del collo. Nessuno ha però visto l’assassino, che è sfuggito ai due in un niente. Sarebbe potuto uscire dalla porta, ma la trovano bloccata dalla catena interna, e dal balcone non è uscito perché Rasmussen lo avrebbe visto. E allora? Come ha fatto? Unica possibilità è la finestrella del bagno, che si affaccia però su una parete liscia e senza appigli. L’unica possibilità sarebbe una finestrella dirimpetto, appartenente ad un altro stabile: guarda il caso strano,  la finestra si affaccia nell’appartamento adesso abitato dal famoso commediografo Kerry Ott, che vive in un suo mondo privo di suoni: Ott infatti è sordo. Possibile che sia stato proprio Ott? Oppure sono stati Padre Finley, che pochi istanti prima è stato visto da Slipsky e Boaz, l’uomo dell’ascensore, andare via; o Paul Bean, andato via ancora prima di Finley, da casa di McCue? Il fatto è che i due uomini avrebbero un alibi inattaccabile che è dato proprio da Slipsky; eppure il primo, che abita nello stesso palazzo di Ott, e sul suo stesso pianerottolo, tra miriadi di gatti, è stato visto con i guanti sporchi di sangue (ma lui dice che era la carne che dà ai suoi gatti) ed uno lo ha perso a casa di Ott, dove è entrato ignorando che l’avesse presa in affitto il commediografo, da pochi giorni; invece Bean è stato aggredito per strada dai terribili figli di Kitty Kane, ferendosi e venendo rapinato del borsellino, che poi viene trovato a casa di Ott: sono stati loro a perderlo o è stato Ott, penetrato attraverso la finestrella? Il fatto è che per porre in comunicazione le due finestre sarebbe servita una scala o un’asse come quelle utilizzate dai pittori per dipingere le pareti delle stanze. E in effetti una, nell’appartamento occupato da Ott, viene trovata.

A occuparsi delle indagini è “Big” Bat O’Brien, Ispettore della Squadra Omicidi, che girerà, annasperà, e sarà fuorviato nelle indagini finchè Kerry Ott, con la complicità involontaria di un’argiope, dimostrerà che quella finestrella non sarebbe mai potuta essere utilizzata, per via anche di una ragnatela che la ricopriva totalmente. E farà comprendere all’ Ispettore chi mai possa essere stato a compiere due delitti assolutamente straordinari.

Opera di assoluto rilievo, è un vero pezzo di bravura. Possiede una tensione che accompagna il lettore fino alla fine, fin anche dopo la stessa individuazione dell’assassino, perché il finale è costruito come un thriller: riuscirà l’assassino a farla franca oppure no? Riuscirà grazie alla via di fuga che ha messo a punto, appunto una fune sospesa, ad evitare di essere preso?

Nel finale si risolvono anche le morti del figlio di Dan e della figlia, sposatasi prima a Johnny Tuxedo Blythe e poi a Paul Bean, e morta a causa di un’infezione da tetano, rimediata grazie al graffio di un gatto, portato da Padre Finley. E lasciano intravvedere un piano assolutamente diabolico.

Il romanzo ha poi delle caratteristiche che lo rendono se non unico, almeno raro: il plot ha un’atmosfera fortissima, che quasi tramuta la vicenda poliziesca in un una di orrore, per la bizzarria della situazione e per le componenti che Rogers lascia intravedere, curando di dare a ciascun personaggio un’aria benevola che contrasta e stride con una più nascosta: in questo, e nel finale per nulla scontato, può ricordare Fredric Brown o Philip Bardin. Ma una caratteristica ancora più diretta e riconducibile esclusivamente a lui, differenziandolo da tutti: è il suo stile letterario, che utilizza una lingua desueta talora, con vocaboli esclusivi. La costruzione stessa dei periodi, si avvale di una sintassi fortemente ricercata, quasi che prima di scrivere la frase, ne pesasse l’impatto sul lettore Talora possono risultare anche grottesche se non surreali.

Una tale prospettiva farebbe pensare ad una lentezza di scrivere, ma evidentemente in Rogers era una caratteristica innata il saper e il voler scrivere in siffatto modo, se pensiamo alle centinaia di racconti che scrisse. Da un certo punto di vista, della bizzarria e dell’orrore, le sue opere mi ricordano anche quelle di Stanley Ellin.

The Hanging Rope , da un altro punto di vista è una sorta di sintesi di Mystery (i due delitti impossibili) e di Hard Boiled. Da questo secondo genere, prende l’atmosfera claustrofobica, realizzata quasi esclusivamente in ambienti interni, e i temi trattati:c’è il commediografo che  ricorda tanto il giornalista di turno, c’è il politicante inviso (Dan McCue), c’è la femmina fatale (Kitty Kane), c’è l’assassino triste.

Tuttavia al di là dello stile barocco e ricercato (un esempio, a pag.93, è la descrizione della ragnatela: “Non è la tela sciatta e disordinata, tessuta alla bell’e meglio in un quarto d’ora da un teridio, ma il lavoro paziente di un argiope, una tela ottagonale, geometrica, impeccabile, con quattro raggi di seta. Un lavoro che richiede tempo. E’ un’opera di alto lavoro artistico” ), è da dire che il modo di colloquiare, rapisce il lettore. Mi ha ricordato – paragone certamente ardito – il modo di impostare la scrittura de À la recherche du temps perdu di Marcel Proust, con una tortuosità semantica che gira e rigira su un determinato fatto fino a rivelarne gli aspetti nascosti oltre che quelli visibili. Questo girare continuo sulle situazioni, fa sì che i sospetti siano gettati anche per le cose che apparirebbero più ovvie, su tutti i personaggi che compaiono nella trama: per esempio Paul Bean, che cade per strada, sbeffeggiato dai terribili figli di Kitty Kane, donna amata in passato da più d’uno dei personaggi, e che si concede al vecchio Dan. Non ci sarebbe nulla di strano se cadendo, Bean si fosse sbucciato le ginocchia e si fosse graffiato le palme delle mani e quindi sanguinasse; ma..il sospetto che gli fa cadere addosso Townsley Rogers è che quel sangue possa essere anche quello del vecchio Dan (quindi Paul sarebbe ritornato dopo essersene andato, nell’appartamento di Dan).

L’ultima cosa che mi val la pena di sottolineare è che la brillantissima uscita di Orr riguardante la tela del ragno, che in sostanza conclude ante litteram il romanzo, perché il finale non è realizzato per catturare l’assassino ma per far sì che egli esca di scena in modo spettacolare (si osservi come l’incedere nella novella sul tema del sangue: sulla maniglia della porta, sulle piastrelle del bagno, che sgorga dal collo di Kitty, che sgorga da quello dell’assassino, è forse la caratteristica più evidente di un barocchismo orrorifico, che è nel tempo stesso molto spettacolare e cinematografico: ognuna delle sequenze è come se fosse concepita come una posa ben distinta dalla successiva). Tuttavia è interessante sottolineare il particolare della ragnatela dell’argiope in quanto mi pare sia la diretta fonte di ispirazione per altra ragnatela che in altro romanzo, a noi più contemporaneo, ricopre il telaio di una finestra, come un vero vetro: sto parlando de La toile de Pénélope, di Paul Halter.

In un colloquio che ho avuto con lui tempo fa, gli chiesi, sempre ossessionato dalle citazioni e dai rimandi presenti nelle opere dello scrittore alsaziano, quando egli avesse preso dalla novella di Rogers l’idea della tela del ragno (precedentemente pensavo egli avesse utilizzato l’idea della tela di ragno sul balcone della finestra in un romanzo di Abbot, ma che non copriva tutto il telaio, come qui e poi nel romanzo di Halter). La mia domando lo spiazzò, perché ignorava che un altro romanziere avesse avuto la stessa idea. Poi si ricordò che avrebbe dovuto avere un romanzo simile, e alla fine mi rivelò che aveva letto il romanzo di Rogers dagli anni ’80 ma che non si ricordava proprio di quel particolare.

Ecco la mia domanda, in inglese e risposta sua in francese (talvolta uso il francese altre l’inglese, così come mi viene):

DP – For some time I believed that you had invented La toile de Pénélope, applying the spider web, which is found in About the Murder of a Startled Lady by Abbot. Instead, a few days ago I picked up a collection edited by Adrian & Adey, and I read a short novel, of which I put off reading for a long time, written by Townsley Rogers: “The Hanging Rope”, in which there is a spider web which occupies the entire window, across which would pass the murderer, if the spider had not been there. The idea of applying the idea from Rogers was yours?

Prima mi rispose così:

PH – Bonjour Pietro

Pour répondre à votre question : non, je n’ai jamais lu ce livre.

Comme je vous l’ai dit, l’idée vient de Vincent Bourgeois, qui pensait – j’en suis sûr – sincèrement qu’elle était tout à fait originale. Igor lui-même le croyait aussi après avoir lu La Toile de Pénélope.

Sur ce, je vais voir si ”The Hanging Rope” a été traduit en français…

Amicalement,

Paul

Poi, qualche giorno dopo, aggiunse:

Juste ce petit mot pour vous dire que, chose incroyable, j’avais dans ma bibliothèque les deux livres que vous avez cités. Ce sont les noms en anglais qui m’ont trompé!

Ainsi, The haning rope, de JTRogers est : Cauchemar d’une nuit d’été. Je l’ai relu séante pour constater que, en effet, une des issues (immeuble voisin) était bloquée par une toile d’araignée ! J’avais lu ce livre fin des années 80 et vraiment je ne me souvenais plus de ce détail.

Traspare la sua incredulità che un altro abbia inventato la sua cosa parecchi anni prima. Più di quaranta! E quindi ci credo che non fingesse, per come lo conosco. No, sicuramente non si ricordava di aver letto della tela, quando scrisse La tela di Penelope! Ma io credo che il riferimento si fosse comunque sedimentato in lui, inconsciamente, e poi avesse prodotto la trovata della tela del ragno che occupa il telaio della finestra.

Comunque sia tuttavia i due romanzi differiscono nella soluzione che è diametralmente opposta: in Rogers, la presenza della ragnatela impedisce che la finestra possa essere stata utilizzata come entrata del fantomatico assassino; in Halter, la presenza della tela del ragno non è di per sé un fatto che impedisca l’azione, perché egli, superandone l’ostacolo, spiega attraverso Twist come quella finestra sarebbe potuta essere utilizzata. In sostanza in Halter c’è il superamento dell’idea base, realizzando il “plus ultra”, rispetto all’altro, tenuto conto che però in Rogers, a legittimare la ragnatela è poi la constatazione che la finestra comunque era bloccata e inchiodata.

Insomma, l’idea della tela del ragno è la stessa, ma cambia tutto il resto.

 

Pietro De Palma

 

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Mignon Eberhart : La trappola (The Mystery of Hunting’s End, 1930) – trad. Alfredo Pitta – I Classici del Giallo Mondadori N.1346 del 9 maggio 2014

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Mignon Eberhart

 *******Spoiler*******

 

Circa 6-7 mesi fa chiesi a Mauro Boncompagni come mai non fosse ancora stato inserito nella programmazione della Collana de I Classici del Giallo, The Mystery of Hunting’s End di Mignon Eberhart, pubblicato negli anni ’30 ne I Libri Gialli (Palmine), col titolo “La Trappola”. Lui mi rispose che l’aveva inserito nella programmazione del 2014, augurandosi che potesse uscire ): è  uscito da meno di una settimana.

La traduzione è quella storica di tanti romanzi americani del periodo, affidata ad Alfredo Pitta.

Famoso come gran sforbiciatore (tagliava alquanto i romanzi), Pitta era però un eccellente traduttore oltre che anche un discreto scrittore (si provò anche lui come i vari Ciabattini, Vailati, Spagnol, De Angelis, d’Errico a rinverdire i fasti del Giallo made in Italy, che un decreto fascista stabiliva che dovesse essere attuato in un periodo in cui il Giallo all’inglese e alla francese, la facevano da padroni. Come traduttore,  i tagli che effettuava erano intelligenti; e così ancor oggi, i romanzi da lui tradotti, possono essere tranquillamente letti (magari rinfrescati, come è stato fatto probabilmente per quello in edicola).

Il romanzo The Mystery of Hunting’s End di Mignon Eberhart, il terzo da lei scritto, dopo La stanza N.18 (Patient in Room 18, 1929) e L’elefante di giada ( While the Patient Slept,1930), fu pubblicato con il titolo “La Trappola”, che può essere compreso solo dopo aver letto il romanzo.

Mignon Eberhart, fu una scrittrice statunitense popolarissima. Inventò il personaggio femminile dell’infermiera Sarah Keate, e lo inserì in un filone suo , contraddistinto da trame in cui c’era di solito una donna in pericolo, e in cui l’elemento misterioso si allaccia a quello romantico sentimentale, un po’ come i gialli rosa della serie Nancy Drew, “per signorine”, che sfornava Carolyn Keene (pseudonimo sotto cui si celavano parecchi autori dello Stratemeyer Syndicate, gruppo diretto da Edward Stratemayer, di cui la più famosa fu Mildred Augustine Wirt Benson che scrisse parecchi dei primi gialli della serie). A differenza di questi romanzi, che sono dominati dalla suspence, perché diretti più che altro ad un pubblico di ragazzi,  e che attengono a vicende in cui si muovono truffatori e ladri ma non assassini, e in cui quindi l’elemento violento è molto annacquato, quelli di Mignon Eberhart, che cominciò a scrivere nell’alveo dei romanzi di Mary Roberts Rinehart, contraddistinti da forti atmosfere e da un thriller spasmodico, contengono eccome omicidi! Anche se la vicenda è spesso intrecciata a ceneri romantiche.

Qui l’infermiera Sarah Keate, chiamata in causa dal detective Lance O’ Leary, suo amico, è coinvolta in una vicenda in cui domina la suspence ma anche il mistero.

Mary Kingery, figlia del finanziere Hubert Kingery, a distanza di cinque anni dalla morte del padre, avvenuta in circostanze non perfettamente chiarite, decide di voler sapere tutta la verità e per questo, riunisce nella residenza del padre, vicino Barrington, tutte le persone che erano presenti alla morte di suo padre, che accettano anche per non dire no, e quindi per allontanare  il sospetto che vi possano essere state coivolte: Julian Barre, Jasper Fraley, Nicholas Morse, Charles Killian, sono tutti amici e soci, e comunque personaggi connessi alla finanziaria fondata da Hubert Kingery; Jose Paggi è un tenore e sua moglie è Helen Paggi; Blanche Von Turcum è una baronessa; Lucy Kingery, è sorella di Hubert e zia di Mary; Brunker, è il domestico e Anne, la cuoca. Tutti erano presenti cinque anni prima. Gli ultimi due continuano a servire in casa, e come gli altri, avrebbero avuto validi motivi di risentimento, e quindi un valido movente per desiderare la morte di Hubert.

Apparentemente, Hubert è morto per attacco cardiaco, ma qualcosa non è chiaro e la stessa Mary non è persuasa che il padre sia morto in quel modo: fu trovato in pigiama, per terra, senza pantofole, con il letto approntato per dormirvi e sul comodino il lume acceso. Dentro una stanza chiusa dal di dentro. Questa circostanza autorizzò a pensare che la morte fosse avvenuta per cause naturali; in realtà, vi fu opera di dissimulazione e di corruzione nei confronti del medico che firmò l’atto di morte, perché egli tacesse sulla vera causa, cosa che viene rivelata da Lucy in secondo tempo: era morto per un colpo di pistola a bruciapelo che l’aveva colto in pieno petto. Ella, che “apparentemente” è stata colta da paralisi all’atto della morte del fratello, per il troppo bene che gli voleva, in realtà pare che l’avesse avversato in tutte le forme, per i giochi finanziari di quello troppo spregiudicati, volti ad arricchirsi a danno delle persone che lo circondavano, infischiandosene dei loro risparmi persi: tutti o quasi coloro che la nipote vuole che trascorrano quei giorni a La Vedetta, il luogo solitario da loro scelto, in mezzo alla sabbia.

Il fatto è che Mary vorrebbe anche evitare di sposare uno che potrebbe avere assassinato il padre: tra i suoi invitati c’è anche il suo promesso sposo.

Assegna le camere al piano terra, in un padiglione. Pochissimi vanno a dormire al primo piano, in cui la balconata si affaccia direttamente di fronte alla stanza in cui morì Hubert: ora quella stanza, finisce per dover andare ad uno tra Julian Barre, Jasper Frale e Charles Killian, cioè al secondo. Che poi è il fidanzato di Mary. Di notte, mentre Josè Paggi e l’infermiera detective Keate stanno parlando davanti al camino, e si trovano casualmente di fronte alla porta della stanza di Fraley, sentono prima un fruscio, come se qualcuno passasse in punta di piedi sopra di loro, nella balconata, poi sentono una detonazione che proviene dalla stanza. Vi trovano Jasper morto, colpito da una pallottola al cuore, mentre indossa un pigiama, i piedi scalzi ed il letto acconciato per la notte. La porta è aperta, ma loro che vi stavano davanti, anche se non frontalmente ma in posizione defilata, giurano e spergiurano che nessuno vi è uscito, per di più le finestre sono chiuse e la porta che mette in comunicazione la stanza con quella di Barre è chiusa da una sbarra. E non si è trattato di suicidio, perché si dovrebbe trovare l’arma e questa non c’è. Quindi…

Ma l’assassino/a cos’è ? Un fantasma?

Alcuni degli invitati sono impressionabili, perché il vecchio cane di Hubert, Gerico, guaisce tutte le volte che passa davanti alla porta dell’ex padrone e si comporta quasi che vi fosse una presenza soprannaturale tra loro.

La ricerca dell’assassino è quantomai ardua. Eppure è lì, tra di loro: non può essere scappato, perché fuori nevica, nevica, nevica incessantemente: la villa dove tutti sono riuniti, “La Vedetta”, è completamente isolata. Ma se l’assassino non può fuggire, non possono farlo anche gli altri, casomai lui volesse ammazzarne qualche altro. Già, perché Jasper prima di essere ucciso, durante la cena, aveva fatto cenno a certe carte che lui si era premunito di nascondere, che erano come un lasciapassare, e che contenevano le prove dell’attività fraudolenta della finanziaria di Kingery. Proprio per questo, Hubert aveva costretto la figlia a fidanzarsi con Jasper: era il prezzo del ricatto. Ora tutti cercano queste carte.

Prima scompare un foglio trovato da Keate nella stanza del morto, contenente una sequenza di numeri e indirizzato a Morse; poi scompare il parrucchino del morto, che poi ricompare (lo trova Sarah) per poi scomparire di nuovo e di nuovo ricomparire; poi scompare addirittura il morto, mentre c’è chi giura, la baronessa, che in quella stanza non era entrato nessuno.

Reticenze, mezze verità, bugie, tutto concorre per inficiare l’indagine della coppia Keate-Leary. Anche la volontà di alcuni degli invitati, prima che il cadavere scomparisse, di farlo scomparire, perché se il cadavere non c’è e quindi non c’è la prova di un reato, non ci può neanche essere (in teoria) un’indagine.

La situazione dei presenti diventa assurda, le cibarie cominciano a scarseggiare, perché la loro tenuta è completamente isolata nella tormenta di neve. E intanto l’assassino colpisce.

Prima cerca di avvelenare con la stricnina il cane. Poi, quando la neve finisce di cadere, e Morse vorrebbe andare via per cercare soccorsi, cerca di ammazzare O’ Leary, colpendolo alla testa con un attizzatoio, di notte, mentre è sprofondato in una delle poltrone della sala. Infine ammazza Morse, infilandogli un ferro da calza, che l’infermiera aveva perso, nel cuore. E ne nasconde il cadavere.

Sarà Leary a spiegare all’impaurita Keate, come Hubert e Jasper sono stati ammazzati e a indurre l’assassino a scoprirsi.

Con questo romanzo, Mignon Eberhart vinse nel 1931 lo Scotland Yard Prize. Perché?

Indubbiamente ci troviamo dinanzi ad un buon romanzo che ha delle caratteristiche ben specifiche (anche se le descrizioni che probabilmente sono state assottigliate nella traduzione italiana, probabilmente  avrebbero contribuito a meglio inquadrarle): una atmosfera opprimente e claustrofobica, che è un po’ la caratteristica di tutti quei romanzi in cui la casa è nel mezzo di qualcosa da cui i suoi occupanti non possono fuggire: un ciclone (La casa nel ciclone, di Newton Gayle), il mare (Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie), porte elettrificate (L’Ospite invisibile, di Bristow & Manning), un incendio nel bosco (Il Caso dei gemelli Siamesi, di Ellery Queen); la presenza di condizioni climatiche e atmosferiche estreme (è qualcosa che appare anche in altri romanzi della Eberhart); una donna in pericolo (qui c’è l’infermiera, ma anche Mary Kingery); una storia d’amore (quella tra Killian e Mary); una indagine che si muove più per eventi isolati che invece per una concatenazione di tessere messe a posto; una storia più che poliziesca, romanzesca, ma neanche tanto; e soprattutto una soluzione che pur riuscendo convincente, lascia il passo a dei bug qua e là. Tuttavia, proprio per la stranezza dell’indagine, che si discosta parecchio da quella più classica, tipica del Mystery, la Eberhart che a torto o a ragione (da questo primo romanzo, direi più, “a torto”) venne definita la Agatha Christie d’America, si apparenta più al genere Suspence o Thriller, visto che la soluzione non arriva come la logica conclusione di un certo discorso, ma come il tentativo riuscito, da parte del Detective, che sospetta ma non ha le prove (dice lui), di costringere colui che pensa sia l’assassino a scoprirsi,  costringendolo assieme ad altre persone che fanno da specchietto per le allodole, a evitare di essere sparato dal congegno che lui stesso ha approntato in precedenza. In sostanza il lettore aspetta solo di vedere se l’assassino si scoprirà o meno, perché lui non ha capito chi possa proprio essere (io l’avevo capito ma per altro ragionamento, che non rivelo, e che è insito nell’assegnazione delle Camere: come mai proprio Jasper muore? E questo non perché sia tonto, ma perché l’autrice non fornisce gli indizi in maniera chiara (salvo poi spiegarne il significato dopo: “Recondite Armonie”!) perché possa capirlo. Ecco perché il finale! Ecco perché cerca di indurre in trappola l’assassino, dopo che la trappola per tanti giorni era stata la stessa casa in cui erano stati costretti a vivere!

Nonostante ciò il romanzo fila che è un piacere. Merito della Eberhart che confeziona tutto sommato un bel romanzo e merito anche di Pitta che sforbicia è vero, ma con raziocinio.

E’ evidente che LA TRAPPOLA è una classica Camera chiusa, pur non sembrando tale a prima vista: riassume il caso presente in It Walks By Night di Carr (La porta non era chiusa ma era tenuta sott’occhio da persone fidate), e quello dei romanzi in cui l’assassino anche se materialmente può sembrare che fosse presente, non lo era (in sostanza si ripresenta il caso descritto in The Greene Murder Case di Van Dine, in cui una pistola è azionata con un congegno apposta predisposto); e ovviamente, come abbiamo detto prima, potrebbe dirsi una Camera Chiusa allargata, essendo la casa stessa una grande Camera chiusa, dalla quale, per la tormenta di neve in atto, l’assassino non può essere fuggito.

Il fatto che alcuni critici importanti stranieri non abbiano espresso calorosi apprezzamenti nei riguardi di questo romanzo, è da mettere in relazione probabilmente alla natura della Camera Chiusa. Ne parla Carr nella sua Locked Room-Lecture in The Hollow Man:

Primo! C’è il delitto commesso in una stanza ermeticamente sigillata che è realmente sigillata ermeticamente e dalla quale nessun assassino è mai uscito perché nella stanza non c’era nessuno” ( http://blog.librimondadori.it/blogs/ilgiallomondadori/2011/07/29/dissertando-di-camere-chiusejohn-dickson-carr-vs-clayton-rawson/ ).

E’ evidente che non può essere accaduto che  l’assassino abbia inscenato una qualche pantomima allo scopo di distrarre lo spettatore, entrare ed uccidere il malcapitato facendo credere che fosse già morto (come in The wrong shape di Chesterton), perché in questo secondo caso, ci sarebbe il concorso del colpevole e quindi un’azione spettacolare volta ad inscenare qualcosa; e quindi non si spiegherebbe lo scarso credito della critica specializzata. E’ evidente quindi che ricadiamo in altra casistica.

Leggendo anche voi il romanzo, capirete a quale dei tipi di Camera Chiusa di cui parla il Dottor Fell, possa ascriversi questa. Direi che in un certo senso, possa essere accostata ad un’opera di Carr scritta con il suo pseudonimo, Carter Dickson, a quattro mani assieme al suo amico John Rhode, Fatal Descent :

chi ha letto il romanzo potrà forse immaginare a cosa io voglia alludere; chi non l’abbia letto (un capolavoro) non dovrà fare altro che acquistarlo.

Pietro De Palma

The post Mignon Eberhart : La trappola (The Mystery of Hunting’s End, 1930) – trad. Alfredo Pitta – I Classici del Giallo Mondadori N.1346 del 9 maggio 2014 appeared first on La morte sa leggere.

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