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Christianna Brand : Tour de Force, 1955 – trad. Marilena Caselli – I Classici del Giallo Mondadori N° 1164 del 2007

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tour de force 001Tour de Force di Christianna Brand è un romanzo che non si può non leggere. Anzi, è un romanzo che chiunque ami il genere Mystery, deve possedere; e chi non lo possiede, deve mettersi alla sua ricerca.

Di Christianna Brand abbiamo già parlato e quindi non mi ripeterò; dico solo che questo romanzo appartiene alla serie dell’Ispettore Cockrill, cioè la serie più prolifica della scrittrice brittanica  (evidentemente quella a cui lei teneva di più), concludendola.

Dei 6 romanzi che formano la serie:

Heads You Lose, 1941 – Cockrill perde la testa, I Classici del Giallo Mondadori n. 890

Green for Danger,1944 – Delitto in bianco, I Classici del Giallo Mondadori

Suddenly at His Residence, 1946 (USA: The Crooked Wreath) – Uno della famiglia, I Bassotti n.39

Death of Jezebel,1948 – Morte di una strega, Il Giallo Mondadori n. 2382

London Particular, 1952 (USA: Fog of Doubt) – Quel giorno nella nebbia, Il Giallo Mondadori n. 1305

Tour De Force, 1955 – Tour de Force, I Classici del Giallo Mondadori n. 1164,

è come se Tour de Force fosse il canto del cigno della serie: ignoro se, quando fu scritto, la Brand avesse deciso di non scriverne altri o no. Fatto sta però che in questo romanzo c’è veramente di tutto e a ben donde può definirsi un romanzo straordinario.

 

L’Ispettore Cockrill è in vacanza. Insieme ad altre persone, sta intraprendendo un tour alla scoperta dell’Italia: meta ultima è l’isola di San Juan de Pirata, un isolotto prospiciente la Sardegna, non soggetto alle leggi italiane, ma a quelle di un Granduca locale, una sorta di sovrano assoluto: l’isola deriva il nome dal fatto che nel passato è stato un porto di pirati e ancora nel periodo in cui la storia si svolge, è sede di un fiorente commercio di contrabbando, principale attività economica assieme al turismo balneare.

 

Dopo una serie di mete intermedie, in città italiane d’arte, cultura e bellezze naturali (Milano, Siena, Rapallo, etc..), il tour della Odyssey arriva a San Juan el Pirata. Si può dire.. finalmente, visto che fino a quel momento si è trattato di una vera e propria odissea: cibo pessimo, alberghi arrabattati, tour sgangherato. Per cui, l’incavolatissimo Ispettore Cockrill, che si è pentito mille volte di aver pensato di concedersi anche lui una gita in Italia, è ben contento di essere alloggiato in un signor albergo, il Bellomare Hotel, con spiaggia privata.

 

La compagnia è quantomai variegata: c’è uno stilista, Cecil; c’è il musicista Leo Rodd che ha perso una mano, con la moglie Helen Rodd, che lo aiuta e lo assiste; c’è la Edith Trapp, turista dal passato ignoto ma che dev’essere certamente ricca, visto che gli oggetti di cui si serve, gli accessori di moda ed i vestiti che indossa sono di ultimo grido in quanto a raffinatezza e qualità; c’è Fernando Gomez, la guida della Odyssey; ci sono infine Vanda Lane, una turista alquanto timida e riservata, e “Louli” Louvaine Barker, celebre scrittrice.

Ben presto, si rendono manifeste delle attrazioni pericolose: Fernando fa la corte a Edith Trapp e..fin qui nulla di male; la cosa pericolosa invece è il rapporto extraconiugale che si instaura tra Leo Rodd e Louvaine Barker, resto tanto più pericoloso dal fatto che la moglie ha capito tutto: oramai è abituata alle scappatelle del marito, ma lo ama e lo perdona perché lui, povero in canna, ritorna sempre da lei, ricca; tuttavia, questa volta la cosa è differente, perché Leo ha giurato a Louvaine che fuggirà con lei, e la moglie ha capito che questa non è una storia come le altre. Il bello è che oltre ad essere desiderato da Louli, Leo è amato anche da Vanda Lane

Il mare e azzurro, la spiaggia è incantevole e i turisti ne godono appieno.

Vanda Lane che si vanta di essere una grande tuffatrice, delizierà gli altri coi suoi famosi tuffi, ma prima delizia proprio Cockrill con uno strano discorso, col quale mette alla berlina i segreti degli altri compagni di avventura, che avrebbero una doppia vita o almeno degli scheletri da nascondere negli armadi: Edith Trapp e Fernando Gomez, Helen e Leo Rodd.

Fatto sta che comincia a tuffarsi, e lo fa da un trampolino posto su una punta di scogliera; lì vicino c’è proprio la signora Trapp che per godersi un’abbronzatura più integrale possibile, ha schierato una serie di ombrelloni e di asciugamani davanti a sé a formare una cortina impenetrabile agli sguardi, ma da cui è impossibile anche uscire senza essere notati. Tanto più che Cockrill si è scelto una posizione sulla spiaggia da cui casualmente può dominare con lo sguardo i suoi compagni senza che essi per forza lo debbano vedere, in quanto è, rispetto a loro, in posizione più alta.

Al secondo tuffo, la Lane commette uno sbaglio ed entra in acqua male, facendo una “panciata”. Si scusa e si avvia verso la terrazza dell’albergo per andare a rimettersi in sesto in cabina; si ferma solo un attimo pare con Louli Barker che di lì a poco, neanche due-tre minuti scende.9780786703401

Poi tutti quanti si immergono nel sole. Louli si appisola, nel suo ridottissimo bikini bianco accanto a Cockrill, disincantato ma che qualche occhiata di tanto in tanto la scocca alla sua compagna occasionale; la Trapp nuda o quasi è dietro la cortina; Cecil è sopra una papera gonfiata disteso ad arrostirsi al sole; Fernando si esibisce in strani stili natatori per fare colpo su Edith Trapp, mentre Leo ed Helen stanno entrambi sotto una tettoia che servirebbe a riparare solo uno, col fatto che il primo è per metà sotto il sole, e la metà è riparata da fogli di musica. E il pomeriggio si trascina finchè il sole non muore all’orizzonte. E solo allora ritornando in albergo, attraverso la terrazza, si accorgono che non solo il sole è morto, ma anche..Vanda Lane.

Per caso entrano nella sua stanza e la trovano lì, composta sul letto, adagiata su un grande scialle rosso, non suo ma di Louli, con le mani strette attorno all’impugnatura di un pugnale piantato nel petto, e i capelli sciolti attorno alla testa, come se fosse una vittima sacrificale e quello fosse un qualche rito. Assassinata non c’è dubbio, perché si trovano tracce di sangue e di acqua nel bagno, come se qualcuno dopo l’assassinio sia andato a lavarsi. Ma se qualcuno si fosse sporcato, facilmente non sarebbe passato inosservato, perché di sangue ne è schizzato e si capisce pure dove l’assassinio è stato commesso: dietro un tavolo, al quale presumibilmente la vittima sedeva. Vi sono gocce di sangue e la sagoma di qualcosa di rettangolare, un libro, un quaderno, qualcosa, che poi viene trovato. E’ un diario, con delle annotazioni, che fanno capire come l’attività della Vane fosse il ricatto: ad ogni pagina c’è un’annotazione riguardo a ciascuna delle persone costituenti il gruppo di turisti, compreso l’Ispettore, e poi in basso un numero cerchiato, rappresentante la somma che si sarebbe voluta estorcere.

Ma perché proprio uno di loro? Perché una persona in costume da bagno, anche se bagnato, non  avrebbe destato sospetti, in quanto sarebbe sembrato come uscito dal mare, come se non si fosse adeguatamente asciugato.

L’assassino è un ricattato che ha perso la testa? Questa è la prima delle supposizioni. Fatto sta che sorge spontanea l’esigenza che tutto rimanga così com’è, tanto.. è morta una ricattatrice!

A capo della polizia c’è il Gerente che deve rispondere del suo operato all’Exaltida, il Granduca del piccolissimo stato insulare.

Cockrill interpellato sugli spostamenti dei suoi compagni, in un primo tempo afferma che dalla posizione dove stava lui avrebbe dovuto accorgersi se qualcuno fosse risalito per uccidere Vanda Lane, ma non ha visto nessuno. Tuttavia, l’Ispettore Cockrill capisce subito che i suoi interlocutori tutto sono meno che fessi e che deve darsi da fare a trovare l’omicida, perché altrimenti lui diventa il primo della lista dei sospettabili: infatti se lui poteva vedere tutti senza essere visto, i restanti, proprio perché più in basso di lui, non potevano accorgersi di cosa lui avesse fatto; e in quel piccolo stato, vige la pena di morte, per assassinio: se gli altri non sono stati, non rimane che lui. Quindi Cockrill è costretto per discolparsi, quando viene arrestato, perché così egli possa capire che deve darsi da fare, rivedere la posizione di tutti quanti ed indagare.

La prima colpevole indicata è Helen. In base alle supposizioni di Cockrill lei avrebbe potuto eclissarsi alle sue spalle senza che lui se ne fosse potuto accorgersene, e riuscire a penetrare nell’hotel dove avrebbe ucciso Vanda. Già ma Leo non è innamorato di Louli e da lei ricambiato? E’ vero, ma la moglie potrebbe averlo ignorato e invece pensato che il marito se la intendesse con Vanda.

Tuttavia Helen viene accoltellata di notte con un tagliacarte simile a quello che ha ucciso Vanda, tanto maldestramente da far pensare ad una recita. E con  Helen che sembra la colpevole predestinata, lo stesso Leo viene convocato al palazzo del Granduca. Ma quando ritorna all’albergo, marito e moglie si riavvicinano. Ognuno sa che l’altro non è stato; e allora? Dev’essere stato un altro! Ma chi? La sola persona che non può essere sospettata, e l’unica che non sia sospettabile è Louvaine Barker, perché dormiva al fianco di Cockrill e quindi sicuramente non può essersi allontanata. Eppure è lei, visto che Leo sembra non avere occhi che per la moglie, a uscire allo scoperto ed autoaccusarsi dell’omicidio, spiegando il modo ingegnoso con cui l’avrebbe commesso; inoltre, rivela che lei e Vanda erano cugine, e che la vera scrittrice non era Louli ma Vanda: siccome la seconda era timida e terrorizzata dal mondo circostante ed incapace di rapportarsi con la società, d’accordo con lei, era stata Louli a presentarsi al mondo come la scrittrice affermata, mentre Vanda nel suo piccolo aveva continuato a sfornare romanzi di successo.

Ma perché l’omicidio? Quale il movente? Una lite per Leo fra le due donne sfociata nell’omicidio e poi l’assumere l’identità di Vanda (tanto si assomigliavano parecchio le due donne) struccandosi e quant’altro tanto per farla vedere; poi sarebbe bastato riassumere la propria identità, togliendosi scarpette di gomma, cuffia e costume nero, metterle da qualche parte, e riapparire col minuscolo bikini bianco che aveva indossato dapprima, al di sotto del costume nero.

OK. Parola fine.

Neanche per sogno! I dubbi riprendono quando Louli, che è salvata dall’arresto proprio da Helen, si accorge che Leo l’ama ancora, e allora ritratta, Cockrill le dà ragione e così ci si ritrova al punto di prima: possono essere stati tutti! Anche Cecil che stava a largo sula sua papera, sarebbe potuto arrivare a riva nuotando sott’acqua e indossando la maschera e il respiratore di Leo, così come sarebbe potuto essere Fernando, o Leo, o Helen, o Edith. O averlo fatto, mettendosi d’accordo più persone e svolgendo le operazioni relative alla messinscena poco alla volta. Insomma tutto e il contrario di tutto.

Su tutti incombe però il giudizio di Exaltida, che deve fermare uno, per poter lasciare liberi gli altri. Chi sarà mai l’assassino/a? Spetterà a Cockrill appurarlo, in un finale pirotecnico, in cui accadrà di tutto, fino al colpo di scena finale, quasi da romanzo d’appendice.

Romanzo poliedrico, sfaccettato come non mai, avrebbe potuto a ben donde chiamarsi Niente è ciò che sembra: infatti mai come in questo romanzo, bisogna stare attenti a come la realtà viene presentata perché qualsiasi cosa può avere un doppio aspetto. Chiunque dei sospettati si scoprirà avere un doppia identità che aveva tenuto nascosta, non per forza collegata all’omicidio ma neanche da ignorarsi. Così, se proprio volessi definire in altro modo questo romanzo, parlerei del romanzo dei doppi.

Sì lo so, io ho un debole per il Doppio nei romanzi gialli, ma in questo caso il riferimento al romanzo di Ellery Queen, dedicato al doppio, è quantomai azzeccato: infatti, l’omicida ricalca una caratteristica peculiare presente in quel romanzo, e in un altro celeberrimo di Agatha Christie. Anzi, potrei dire che è stato proprio per questa caratteristica che io ho individuato facilmente l’omicida, chiedendomi purtuttavia come avesse fatto.

In altro articolo dedicato a questo romanzo, un mio conoscente d’oltreoceano, John Norris, definì Christianna Brand “the mistress of the multiple solution murder mystery”, alludendo alla presenza di soluzioni multiple nei suoi romanzi (faceva riferimento a Death of Jezebel e Suddenly His Residence) Io francamente, pur ammettendo la presenza di soluzioni multiple nei suoi romanzi, non penso che sia la “Signora delle multiple soluzioni”, perché sembrerebbe quasi che ciò fosse un fatto suo peculiare. E che per ciò si fosse distinta in rapporto agli altri romanzieri del genere. In realtà non è stata la sola ad avere considerato più soluzioni legate a diversi sospettati in diversi suoi romanzi: un romanziere che normalmente presenta multiple soluzioni nei suoi romanzi è, per esempio, Anthony Berkeley (per es. in The Poisoned Chocolates Case (1929), Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati, in cui vi sono sei differenti soluzioni; o in Il veleno di Wychford, The Wychford Poisoning Case, 1926, in cui sono contemplate quattro soluzioni; e almeno quattro soluzioni diverse, ogni volta presentate e poi superate, sono presenti in Il veleno è servito, Not to Be Taken, 1937); poi c’è Ellery Queen (almeno, con le sue diverse soluzioni in The Greek Coffin Mystery, Il caso Khalkis, 1932 e in The Egyptian Cross Mystery, Il caso delle croci egizie, 1932); e ancora Leo Bruce (famosissimo il suo Case for Three Detectives, Un caso per tre detectives, 1936, in cui sono contemplate quattro soluzioni, prodotte da quattro diversi personaggi).  Semmai, se dovessi inquadrare una caratteristica peculiare nei suoi romanzi, sarebbe quella di creare dei puzzles estremamente complessi, giocando soprattutto sullo scambio di identità e sulla doppiezza dei singoli personaggi: in questo caso di doppiezze (cioè di una immagine presunta e di una vera di ciascun personaggio) ve ne sono a iosa (Edith Trapp, Cecil, Leo Rodd, Fernando, Louvaine Barker, Vanda Lane) così come vi è uno scambio di identità tra Louli e Vanda, uno di cui si saprà nel prosieguo tra Cecil e una certa Jane Woods, ed un altro ancora che introdurrà alla soluzione finale, che rivoluzionerà ancora le carte in tavola.

Una cosa che non capisco c’è tuttavia, ed è legata al perché questo romanzo da alcuni sia inquadrato come una Camera Chiusa. Non lo è affatto! Piuttosto contempla una situazione da Delitto Impossibile: non è impossibile come l’assassino sia riuscito a uscire dalla stanza, quanto come egli/ella abbia potuto commettere l’omicidio, visto che nessuno apparentemente si è allontanato per commetterlo, essendovi impossibilità materiale e temporale che uno dei presenti, gli unici che potessero averlo commesso, possa esser stato l’omicida. Per di più, il romanzo si avvicina moltissimo ad un altro celeberrimo romanzo con Delitto Impossibile che avviene in una location simile, Corpi al sole, Evil under the sun, 1941, di Agatha Christie. Eppure il romanzo viene inserito nell’appendice a Mystères à Huis Clos (2007), in cui sono citate solo grandi Camere Chiuse, da Roland Lacourbe: non so che dire!

Il romanzo è indicativo anche per una certa sarcastica critica dei cosiddetti Operator’s Tour: non so fino a che punto la critica delle condizioni di viaggio (insetti, igiene, cibo, hotels di altalenanti requisiti non rispondenti a quanto pagato e a quanto promesso nelle condizioni iniziali) del tour in Italia (si noti l’accenno alle acque di Rapallo, torbide per la presenza di scarichi fognari direttamente in mare) non celasse una certa presa di distanza dal viaggiare per forza all’estero, e per forza in paesi rinomati per arte, cultura e quant’altro: le prime pagine sono infatti dedicate alle descrizioni di questo tipo di critica vacanziera, il cui unico scopo forse può ravvisarsi in una specie di paradosso: nei luoghi d’Italia in cui i turisti sono alloggiati in alberghi non tutti di alta classe, in cui mangiano cose non tutte di loro gusto, e sono esposti a condizioni di caldo insopportabile, non accade nulla; laddove invece finalmente trovano un angolo di paradiso in cui riposarsi, ecco che vengono a trovarsi in un vero e proprio incubo.

Un’ultima cosa mi viene da mettere in risalto: la location della tragedia.

Christianna Brand non solo è stata una grande autrice di romanzi polizieschi ma si è anche distinta nella letteratura per l’infanzia (Tata Matilda). E allora perché non pensare che abbia voluto ricordare, onorandolo, James Matthew Barrie, ed il suo Peter and Wendy (Peter Pan), inventando un’isola immaginaria nei pressi della Sardegna, una sua Neverland, San Juan el Pirata (guarda caso anche in Neverland ci sono i pirati!) ?

Ipotesi suggestiva, non vi pare?

 

Pietro De Palma

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John Dickson Carr : Rombi di tuono per il dottor Fell (In Spite of Thunder, 1960) – trad. Mauro Boncompagni – 1^ ediz. Il Giallo Mondadori N.2271 del 1992, 2^ ediz. I Classici Mondadori N.1349 del 2014

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Il romanzo di Carr risale al 1960. In origine questo romanzo in Italia era stato pubblicato da Editrice Ellisse col titolo “E adesso, Dottor Fell?”.

La prima edizione Mondadori fu allestita nel 1992 per Il Giallo, con la traduzione di Mauro Boncompagni, una delle prime che lui realizzò per Mondadori.

Eva Eden è un’attrice famosa, ma lo diventa maggiormente quando, nella Germania nazista, fa propaganda al regime. Fidanzata di Hector Matthews, viene invitata con lui a Berchtesgaden, nel Kehlsteinhaus di Adolf Hitler. Mentre è lì, Matthews, un bell’uomo alto, ma che non ha mai sofferto di vertigini , cade dalla terrazza, sfracellandosi nel burrone sottostante. E’ evidente che si tratti di incidente, perché non ci darebbe stato alcun motivo per suicidarsi, e per di più Eva era distante qualche passo da lui  come i testimoni Gerald Hathaway e Paula Catford, pure lì affermano, cosa del resto suffragata dai gerarchi nazisti lì presenti. Che però avrebbero avuto validi motivi per mentire e fare un favore alla bella Eva, che alcune voci dicono sia stata la causa della morte di Mathhews.

Anni dopo, Eva, che si  è sposata nel frattempo col famoso attore Desmond Ferrier e vive a Ginevra, vorrebbe togliere definitivamente ogni chiacchiera maligna sul proprio conto. Ecco perché invita i due testimoni del lontano episodio del 1939 di Berchtesgaden. E invita anche Audrey De Forrest, di cui è infatuato il figliastro di Eve  e figlio di Desmond. Audrey in realtà ha accettato la corte di Philipp quasi per ripicca nei confronti di Brian Innes, un pittore che vive a Ginevra, che non vuole riconoscere di esserne innamorato e che è amico del padre di lei, il quale, conoscendo la sinistra fama di Eve, chiede a Brian di impedire che la figlia accetti l’invito di Eve. Infatti lui è uno di coloro che credono Eve essere stata la causa della morte di Matthews, ed ora stranamente gli altri due invitati sono quelli che erano presenti diciassette anni prima alla morte dell’attore. Audrey non accetta e parte per Ginevra. Quando Eve Ferrier va all’Hotel du Rhône, dove Innes sta cenando con Sir Gerald Hathaway, avviene uno strano incidente: una bottiglietta che dovrebbe contenere profumo, contenuta nella sua borsa, in realtà contiene, a sua insaputa, acido solforico. L’indomani di questo strano incidente, ne avviene uno ben più grave, quando Eve, nella sua villa, cade da un alto balcone, sfracellandosi nel burrone sottostante, come se fosse stata buttata da qualcuno; solo Audrey è vicina, ma non tanto da averla spinta. Stranamente questa morte ripete quella di Matthews.

Desmond Ferrier, il marito di Eve, padre di Philipp ha nel frattempo chiamato Gideon Fell, suo amico a sbrogliare la matassa, cosa che il mastodontico Fell farà non prima che un attentato da parte di un personaggio mascherato, ne L’antro delle Streghe, un caratteristico locale di Ginevra, abbia  mancato per un soffio Audrey.

Classico romanzo di un Carr già acciaccato da problemi di salute, non è incentrato su una Camera Chiusa, come suo solito, ma su un’ affascinante variazione del delitto impossibile: ossia come sia possibile uccidere a distanza e con che arma, senza lasciare traccia, e facendo in modo che tutto lasci pensare che si tratti di un incidente. Questa variante di delitto impossibile era stata già vagliata da Carter Dickson, pseudonimo di Carr, precedentemente, nel 1939. E proprio il 1939, diventa il trait d’union tra il romanzo di oggi ed uno di ieri, tra John Dickson Carr e Carter Dickson, tra le due facce di una stessa medaglia. E’ come se Carr, cinquantatreenne, avesse voluto riprendere un discorso, riaffermando la sua identità, e legando In Spite of Thunder a filo doppio con l’altro: The Reader Is  Warned, Lettore, in guardia !, un romanzo della serie di Henry Merrivale, in cui si dibatte se è vero che un assassino possa uccidere a distanza, realizzando il cosiddetto “delitto perfetto”. Ma, come due romanzi sono legati attraverso il tempo, così anche nello stesso romanzo presentato oggi, due delitti si ropetono nel tempo, parrebbe alla stessa maniera: infatti, attraverso il delitto attuale, si reitera il ricordo di un altro accaduto nella fiction nello stesso anno in cui Carr/Carter Dickson aveva pubblicato il suo romanzo, appunto il 1939.

Ovviamente Carr ci sguazza in situazioni di alterazione storica, di flash-back: ha modo di inventare un contesto plausibile, di descriverlo con colori vividi e di far calare il lettore in un’atmosfera ancora una volta unica: quella della Germania nazista, pochi mesi prima dell’invasione della Polonia. Secondo me, Carr è stato il più grande romanziere storico di genere poliziesco, mai nato. La sua tecnica è diversa da quella seguita più comunemente oggi, almeno in Italia: mentre oggi più che altro si affermano gli artisti e letterati detectives (Leonardo Da Vinci, Dante Alighieri, Pico della Mirandola) in Inghilterra ancora il Giallo storico, derivato da Carr, quello cioè in cui viene ricreata l’ambientazione, fedele il più possibile, in cui si muove un certo personaggio: è il caso seguito in Devil Velvet, oppure in The Witch of the Low Tide, e in quei tutti romanzi quasi tutti senza personaggio fisso, in cui Carr ricrea mirabilmente un certo avvenimento storico (a questa impostazione è fedele da noi, Comastri Montanari più che altro). Tuttavia, Carr, nel romanzo che presento, crea una sintesi: allaccia il passato al presente, e lo fa attraverso la rievocazione storica di taluni personaggi: ricrea così il tempo immediatamente antecedente all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Come fa? Introduce un certo ambiente (nel nostro caso è il Nido d’Aquila di Adolf Hitler, la Kehlsteinhaus, a Berchtesgaden, sulle Alpi Bavaresi, il famoso rifugio di Hitler su un picco delle montagne ( dotato di un ascensore personale ) in cui il dittatore riceveva di solito rappresentanze (Mussolini glielo dotò di camino adornato di marmo rosso italiano). E lo fa in maniera suggestiva. Mette persino intorno a Eve e Matthews, sulla terrazza – quella che si vede in alcune foto d’epoca con Hitler, Eva Braun, Gobbels – lo Scharführer Hans Johst  con alcuni altri personaggi minori nazi  . Ora che Hans Johst  fosse o meno Scharführer non lo so né gli fosse stato conferito il grado come una sorte di riconoscimento ( era il primo grado di ufficiali delle SA e poi uno dei gradi più bassi delle SS, una specie di Sergente) ma è certo che Hans Johst  non è un soggetto inventato: infatti Johst  fu nella Germania nazista quello che nel regime sovietico fu Majakovskij, ossia il poeta di regime.

E’ bene dire che anche il modus operandi dell’assassino, il suo strumento di morte, l’arma cioè, per quanto impropria e già introdotta in un  radiodramma del 1942, già prima che Fell chiarisca come abbia fatto l’assassino ad uccidere a distanza ( il modo và detto è quantomai carriano perché carico di suggestioni) viene annunciata in tono sommesso, come se Carr desse al lettore attento un indizio su come indirizzare la sua indagine, sottovoce. Infatti a pag. 122 dell’edizione del 1992, Carr fà raccontare la storia di un celebre delitto, per cui la Svizzera è famosa, quello dell’Imperatrice Elisabetta d’Austria, nle 1898, a Paula Catford: l’imperatrice fu pugnalata da uno stiletto così sottile che non si accorse di esserlo stata, e così camminava non sapendo di essere virtualmente già morta: infatti lo stiletto aveva trapassato il cuore e il polmone, determinando una emorragia interna importante, cosicchè di lì a pochi istanti la vittima morì non sapendolo. Ora, attraverso questa rievocazione, a parere mio, Carr fornisce subdolamente, un indizio importantissimo al lettore attento. E’ come se dicesse: “guarda, anche in questo caso non si tratta di assassinio a distanza, ma di qualcosa che è stato fatto prima, di cui la vittima non si è accorta, se non nel momento in cui è deceduta!”. E nel ricordare il famoso delitto di Ginevra, Carr ancora una volta fa un flash-back, riprende, cose di cui aveva parlato anni prima.

Come nel mio primo breve saggio pubblicato sul Blog Mondadori, che parecchi ricordano, incentrato sui primi 4 racconti di Bencolin, mettevo in luce le affinità tra Bethune e Bencolin, e quindi tra il romanzo del 1972, Deadly Hall e quello del 1930, It Walks By Night (http://blog.librimondadori.it/blogs/ilgiallomondadori/2009/09/07/la-prima-produzione-di-john-dickson-carr-i-quattro-racconti-di-bencolin/ ), così Carr in questo romanzo fa un altro flash-back. Infatti, ricordando il caso del 1890, è come se stendesse un ponte temporale e ritornasse indietro nel tempo, quando in He Who Whispers, 1946(Il Terrore che mormora), aveva parlato di un delitto simile: i giochi di specchi sono sempre in agguato in Carr!  Infatti in quel romanzo del 1946, si parla di un Dottor Georges Antoine Rigaud, che avrebbe dovuto tenere una conferenza su un celebre delitto che coinvolse una famiglia inglese a Chartres, in Francia, nel 1939 e che poi muore in circostanze a dir poco misteriose, sul tetto di una torre. Guarda caso ecco di nuovo il 1939. E’ come se fosse un catalizzatore! E come non riconoscere l’evidentissima somiglianza tra il Rigaud di He Who Whispers e il Grimaud di The Hollow Man? Non solo. Il gioco di specchi tra questi altri due romanzi è chiaro: Fay Seton, personaggio presente nel primo dei due romanzi, era stata accusata dalla calunnia del popolino di Vampirismo. E guarda caso qual’è uno dei temi del secondo? Il vampirismo. Che poi ricorre anche in un radiodramma, Vampire Tower, titolo che sarebbe dovuto essere quello al posto di The Hollow Man, se all’inizio della prima stesura fosse seguito un seguito. Invece, come pochi sanno, dopo il falso inizio di Vampire Tower,( il romanzo, non il radiodramma!) in cui era calato di nuovo Bencolin, Carr preferì cambiare registro e inserire il Dottor Fell:

“After the false start in Vampire Tower (which he had rewritten as The Three Coffins), Carr realized that he could not bring back the satanic Bencolin who had enjoyed tormenting his prey. The original Bencolin of Carr’s college stories, however, had been gentle, amiable, and even a bit shambling. If Bencolin were to come back to life, he would have to be that original Bencolin” (Douglas G. Greene, John Dickson Carr: The Man Who Explained Miracles, p. 173).

E quale personaggio è presente sia in The Hollow Man/The Three Coffins, sia in Vampire Tower ? il Dottor Grimaud. E di cosa si parla? Di un’avvelenatrice.

Vabbè che le avvelenatrici sono presenti in gran parte dell’opera di Carr: come non ricordare The Bourning Court? Guarda caso in In Spite of Thunder, cosa pensano coloro che ritengono Eve l’assassina di Mathhews? Che l’abbia ucciso con un fantomatico veleno (quindi è un’avvelenatrice) che non lascia traccia. Poi si capirà che il veleno c’entra, eccome, in questo romanzo anche se Eve non era affatto un’avvelenatrice. Semmai lo è…

Già, un veleno. Usato per uccidere a distanza. Così il veleno è l’arma. Ma..come ha fatto ad arrivare a destinazione il veleno se non ne è stata trovata traccia?

Paul Halter in un suo romanzo ha introdotto proprio il medium usato da Carr, all’interno di un ambiente soprannaturale unico (sarà il prossimo Halter che recensirò), per di più lo stesso “tramite” è menzionato nel titolo. Più non voglio dire.

Ma cos’ha di bello questo romanzo ?

Il pregio del romanzo, non sta tanto nell’atmosfera o nella soluzione (ripresa da un radiodramma: quanta grazia in quei meravigliosi testi!) quanto nella menata per il naso del grande vecchio, che confonde le acque con un sacco di discorsi fuorvianti, in cui si dicono sciocchezze a non finire: tu pensi chi cavolo possa essere il colpevole, analizzi i possibili candidati, li elimini uno alla volta (Paula è troppo ovvio; Audrey ti chiedi cosa c’entra iin tutto questo pasticcio; Desmond potrebbe esserlo ma poi ti chiedi perchè mai avrebbe chiesto l’ausilio del dottor Fell, anche se qualche volta il colpevole troppo sicuro fa intervenire il detective; ti chiedi persino se lo stesso Brian Innes possa esserlo (strano, il cognome richiama un altro grande scrittore!), ma non riesci a capire chi sia il vero colpevole, che sta lì nell’angolo, che confonde le acque con lo strano attentato ad Audrey. E poi Carr il Grande, estrae dal cilindro un colpevole assolutamente plausibile e nel tempo invisibile. E si spiegano tante cose. Tra i Carr, della serie Fell, degli ultimi anni, In Spite of Thunder è il migliore, senza dubbio. E giustamente è stato riproposto da Mauro, dopo tanti anni.
L’ho riletto qualche giorno fa dopo tanti anni, e il piacere è stato maggiore.

Pietro De Palma

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Agatha Christie : Aiuto, Poirot! (The Murder On The Links, 1923) – trad. Lia Volpatti – Oscar Gialli, Mondadori, 2003

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In Italiano il titolo è “Aiuto, Poirot !”, ma in inglese è altro, più diretto The Murder On The Links  (cioè, “L’Assassinio sul campo da golf”). Perché mai in Italia di solito stravolgono il titolo originale di un romanzo poliziesco, è sempre stato un mistero. Fatto sta che Agatha Christie scrisse tale romanzo nel 1923: è il secondo romanzo della serie Poirot, dopoThe Mysterious Affair at Styles, l’esordio del 1920 in cui comparve Poirot, ed il terzo in generale, perchè un anno prima, nel 1922, era uscito The Secret Adversary, L’Avversario Segreto, in cui appariva la coppia Tommy & Tuppence. 

E’ uno dei romanzi che più mi sono piaciuti, dei tanti scritti da Agatha Christie. Una ragione c’è: è un testo fresco, frizzante, pieno di trabocchetti, di false piste, di indizi veri e indizi falsi, e con un finale pirotecnico. Inoltre è il romanzo in cui il tenero Capitano Hasting si innamora della bella Cerentola, e quindi alla vicenda “gialla “ si mischia anche una rosa: in questo modo, la Christie pose le premesse perché qualche romanzo più in là, l’amico di Poirot emigrasse in Argentina, assieme alla sua dolce metà, lasciando Hercule tutto solo ad affrontare di volta in volta i cattivoni che il caso gli mette di fronte. Che volete: più passano gli anni, più divento romantico!

Poirot ha ricevuto una lettera da parte di un certo Signor Renaud, abitante in Francia, che lo scongiura di andare in suo aiuto perché lo minaccia un pericolo imminente: per questo lo assolda, promettendogli un cachet che Poirot stesso dovrà fissare: quindi un soggetto che ha grandi possibilità economiche. Si imbarcano lui e Hastings, ma quando arrivano a casa di costui, vengono a sapere che nella notte è stato assassinato.

La moglie che è l’unica erede della fortuna di Renaud – perché lui, in seguito ad un furioso litigio col figlio Jack, lo ha diseredato – è stata ritrovata legata così strettamente che le corde hanno piagato le carni. Inoltre, alla vista del cadavere di Renaud, accoltellato alla schiena con un pugnale, ricordo di guerra, fatto apprestare dal figlio Jack, la moglie sviene. Poirot si convince che non può esser stata lei ad uccidere il marito, che è stato trovato a faccia in giù, indossante un soprabito troppo lungo per lui, in cui trovano una lettera compromettente con una certa Belle, con al di sotto la biancheria intima, steso per terra, in una fossa scavata per lui, su un campo da golf. La moglie ha spiegato che di notte è stato prelevato con la forza da due uomini barbuti, di carnagione olivastra, provenienti dall’America Meridionale (Santiago del Cile, perché lì Renaud era stato in passato), che parlavano di un segreto che lui avrebbe dovuto rivelare, pena la vita; che tutto si è verificato alle due di notte, e che il marito è stato costretto, dopo aver indossato un pastrano, ad allontanarsi con loro per una meta non troppo lontana. Infatti viene trovato un orologio col vetro rotto, ma funzionante (se ne accorge Poirot) che indica le due di notte. Giraud, un poliziotto francese, opposto a Poirot per idee (l’immanenza contrapposta alla trascendenza, il mero indizio materiale contrapposto all’analisi psicologica) trova anche un fiammifero e un mozzicone di sigaretta, un lungo capello (che potrebbe essere di donna o di uomo). I due si trovano opposti sia da convinzioni diverse che da antipatia reciproca.

Intanto, il Cap. Hastings ha fatto la conoscenza di Cenerentola, un’attricetta di varietà che si esibisce con la sorella. Su sua richiesta la porta a vedere il cadavere (gli dice di essere una giornalista free lance) e il pugnale che ne è stato estratto, lei sviene, lui la trasporta fuori, lasciando socchiusa la porta del capannone dove è conservato ancora il corpo, e qualcun altro sottrae il pugnale. Conseguenza? Viene trovato un altro morto ammazzato, in un altro capannone lì vicino.

Veste bene ma le mani testimoniano che era qualcuno che aveva fatto lavori manuali. Nessuno lo riconosce. Sembrerebbe che fosse stato ucciso con lo stesso pugnale, o con altro uguale, ma poi si scopre che addirittura era morto prima che venisse ucciso Renaud, e che è stato pugnalato solo dopo che era già morto, per una crisi epilettica. Perché ?

A tutto il macello delle false prove, vere, cadaveri a iosa, si viene ad aggiungere una storia tra Renaud e la Signora Daubreuil che vive assieme alla figlia Martha, innamorata di Jack Renaud, in una villa vicina: la moglie di Renaud aggiunge che essi avevano una storia assieme, ma non dice che invece, si trattava di ricatto. Lo si viene a sapere dal Segretario di Renaud, Stonor, che parla di ingenti somme versate da Renaud alla Daubreuil. Perché? E chi è George Conneau, legato alla Signora Daubreuil, da un precedente famoso caso di assassinio, latitante da parecchio tempo?

Poirot arriverà alla soluzione, non prima che ben due presunti assassini, innocenti, siano stati dichiarati e si siano dichiarati colpevoli (senza esserlo), soprattutto il secondo, per permettere a Poirot di incastrare il vero assassino che dopo aver ucciso Renaud ha tentato di uccidere anche la moglie.

E il secondo cadavere? Da chi è stato pugnalato? No comment. Non lo dico, Altrimenti toglierei suspence alla lettura del romanzo (veramente ho taciuto molte altre cose).

Romanzo veramente magnifico, con un Poirot giovane, ed in piena salute soprattutto mentale (da godere, le sue elucubrazioni sulle sue famosissime “cellule grigie”), è un continuo tourbillon di situazioni alcune quasi al limite del paradossale, se non del grottesco, pur essendo drammatiche. Non ci si capacita come la Christie abbia dato così sfogo alla sua fantasia, inventando un intreccio, così ingarbugliato eppure così lineare: vi sono due false soluzioni, ovviamente indicanti due falsi assassini, prima di quella vera, in cui entra anche Cenerentola, oppure no, non Cenerentola, ma quasi; veri indizi (quelli che trova Poirot: un pezzo di tubo, dei cenci sporchi); comportamenti strani: perché Poirot misura la lunghezza del soprabito che Renaud indossava quando è stato accoltellato?; falsi indizi (quelli che trova Giraud) e l’orologio rotto, oltre al pugnale: ce n’è uno davvero? Oppure più di uno? E perché Jack ha detto il falso giurando che la notte dell’assassinio del padre, lui era lontano da casa, mentre non era vero?

L’insieme delle situazioni e dei comportamenti ci precipita indietro con gli anni: ci sono i malfattori presunti, con barbe finte, che vengono da un Paese lontano, dove la vittima aveva lavorato e dove aveva conosciuto un “segreto”; un famoso processo che emerge dal passato; un doppio strano assassinio; un romanticismo ed una galanteria d’altri tempi. C’è ancora una freschezza ed una ingenuità che gli anni ’30 spazzeranno via, con le loro trame ipercomplesse.

E’ evidente, che il lettore attento, troverà strani rimandi, in questa Agatha Christie ancora acerba: la vittima che richiama un paese lontano, un segreto, un presunto assassinio legato a ciò, dei malfattori con barbe finte, sono tutti fattori che richiamano immediatamente alla mente The Valley of Fear, “La Valle della paura” (1916) di Conan Doyle, uno dei quattro romanzi con Sherlock Holmes. Ma non v’è solo questo, del resto da tanti già intravisto. No, vi è anche dell’altro. Chi o cosa, richiama il doppio investigatore, la sfida tra uno serio (Poirot) ed uno ridicolo (Giraud), impegnati ciascuno a prendere in castagna l’altro? A me ha richiamato immediatamente Maurice Leblanc, e per situazioni da feuelliton e per richiamo specifico ad una silloge di due racconti, dello scrittore francese: Arsène Lupin contre Herlock Sholmes “Arsene Lupin contro Herlock Sholmes”, in cui il campione francese, ladro-gentiluomo imprestato alla detection (Arsene Lupin) è contrapposto ad un farsesco e ridicolo detective inglese, Herlock Sholmes, brutta copia del più conosciuto Sherlock Holmes.. La sfida tra i cugini d’Oltre Manica, che era stata  improntata da Leblanc, ad affermare l’intelligenza francese sulla stolidità inglese, qui viene rivoltata con una sfida non tra cugini inglese e francese, ma tra francese e belga, in cui il belga è al tempo stesso personificazione dello spirito inglese.

Che la Christie potesse conoscere l’opera mi sembra plausibile, visto che i due scritti di Leblanc si ascrivono agli anni 1906-1907 e il volume uscì nel 1908. Per il resto, anche qui, come nell’originale francese, abbiamo situazioni di ilarità diffuse: il poliziotto francese, che cerca gli indizi come un segugio, con tanto di lente d’ingrandimento, carponi per terra, è contrapposto all’ex poliziotto belga Hercule Poirot (ma trapiantato in Inghilterra), che scopre l’indizio del frammento di assegno, solo perché ossessionato dal mettere ordine, laddove non c’è: e così sotto un tappeto mal messo, trova l’indizio, sfuggito ai più. Questo ritrovamento non è una casualità, ma è il prodotto del metodo di Poirot, secondo cui “l’ordine sorge dalla confusione”: così come è necessario che nello studio di Renaud il tappeto sia allisciato e il suo lembo sia rimesso a posto, perché è inconcepibile per Poirot che qualcosa sia in disordine, così è necessario che nel quadro del problema tutte le tessere vadano a posto naturalmente, senza forzatura. E quindi, quando c’è qualcosa che nell’ordine delle sue cellule grigie non trova spiegazione, non può essere azzeccato anche se apparisse essere tale a prima vista.

Poirot oppone ai meri indizi materiali, l’acuta psicologia delle sue cellule grigie. Il falso indizio dell’orologio rotto è un capolavoro, ma lo è ancor di più l’indizio del soprabito: la sua spiegazione è pura classe. Per non parlare del pugnale, anzi dei due pugnali: sì, questa è la ciliegina sulla torta. Il secondo cadavere, che si trova pugnalato dallo stesso pugnale trovato sulla prima vittima, si viene a scoprire che era già morto quando lo è stato quello che è stato trovato come primo, cioè Renaud: e allora come ha fatto lo stesso pugnale a trovarsi nel corpo di un uomo pugnalato prima? E’ evidente che di pugnali ce ne debbano essere due! Ma poi accadrà ancora dell’altro e si scoprirà che i pugnali erano in realtà…

Per il resto, donne cattive opposte a donne buone ed indifese, ed uno chaperon come Hastings, pronto a buttare tutto alle ortiche per la bella Cenerentola, in uno dei più accattivanti romanzi del primo periodo di Agatha Christie.

 

Pietro De Palma

The post Agatha Christie : Aiuto, Poirot! (The Murder On The Links, 1923) – trad. Lia Volpatti – Oscar Gialli, Mondadori, 2003 appeared first on La morte sa leggere.

Anthony Berkeley: Assassinio in cantina (Murder in the Basement ,1932 – trad. Mauro Boncompagni – I Classici del Giallo Mondadori, N.1056, del 2005.

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berkeley 001Un altro piccolo capolavoro firmato Anthony Berkeley.

Il romanzo risale al periodo di maggior successo internazionale e al pieno della sua attività letteraria: dello stesso anno è infatti Before the Fact (Il sospetto) che avrà una notissima trasposizione cinematografica ad opera di Alfred Hitchcock nove anni dopo; l’anno prima, Berkeley aveva pubblicato un altro suo grande successo, Malice Aforethought (1931). E nel 1933 pubblicherà un altro romanzo fondamentale , Jumping Jenny.

La trama del romanzo è parecchio macabra.

Una coppietta di sposini ritorna dal viaggio di nozze e prende dimora in una casa affittata. Mentre lei disfa le valigie, lui non trova di meglio che andare ad ispezionare la casa, e in particolare la cantina dove vorrebbe custodire i suoi vini. Ma ecco che un particolare cattura la sua attenzione: in un angolo, il pavimento di mattoni si è come infossato, come se qualcuno avesse scavato per nasconderci qualcosa. Lui pensa ad un forziere, ma invece vi trova..un cadavere vecchio di almeno sei mesi, talmente irriconoscibile e decomposto che per puro caso si riesce a capire che era una femmina giovane e che aveva una cicatrice all’interno di una delle cosce. Il cadavere è nudo, ma su quello che rimane delle mani vi è un paio di guanti. Perché?

L’Ispettore Moresby di Scotland Yard naviga nel buio: chi era la donna? E come è finita in quella cantina? Perché aveva i guanti? La precedente affittuaria era una vecchia al di sopra di ogni sospetto, e la data della morte sembrerebbe coincidere nel periodo di agosto, in cui la vecchia era in vacanza e la casa era vuota: chi mai avrebbe potuto avere le chiavi? Dei parenti? I due soli sono due nipoti che però hanno degli alibi talmente solidi da essere subito estromessi dalle indagini. E allora? Alla minuziosa indagine della polizia non sfugge nulla. Eppure Moresby non riesce a dare un nome al corpo! I guanti sono ordinari, e le indagini casa per casa non portano a risultati perché nessuno, nelle villette vicine, ha visto nulla. Basterebbe sapere di chi diavolo è quel cadavere e lui – ne è sicuro – sarebbe a cavallo, perché l’assassino non avrebbe scampo. Ma… non si trova nulla. Finchè vi è una sua intuizione: la cicatrice. Sulla base dell’autopsia si stabilisce che la vittima era stata operata al femore e gli era stata applicata una placca di metallo per saldare l’osso dopo una frattura: la fortuna che gli arride è data dal fatto che la placca è fatta di un materiale subito abbandonato, utilizzato solo come esperimento in pochi e certificati casi. Insomma, scartando tutti i soggetti che non risultavano essere scomparsi e i cui parenti ne avrebbero subito denunciato la scomparsa, si arriva a individuare la vittima in una certa Mary Waterhouse che era riuscita a farsi assumere in una scuola privata di Allingford, Roland House, nel personale amministrativo.

Ecco che allora Moresby si ricorda che il detective dilettante e scrittore affermato Roger Sherringham, che l’ha aiutato in tanti casi, è stato in quella scuola tempo prima; e così lo interpella per chiedergli se ricordi qualcosa dell’ambiente. Infatti, diversamente da quelle che erano le convinzioni iniziali dell’Ispettore, una volta conosciuta l’identità della vittima, non si è arrivati all’identificazione dell’assassino. E neanche partendo dall’altro opposto, cioè dal luogo della sepoltura, si è arrivati ad un qualche risultato: perché non c’è modo di riuscire a capire come quel cadavere ci sia finito, e soprattutto chi poteva avere la chiave della casa, perché non è stato segnalato nel passato nessun tentativo di effrazione a quella casa.

Roger accetta volentieri di riassumere un quadro dell’ambiente all’Ispettore, anzi gli fornisce un rapporto che aveva stilato tempo prima che raccoglieva le sue impressioni sulle persone operanti nella scuola e che sarebbe dovuto servire come canovaccio per un romanzo mai scritto. Sulla base di questo Roger riesce a capire chi possa essere stata la donna uccisa senza che glielo dica l’Ispettore. Però, alla successiva richiesta di fare da infiltrato per la polizia, rifiuta, in quanto quelle persone che lui ha descritto lo hanno accolto come un amico e si rifiuta di spiarli ora.

In pratica osserva le azioni dell’ispettore, intervenendo quando lo ritiene opportuno, perché si arrivi all’individuazione del caso.

Anche Roger tuttavia non capisce come Mary sia finita sottoterra nella cantina, finchè un’informativa della polizia rivela che la placca all’osso era stata acquistata da un carcere, dove la tizia era stata reclusa qualche anno prima, con diverso nominativo, in quanto ladra borseggiatrice: era scivolata al momento della cattura della polizia, e si era rotta una gamba. Successivamente, ravvedutasi, dopo un corso di stenodattilografia e alcuni altri lavori, e con un cognome falso era riuscita a farsi assumere nella scuola. Quindi è possibile che Mary non avesse del tutto abbandonato la sua occupazione di un tempo, oppure che risalisse al tempo in cui era una borseggiatrice, un qualche furto ai danni della vecchia padrona della casa a Lewisham, al n.4 di Burnt Oak, E anche questo viene confermato. Quindi la chiave l’aveva lei. Ma..perchè è finita lì?

Dalle indagini della polizia a Roland House emerge un quadro molto variegato: a dirigere la scuola, nominalmente è il preside Harrison, ma in realtà è la figlia Amy che dirige, attirandosi più di una antipatia. Amy è legata al signor Wargrave, un docente di Chimica: nessuno dei due ama l’altro, ma è anche conscio che solo con l’altro riuscirà ad ottenere i suoi scopi; poi c’è Elsa Crimp, altra docente legata sentimentalmente al curato; il signor Duff, il signor Parker, il signor Rice, anche loro docenti: quest’ultimo è l’amante della signora Phyllis Harrison, la moglie del preside che sembra non accorgersi di nulla, perso solo nel modo della scuola che dirige; infine c’è la governante, Jevons.

Finalmente, dagli interrogatori emerge un particolare rivelatore: il signor Wargrave era stato visto uscire dalla camera della signorina Mary Whitehouse, quando quella era stata a scuola. Successivamente si era saputo che la signorina era incinta e che sarebbe andata via perché in procinto di sposarsi con un australiano: a riprova di ciò era un anello con brillanti e smeraldi che la ragazza sfoggiava al dito.

L’ispettore è convinto di aver individuato il suo assassino, e da questo momento tutta l’indagine viene avviata allo scopo di dimostrare che Wargrave aveva ucciso Whitehouse, e con che arma. Ma le prove non ce ne sono e gli indizi sono così aleatori che neanche quando Wargrave viene beccato con un revolver calibro 45, sua pistola d’ordinanza durante la Prima Guerra Mondiale, il cui calibro è proprio quello corrispondente al proiettile che ha ucciso la donna, si riesce a collegarlo ad ella, perché la pistola è sporca, e manca il bossolo incriminato. Insomma..

Quindi entra in scena Sherringham e in un pirotecnico finale riesce a…discolpare Wargrave, individuando il vero assassino. Tuttavia non lo consegna alla polizia, perché il suo fine non è quello di Moresby, e anzi inventa una storia plausibile ad uso dell’Ispettore, dandogli una soluzione e nel termpo stesso salvando dall’impiccagione Wargrave che si è addossato il crimine di un altro, e il vero assassino, che ha ucciso perché ricattato.

Altro romanzo con una penetrante introspezione psicologica, Murder in the Basement, è solo apparentemente un procedural: in realtà il procedural serve solo a fornire le basi per l’indagine, da cui l’Ispettore e il detective divergono ad un certo punto nell’individuazione del colpevole. L’indagine di Sherringham è molto simile a quella di Poirot: si serve della deduzione, a cui si aggiunge una analisi approfondita della natura umana. E come Agatha Christie, anche Berkeley è un innovatore: infatti questo romanzo, nella storia del whodunnit poliziesco, riserva più di una sorpresa: non ne parlo in questa sede, perché sarà oggetto di un approfondito breve saggio prossimamente sul Blog del Giallo Mondadori.

Quello che ancora una volta sottolineo è la grandezza di Berkeley, non solo uno dei grandi maestri del poliziesco psicologico britannico ma anche uno degli scrittori più affermati nel meccanismo delle soluzioni molteplici: inquadrare lo sviluppo in un senso, indirizzando la concentrazione del lettore su n un determinato soggetto e poi, al momento opportuno, rigettandolo, e fornendo una soluzione del tutto plausibile, anzi di più di quella che si era prospettata sino a quel momento. In questo senso, ecco la particolarità di questo romanzo: se per tutto il suo svolgimento sembra un thriller in quanto la vittima è risaputa e l’assassino pure e quindi l’indagine è solo rivolta a vedere di concretizzare gli indizi e trasformarli in prove schiaccianti, solo alla fine con la soluzione vera, che si allontana in parte da quella prospettata sino quel momento, il detective si distingue in tutto dall’Ispettore Moresby, che neanche stavolta riesce a far tutto da solo bene, e con una impennata, stravolge l’andamento del romanzo, indirizzandolo nel solco del Whodunnit classico.

In più lo stile è scoppiettante, mai prolisso e tedioso. E ancora una volta si afferma la precisione di Berkeley nel ricordare veri fatti di sangue ed inserirli nel contesto del romanzo (L’affare Rainshill: i coniugi Deeming), per renderlo maggiormente vicino al lettore britannico di quei tempi. In più, Berkeley, inserisce nel contesto della narrazione, degli spunti umoristici, che servono a caratterizzare meglio i protagonisti: come quando Sherringham propone all’ispettore che ha giurato di andare via e di non poter perdere altro tempo, di rimanere suo ospite a cena: il solo accenno alla trippa, un piatto per nulla britannico, e molto latino, lo convince invece a mandare al diavolo i suoi impegni:

“La cena, signor Sherringham? Temo di non potermi più fermare per cena, ora per ora…

-          Meadows non la perdonerà mai se non mangia quello che ha preparato..il piatto forte era tripes à la mode de Caen.

-          Cosa sarebbe signore?

-          Trippa.

-          Trippa?

-          Trippa.

-          Johnson può aspettare” (pag. 166).

 

Pietro De Palma

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Rhys Bowen – L’ultima illusione (The Last Illusion, 2010) – trad. Marilena Caselli – Il Giallo Mondadori N. 3109 del Luglio 2014.

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Ogni estate c’è sempre qualcuno che  invoca la pubblicazione di un qualche romanzo inedito di autori affermati: per esempio di Paul Halter.

A parte il fatto che bisognerebbe vedere se fosse già pronta la traduzione di un nuovo romanzo, cosa di cui io non sono affatto certo, non avendo alcuna certezza che un altro romanzo oltre La settima ipotesi sia stato già tradotto (cosa surrogata dal fatto che da Paul Halter io non abbia ricevuto alcuna notizia in merito),  a parte il fatto che io so  già di quale romanzo siano stati acquisiti i diritti da Mondadori recentemente, la cui traduzione probabilmente sarà pubblicata almeno tra un annetto ( a meno che il traduttore, che immagino continui ad essere Igor Longo, non faccia gli straordinari!), un romanzo di Halter normalmente non rientra nella tipologia dei libri vacanzieri: i suoi romanzi sono complessi, di solito anche piuttosto macabri, e quindi come clima richiedono l’inverno, il buio, invece che l’estate, il sole; un certo romanzo di Halter che Igor auspicava potesse essere pubblicato d’estate, uno dei pochi che potesse esserlo, fu pubblicato ad autunno inoltrato e da qui derivò secondo lui un mancato successo di vendite. Io ovviamente la pensavo come lui.  Tutto questo per dire che ci sono romanzi estivi e romanzi invernali.

Già pubblicare durante l’estate un Berkeley è un azzardo, ma per un certo verso Berkeley è un autore talmente conosciuto e apprezzato, che, come Agatha Christie, non ha un tempo prefissato per la lettura. Pubblicare a luglio invece un Nicholas Blake, questo sì che è stato un azzardo, qualche anno fa. D’estate si dovrebbero pubblicare racconti semmai: posseggo una Estate mondadoriana degli anni ’80 di Ellery Queen presenta che raggiunse la tiratura di 50.000 copie, una favola rispetto alle tirature odierne; e romanzi da spiaggia, leggeri: Lockridge, Kelley Roos (ma non tutti i K. Roos sono leggeri), Eberhart, Rys Bowen.  Guarda caso un Bowen è in edicola questo mese.

 Rhys Bowen è una scrittrice britannica, per metà gallese e per metà inglese,  trapiantata in America. Ha cominciato producendo sceneggiature per la BBC, poi è emigrata in Australia dove ha lavorato per l’Australian Broadcasting: qui ha incontrato il suo futuro marito e insieme si sono trasferiti definitivamente in California, a San Francisco, dove ha avviato la sua carriera di scrittrice, prima scrivendo libri per bambini e poi dedicandosi alle storie per adulti, incontrando un insperato successo di vendite: la serie di Evan Evans ha fruttato grande successo di pubblico ed uno è stato anche nominato per il miglior romanzo dagli Edgar Award, mentre il primo romanzo dell’altra sua serie, quella incentrata su Molly Murphy, Murphy’s Law (2001) ha vinto il Premio Agatha Christie (2002) . Infine, Rhys Bowen ha creato una terza serie, incentrandola sulle gesta di un’altra eroina,  “34a in linea al trono britannico, Lady Victoria Georgiana Charlotte Eugenie, nobildonna, sorella di un Duca, ma assolutamente senza un soldo”: Her Royal Spyness  “è stato un bestseller, nominato per molti premi” (pubblicato in Italia da Mondadori col titolo “Madamigella Spia”). Un altro romanzo di questa serie, Naughty in Nice (2011), ha bissato la vittoria nell’ Agatha Christie Award, già riportata nel 2002.

Il romanzo in edicola, L’ultima illusione (The Last Illusion, 2010), è il nono romanzo della serie Molly Murphy. Tratta di misteriosi complotti di cui sarebbe vittima il Governo degli Stati Uniti d’America da parte di agenti di altro Paese europeo, volti a difendere i propri segreti circa armi di nuova concezione e piani per destabilizzare l’economia statunitense immettendo grossi quantitativi di denaro falso. In affari di questo tipo si trova invischiata  Molly quando và a teatro assieme al suo fidanzato Daniel Sullivan, Capitano della Polizia di New York, per assistere ad uno spettacolo di giochi illusionistici e di “escapades”, i numeri prediletti del grande Harry Houdini: è lui la star della serata. Si esibirà con la moglie Bessie. Ma prima che i due possano ancora una volta trionfare, la serata finisce inaspettatamente con una tragedia: il Grande Scarpelli, un illusionista che porta il giro il trucco della donna segata in una cassa, la fà grossa, segando effettivamente la sua assistente. Tra barellieri, medico, una marea di sangue e il povero Scarpelli che non sa darsi pace, Molly e Daniel non vedono di meglio che entrare in scena: Daniel per dovere, Molly per..piacere. In realtà Daniel non desidera affatto che la sua compagna si trovi ancora una volta immischiata in delitti (è anche un po’ geloso probabilmente), in cui in passato si è districata assai bene, ma questo puntualmente accade per la tendenza di Molly a farsi i fatti degli altri e per il suo acume femminile.

Ben presto si ritroverà alle prese con la sparizione del cadavere dell’assistente di Scarpelli, dello stesso illusionista e..dello stesso Houdini, che misteriosamente scomparirà durante un suo spettacolo da un baule, nel quale apparirà il cadavere di un uomo sconosciuto che poi si rivelerà essere un agente dello Spionaggio americano. Ingaggiata da Bessie Houdini, la moglie di Harry, scampata precedentemente ad un incidente mortale sempre durante uno spettacolo, Molly dovrà districarsi nella New York dei primi anni del ‘900, in un vorticoso turbillon di situazioni, fino ad avere ragione dei fatti, e sventare un piano terroristico ai danni degli USA, ritrovare Houdini e le sue carte segrete, contenente informazioni preziosissime sulla costruzione di un nuovo armamento Top Secret da parte della Germania del Kaiser, d’accordo con John Wilkie, Capo dello Spionaggio americano, rischiando di essere uccisa da un agente dello spionaggio americano passato alla causa germanica e dalla sua complice.

 

Il romanzo è leggero e scritto con una grande verve, che lo rende facilmente leggibile, soprattutto in spiaggia, all’ombra dell’ombrellone e mangiando un gelato. Non è sicuramente un romanzo di grande impegno, né probabilmente vuole esserlo: mischia avventura, spionaggio e mistero assai abilmente, ma in maniera del tutto arbitraria dal punto di vista storico. Ne esce un ritratto dell’America affascinante e nel tempo stesso fantastico, visto che l’invenzione del sottomarino che verrebbe ascritta alle industrie teutoniche (e per di più nella forma descritta nel romanzo mi sembra affine più ad un sommergibile atomico che non ad uno primitivo, che in realtà avevano la forma di battelli, oppure avevano la forma che immaginò Verne avesse il Nautilus del Capitano Nemo), in realtà è assegnata a Van Drebbel e poi a John Day, mentre quella del sottomarino concepito come arma è riconosciuta al tedesco Bauer nel 1850, anche se il sottomarino più famoso perché concepito come arma vera e propria, con una carica esplosiva sulla prua, fu sperimentato proprio in USA durante la Guerra di Secessione dall’esercito confederato, il CSS Hunley; per di più, per essere usato in missioni oltre oceano, avrebbe dovuto avere tali riserve di carburante e per di più di tale qualità, che nei primi anni del ‘900 non esisteva nulla del genere. E’ così non propriamente un giallo storico, come viene indicato erroneamente, ma un romanzo fantastico, che mischia molta fantasia al contesto storico, solo che la fantasia non è un’aggiunta al quadro generale ma riguarda la stessa materia storica: siamo lontani mille miglia dal Giallo storico di Tremayne o Doherty o Comastri Montanari e addirittura milioni di parsec dai Mystery storici di Carr. Per di più, la trama vera e propria è mischiata ad una serie di considerazioni che riguardano amicizie di Molly, rapporti col fidanzato, e quant’altro, che pur donando brio alla narrazione, slegano parecchio il plot vero e proprio, per cui alla fin fine ci ritroviamo quasi più in un romanzo di costume che non in un vero e proprio poliziesco. Così, se in un romanzo di Carr o di Rawson o di Van Dine o di Daly King o di Stout o di Crispin dobbiamo stare attenti in ogni pagina, che gli indizi veri o propri non sfuggano mischiati ad indizi presunti tali, qui invece possiamo saltare a piè pari intere pagine che donano poco o nulla al plot e molto alla conoscenza del personaggio Murphy.

La vicenda si snoda tra personaggi ambigui e infidi, in un teatro che è il covo di spie germaniche, tra botole, cunicoli e macchine di scena, in un tempo che non è quello che conosciamo noi, ma uno proprio della vicenda, assai poco probabile, ma che nella sua improbabilità diventa assai accattivante.

Cosicchè se diventa inutile e tedioso per chi legga il romanzo slegato dagli altri della serie, sarà invece godibile per gli aficionados dell’eroina.

In ultima analisi, un romanzo che è a mio modo di vedere un’adorabile divertissement senza pretese, un’adorabile sciocchezzuola, un giallo rosa alla maniera di Mignon Eberhart, buono per passare un pomeriggio, ma niente di più.

Pietro De Palma

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Rex Stout – Alta cucina (Too Many Cooks, 1938) – trad. Gianni Montanari – I Classici del Giallo Mondadori N. 659 del 1992

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Rex Stout è stato uno dei grandi romanzieri americani del ‘900, che oggi vive una specie di letargo, almeno in Mondadori. Motivi? Non so, probabilmente è che oggi, almeno in Italia, stiamo rivivendo una renaissance del Mystery e Stout non appare un grande esponente di quel genere, e non certo da porre sullo stesso piano di Carr. Però ha molti caratteri interessanti che vale la pena inquadrare.

Indubbiamente, uno di quelli che ha contribuito in certo senso a creargli una patina ambigua, è stato il giudizio di qualche critico, secondo cui Stout sarebbe una via di mezzo tra il Mystery e l’Hard-Boiled americano, una specie di Craig Rice o Jonathan Latimer, non essendo né l’uno né l’altro: Stout non ha mai dei plot entusiasmanti, come siamo portati a trovarne in Van Dine o in Queen o in Carr che pure sono americani seppure con sfumature diverse, tranne in qualche romanzo dei primi, fino all’inizio degli anni ’40, ma pure così i plot non sono mai capaci di catturare l’interesse. E nello stesso tempo, se fosse un Hard-Boiled ci dovrebbe essere violenza, e in Stout non ce n’è. Eppure, Stout piace. Perché? Perchè secondo me ha delle nuances che lo avvicinano ad alcuni grandi esponenti del Giallo Americano degli anni ’30, pur mantenendo una propria indipendenza stilistica. In particolare, il carattere che più si mette in risalto quando si parla di Stout è la sua vena vandiniana originale, o almeno la sua tendenza ad imitare qualcuna delle caratteristiche peculiari di Van Dine. Quali?

Stout inventa il suo personaggio principale, Nero Wolfe (Wolfe è chiaramente riferito a Wolf= Lupo, che è animale pericoloso ma solitario, che rifiuta l’uomo, così come Wolfe, esce raramente da casa sua, vivendo in una sorta di ghetto dorato e volontario) guardando chiaramente a Philo Vance: in questo, non poteva certamente non tenerne conto, visto che il suo primo tentativo in tal senso è Fer-de-Lance,“La traccia del serpente”, che è del 1934, tempo in cui ancora furoreggiava Van Dine. Abbiamo assistito anche noi qualche anno fa alla tendenza di imitare lo stile di qualcuno in Italia per avere successo: ne parlavo con Stefano Di Marino in un Blog, non mi ricordo quale, forse anche quello Mondadori, ma non ricordo bene, a proposito del fatto che anni fa c’era parecchia gente che per avere successo imitava il suo stile, creando cloni per esempio di Montecristo. Lui ha riconosciuto, che a mente fredda, questo accumulo di materiale eterogeneo ha finito per danneggiarlo, anche se lui, nella spinta dell’euforia, quando era e si sentiva un leader carismatico, ne difendeva la portata. Ecco questo è quanto accadde anche a Van Dine: ci fu parecchia gente che, spinta dalla necessità di farsi conoscere, cercò di emularne lo stile, creando una serie di cloni di Philo Vance, non sempre con risultati pari alle aspettative. Un esempio? Per esempio il protagonista di The Death in the Dark di Stacey Bishop (George Antheil) che è chiaramente un clone di Vance, ed anche il romanzo, tradotto in Italia come La morte nel buio (e recensito in questo Blog anni fa) ne ricorda uno in particolare: Antheil sperava di avere più successo di quanto ne ebbe, se è vero che questo piccolo capolavoro è rimasto sotterrato nelle pieghe del tempo per così tanto tempo.

Stout fu uno di questi autori à la mode, come il primo Queen, Charles Daly King, Rufus Gillmore, Anthony Abbot, la Tillett, Clason. Tuttavia, se in questi autori le caratteristiche dei personaggi principali, almeno nei primi romanzi sono esasperatamente accostabili a quelle di Philo Vance (come non pensare al De Puyster, personaggio dei primi racconti di Rufus King, così vicino a Philo Vance, anche nel tempo di apparizione da far pensare che proprio Vance sia derivato da esso?), in Stout sono più velate: è questo il dato più interessante: è come se fossimo costretti ad una caccia al tesoro nei suoi romanzi, alla ricerca di queste somiglianze, come se il lettore fosse egli stesso il detective, in una indagine che è parallela a quella principale ed ovvia in un poliziesco, ma nascosta.

Uno dei romanzi più interessanti della prima produzione stoutiana è il romanzo che mi accingo qui ad analizzare: “Alta cucina” (Too Many Cooks, 1938).rex 001

La trama è quantomeno singolare: Nero Wolfe viene invitato, come esperto indipendente, a tenere una relazione nel corso della riunione de Les Quinze Maitres, che si svolge ogni cinque anni, e che vede appunto la partecipazione dei quindici migliori chef al mondo, tutti riuniti questa volta presso la struttura dell’Hotel delle Terme Kanawha.

Mentre vi giunge in treno (e già questo è una prova terribile per Wolfe che è abituato a vivere da solo, nel suo splendido appartamento, tra la cura delle orchidee, e le portate sopraffine del suo cuoco di fiducia, soprattutto in virtù della sua considerevole mole fisica), Wolfe, che è amico di Marko Vuksic, uno dei quindici chef, viene presentato a Jerome Berin, il famoso chef inventore di uno dei piatti più mitici, Le Salsicce Mezzanotte,  la cui contraffazione è stata sempre estremamente ardua, nonostante la semplicità degli ingredienti: Nero Wolfe tenta in tutti i modi di convincerlo, di adularlo, di tentarlo, al fine di ottenerne la ricetta per poterla gustare lui solo, nel suo eremitaggio, non facendosela nemmeno preparare dal suo cuoco, per non divulgarla. Ma non ci riesce. Tuttavia in questo primo colloquio Wolfe capta che c’è più di uno, tra i partecipanti a quella singolare riunione, a nutrire sentimenti non certo di fraternità cristiana nei confronti di John Lazlo, chef dell’Hotel Churchill di Londra, a causa della condotta avventurosa di questi che non ha mai rinunciato a fare dello spionaggio nei confronti dei suoi colleghi al fine di carpirne le ricette migliori o a rubare i loro assistenti più promettenti. Così Lazlo non si è fatto certamente degli amici. Non ha nemmeno eccellenti rapporti col suocero, lo chef italiano Dino Rossi, la cui figlia ha rubato al primo marito, Vuksic, amico di Wolfe.

Alla riunione, si scatenano le vene creative de I Quindici che cominciano a ingurgitare, tracannare e apprezzare le tante proposte culinarie: gli anatroccoli, le ostriche, le tartarughe di acqua dolce, e chi più ne ha più ne metta. Il fattaccio si verifica quando affrontano i piccioni: Les Quinze Maitres secondo un ordine prefissato, dovranno tagliare i piccioni e gustarli accompagnandoli alla Salsa Primavera, una creazione di Lazlo, cercando di riconoscerne tutti gli ingredienti, ognuno in separata sede dagli altri, nella Stanza da pranzo dell’Hotel. Tutto va bene finchè si arriva a Berin e Vuksic. Infatti, tra l’entrata del primo e quella del secondo, Lazlo scompare dalla Sala da Pranzo: quando entra Berin c’è ancora, quando invece è la volta di Vuksic, egli non lo vede, ma non ne avverte la mancanza, visti i pessimi rapporti comuni; qualche minuto dopo, tuttavia, è Nero Wolfe, ammesso anche lui alla prova, a scoprirne il cadavere, dietro un paravento, già bello stecchito come una salsiccia, ucciso con una coltellata nel fianco, inferta con uno dei due coltelli usarti per tagliare i piccioni.

Il Sostituto Procuratore Distrettuale Tolman, alla prima esperienza, non vuole sbagliare, perché, lo capisce subito, sarebbe controindicativo sbagliare e fregarsi la carriera futura: pertanto cerca di blandire Nero Wolfe, anche tramite lo sceriffo, a dare una mano, ma non ricevendo inizialmente alcun aiuto. Nero, pur protestando la sua innocenza, riconosciuta anche in virtù della fama raggiunta con la risoluzione di casi precedenti, e della considerazione generale, non si sente minimamente coinvolto nel caso, e anzi vuole andare via il più presto possibile per ritornare nella pace del suo appartamento dopo aver tenuto la sua relazione a difesa della gastronomia americana troppo bistrattata da altre più rinomate in sede internazionale. Tuttavia avverrà qualcosa che ne farà mutare la condotta.

Infatti, basandosi sull’odio reciproco, e quindi sulla esistenza di un movente, pur non avendo prove incontrovertibili, dovendo pure arrestare qualcuno, il Sostituto Procuratore fà trarre in arresto Berin. Per Nero, chiamato in causa dalla di lui figlia, Costanza, sarebbe il modo di trarne beneficio, facendosi rivelare la ricetta delle Salsicce. Così si mette alla caccia dell’assassino, cercando innanzitutto le prove dell’innocenza di Jerome, e cercando ricostruire la dinamica dell’assassinio.

Inoltre, mentre Wolfe ricostruisce la vicenda, l’assassino fuggito senza che la polizia avesse minimamente fatto il benchè minimo tentativo di cercare dia cciuffarlo lì per lì, pur avvisata tempestivamente da Wolfe e dal suo assitente Archie Gooldwin, non sapendo che Wolfe ha rifiutato di aiutare Sceriffo e Giudice nel ricostruire la verità, temendo che riesca a individuarlo, tenta di ucciderlo, sparandogli dalla finestra, a distanza ravvicinata, protetto dal buio della notte, ma Archie, col suo sesto senso, avvertendo una presenza vicina, riesce a deviare la traiettoria del proiettile lanciando davanti alla finestra, prima che che il colpo parta, una frazione prima, il blocco degli appunti nei quali è scritta la relazione di Wolfe da tenersi davanti a Les Quinze, in realtà dieci, perché due non sono venuti e tre..sono defunti prima che si arrivasse alla riunione.

Ben presto Wolfe mette in relazione l’assassinio con il rumore della radio, alla cui musica diffusa, Vuksic ha esitato ad entrare nella sala dove avrebbe dovuto sottoporsi alla prova, tentato dalla sua ex-moglie; ricostruisce i movimenti delle singole persone che tutte quante negano di essersi avvicinate alla Sala da Pranzo, ed invece beccandone una, Leo, moglie di Lawrence Coyne, un altro dei Quinze, che afferma di essersi ferita un dito nella mano chiudendo una porta invece di un’altra e venendo smascherata dalle rivelazioni del personale dell’albergo. Essa è stata la testimone di una scenetta, che Nero mette in direzione diretta con l’omicidio: un dipendente di colore, con la livrea dell’albergo, vicino al paravento dove è stato trovato il cadavere di Lazlo, avrebbe fatto il gesto di imporre il silenzio, mettendosi un dito sulle labbra, rivolto ad altro personaggio di pelle nera dell’albergo. Tutto ciò costringe Nero a vagliare la posizione dei vari dipendenti del personale dell’albergo in servizione quella sera, finchè trova che uno dei tanti, studente alla Harvard University, che si paga gli studi lavorando, è quello che è stato diretto testimone della scena. Tuttavia egli rivela a Wolfe un fatto che sconvolge interamente il quadro probante: il personaggio che egli ha visto non era nero di pelle, ma era travestito in modo da far pensare che fosse di quel tipo di carnagione: “è un bianco”, afferma…. Si è tinto la faccia col nero dei turaccioli bruciati, e indossava dei guanti aderenti di colore nero: egli tuttavia ha pensato che si trattasse di uno scherzo tra i partecipanti della festa e quindi ha taciuto il fatto. Un altro dei dipendenti poi, chiamato a sua volta in causa, rivela che andando ad investigare perché il collega, inviato in Sala da Pranzo a prendere la paprika, ritardasse così tanto, aveva anche lui visto qualcuno, abbigliato come descritto da…, andare via uscendo dalla porta finestra della Sala da Pranzo. Questa ulteriore rivelazione sconvolge i piani accusatori del Procuratore perché sembra prendere in esame l’intervento di una persona che potrebbe essere venuta anche dall’esterno e quindi non rientrare più tra le persone presenti lì in Hotel: un sicario inviato ad uccidere Lazlo. Ma per quale ragione? E davvero si è trattato di un sicario, oppure è qualcuno che ha finto di esserlo e si è travestito per ingannare tutti? Ed è da mettere in relazione col tutto il tentativo di Lazlo, prima di essere ucciso, di imbrogliare la prova, cambiando l’ordine dei piatti da esaminare dalle persone ammesse alla prova? Può aver influito sulla dinamica dell’omicidio? Infatti ciascuno degli Chef avrebbe dovuto individuare gli ingredienti della salsa inventata da Lazlo, sulla base tuttavia di un altro aggiunto di proposito da lui che variava nell’ordine della partecipazione: a ciascun piatto, indicato da un numero, era assegnata una determinata salsa variata. Lazlo aveva cercato di imbrogliare fino alla fine, imbrogliando l’ordine delle salse, in modo da rendere ancora più ardua la prova: gli Chef, almeno i due che si scopre erano poi stati gli unici ad essere stati sfavoriti maggiormente, cioè Vuksic e Berin, avevano dovuto riconoscere nella salsa un ingrediente che in realtà nella loro non c’era perché appartenente all’altro.

Wolfe, troverà ancora molti indizi prima di capire chi abbia ucciso Lazlo e perché?

Capolavoro riconosciuto, Too Many Cooks ha avuto un cammino subito in discesa, merito dell’idea della prova e dei soggetti chiamati in causa: fino a quel momento un cuoco non era mai stato chiamato in causa in un omicidio. Non tragga tuttavia in inganno la scelta: è perfettamente in linea con l’ascendenza vandiniana di questo primo Stout anche se tuttavia..singolare. Infatti, il carattere più evidente della “nidiata vandiniana” è che per la prima volta, in maniera decisa, si fissa la peculiarità che il delitto di un certo tipo, premeditato ancor meglio, frutto di una mende diabolica ma straordinariamente intelligente, non può che essere il prodotto di una classe socio-economica elevata. E del resto, tutti i delitti che avvengono nei romanzi di Daly King, Ellery Queen, Abbot, Stout e naturalmente, Van Dine, sono il prodotto di una classe emergente: l’Alta Borghesia, tipica del mondo finanziario e del mito del Self Made Man tipicamente americano. E tutti questi Quinze Maitres, non sono semplici cuochi, ma Maestri di fama internazionale, che guadagnano somme astronomiche. Inoltre è presente anche un altro carattere vandiniano, riconoscibilissimo: il detective  ha una grande cultura personale.

Mentre Philo Vance era esperto di arti, soprattutto figurative, Nero Wolfe è esperto di arte…culinaria. E in questo Rex Stout stesso si manifesta molto vicino a Van Dine : infatti, mentre Van Dine stesso, grande esperto e critico d’arte statunitense, immise nel suo personaggio le sue aspirazioni e le sue conoscenze, così Nero Wolfe è lo specchio di Rex Stout, grande esperto, gourmet e gastronomo della cucina americana. Questo lo si apprezza nelle pagine riservate alle indicazioni contenute nel discorso che Nero Wolfe dovrebbe tenere, in cui peraltro viene fatto sfoggio in talune occasioni anche della lingua francese.

La cosa singolare è un carattere singolare che lo identifica non proprio come un seguace pedissequo del “verbo vandiniano”, ma come invece un romanziere che cerca una propria strada: in contrapposizione con “le venti regole da osservare nella scrittura di un romanzo poliziesco” elaborate da Van Dine e con le dieci derivate, di Knox, Stout affaccia per la prima volta un’alternativa sua personale: al divieto di far identificare l’assassino in un personaggio estraneo al numero dei sospettati, egli inserisce la possibilità che l’assassino possa essere venuto dal di fuori e quindi che non fosse uno dei presenti. Tuttavia anche questa sua alternativa deve essere vista nell’ambito del quadro temporale in cui viene elaborata.

Nel 1938, Van Dine non è più l’elemento caratterizzante della scena culturale letteraria statunitense, anzi vive un momento di reflusso (morirà a distanza di un anno) e già non ha prodotto più romanzi di grande impatto, riconosciuti dalla critica, e originali, a partire da Signori, il gioco è fatto!, ultimo romanzo originale, pervaso di grande penetrazione psicologica, che è stato scritto nel 1934. Nel momento in cui scrive Too Many Cooks, la scena americana è riservata ad altri autori, tra cui Stout stesso, tipo Daly King, Ellery Queen, Jonathan Latimer, Dashiel Hammett, John Dickson Carr, diversi nella propria proposta narrativa, ma tutti di primo piano. Stout quindi, che è riuscito già a ritagliarsi una nicchia di lettori, può tentare una via nuova e cercare di allontanarsi sensibilmente dal modello originale, cosa che peraltro è già avvenuta in Ellery Queen con un romanzo già diverso come “La porta chiusa” e due altri “nuovi”come “Hollywood in subbuglio” e “Il Quattro di cuori”, entrambi del 1938, testimoni di nuovo modo di proporre l’indagine e i rapporti del protagonista con la società circostante.

Ma il carattere di portata eccezionale, per cui Stout si manifesta scrittore al di là del poliziesco tout court, che egli inserisce in questo suo romanzo, è la presa di posizione contro il razzismo, una delle prime voci contro l’apartheid, da parte di una classe emergente di scrittori, che non solo fa divertire il proprio pubblico ma lo fà anche pensare, portando avanti, nelle pagine di un libro, una proposta politica assolutamente rivoluzionaria per l’epoca. La cosa è tanto più intenzionale in quanto la sede della trama, le Terme Kanawha, è posta in West Virginia, uno degli Stati del Sud, in cui era ancora presente in quel tempo una cultura pervasa di gretta difesa dei propri ideali e di razzismo più che palese, ben prima che il John Ball dell’Ispettore Tibbs apparisse sulla scena internazionale. La cosa è tanto più interessante quando si analizzi la figura di Stout, esponente della sinistra progressista, tanto impegnato politicamente e ideologicamente da essere stato inquisito più volte durante “la caccia alle streghe” intrapresa dal senatore McCarth, dal direttore dell’FBI Hoover, portatore di una ideologia che è anche culturale, propria degli stati industriali del nord, contrapposta a quella a difesa dei diritti dei bianchi degli stati del sud, ideologia che egli trasferisce come un suo alter ego nel suo Nero Wolfe. Nei capitoli 10 e 11 Nero Wolfe riesce, con la dolcezza, a ottenere delle informazioni proprio da quei dipendenti  (si noti come il personale dell’albergo si componga solo di lavoratori di colore) che, prima, bruscamente interrogati dallo sceriffo (esponente della cultura “bianca” imperante che impone a questa classe di individui solo lavori manuali rifiutati dalla società dei bianchi e non tollera e sottovaluta lo sforzo di alcuni di loro di elevarsi socialmente e culturalmente), non avevano detto di ciò nulla. E nel tempo stesso li difende dalla giustizia, ottenendo che essi non vengano inquisiti e neanche costretti a rimanere in città fino al processo (Nero Wolfe prende le difese dello studente-lavoratore Paul Whipple), contro la pretesa dello sceriffo Pettigrew di incriminarli per reticenza quando non costringerli a rimanere in città, per poi perseguitarli in un secondo tempo; tra i due si interpone la figura del procuratore, il quale, pur esponente dell’Alta Borghesia degli Stati del Sud, è pur sempre un individuo che deve fare di necessità virtù, e che quindi, per avere da Nero Wolfe le prove che una certa persona sia l’assassino, che egli sia stato aiutato da altra persona, che abbia agito con lui allo scopo premeditato di uccidere Lazlo, riconoscendo allo stesso tempo che Berin non possa essere stato l’uccisore, non esita ad accettare le 4 condizioni impostegli dal detective, imprescindibili per avere ragione in aula e riportare un successo personale. E’ una figura tutto sommato positiva: imbranato, goffo, impacciato, innamorato della figlia di Berin, che pure lui ha arrestato, non sa darsi pace, ancora quando il colpevole ed il complice sono stati arrestati, del livore che Costanza Berin gli palesa, e per questo il buon Archie, gran tombeur de femmes, lo aiuterà, nel finale del libro, rovesciando addosso a Costanza il suo drink a mettendo Tolman nella condizione di asciugarle il vestito, e quindi di ristabilire tra i due l’idillio amoroso che l’arresto del padre di lei aveva interrotto.

Sempre nell’alveo della presa di posizione di Wolfe a favore dei lavoratori di colore, noto un altro carattere interessante: non c’è solo la contrapposizione tra bianchi e neri, tra Pettigrew e Whipple per esempio, o Moulton, altro lavoratore di colore e capo dei camerieri, ma anche tra bianchi (Wolfe, e Pettigrew e Tolman): si osservi come Stout ridicolizzi lo sceriffo, descrivendone la strabicità, ed invece descriva positivamente Whipple; ma c’è anche  il diverso atteggiamento dinanzi a Wolfe dei dipendenti di colore, una contrapposizione che è non solo sociale, ma culturale ed ideologica: Moulton è espressione della maggioranza nera che ha accettato di servire e che rimprovera a Whipple la sua audacia verbale e il suo orgoglio personale, mentre Whipple invece rappresenta la nuova generazione “nera” che cerca un affrancamento anche culturale: Gli occhi di Wolfe si spostarono oltre: – Signor Whipple, vi conosco, naturalmente. Siete un cameriere abile e attento, a cena siete riuscito ad anticipare i miei desideri. Sembrate giovane per aver acquisito tanta competenza. Quanti anni avete? Il giovanotto con il naso schiacciato fisso Wolfe dritto negli occhi e disse: – Ventuno. Moulton, il capo cameriere, gli lanciò una occhiataccia e borbottò: – Devi dire “signore”. – Poi si rivolse a Wolfe: – Paul studia all’università. – Capisco. E in quale ateneo, signor Whipple? All’Howard University. Signore. (si noti come il “Signore”, posto da solo, ne accentui la forza dirompente e anche una forma di forzato rispetto, prontamente riconosciuto da Wolfe). Wolfeagitò un dito. – Se il Signore non vi va a genio, fatene pure a meno. La coprtesia forzata è peggio della scortesia. Frequentate l’università per farvi una cultura? – Mi interessa l’antropologia. – Davvero. Ho conosciuto Franz Boas, e possiedo tutti i suoi libri con dedica autografa…Vi rammento che Lawrence Dunbar una volta ha detto: “ la cosa migliore che un opossum sia in grado di fare è riempire una pancia vuota”. Il giovanotto lo guardò sbalordito. – Conoscete Dunbar ? – Certo, non sono un barbaro. (pagg. 134-135).

Il dialogo esemplifica come Wolfe, facendo leva proprio su una umanità che è anche psicologia applicata, riesca ad entrare nella guardia alzata di Whipple e a farla abbassare, parlando non da suo superiore ma da persona che possieda una tale cultura, l’unica cosa che Whipple riconosce come mezzo per affrancarsi dalla situazione di schiavitù anche sociale, ottenendo l’ammirazione del giovane. Osservo infine come la stessa presa di posizione di Stout contro il razzismo (figlio di quaccheri dell’Indiana e quindi espressione della cultura del Nord) sia espressione ideologica di un progressismo liberale che si tinge talora di socialismo, e che si distingue chiaramente da quella di Van Dine, pur espressione della intelleghentja new yorkese, ma pur sempre di destra, esaltatore del mito nietzschiano del super-uomo, di cui Philo Vance è fedele espressione, e che mai aveva espresso sentimenti radicali di sovversione sociale se non rispetto culturale, umano e sociale di un’altra classe, ancora ritenuta, settant’anni dalla fine della Guerra di Secessione, una “classe inferiore”.

Un altro carattere che si evince dalla lettura, e qui termino, è l’atmosfera tutta particolare, che si respira, e che è affidata alle descrizioni veramente maniacali sia degli ambienti che delle portate culinarie, di cui è espressione il linguaggio pregnante di Stout, che si esplica in un’affabulazione senza limiti, piena di riferimenti dotti ed espressioni caratterizzanti, di cui è espressione la traduzione sontuosa di Gianni Montanari. Proprio a questo riguardo, osservo come questo sia uno dei pochi casi di ritraduzioni dello stesso testo che riconosco come necessari per operare una rivalutazione dello stesso, la cui forza già emergeva nella traduzione sforbiciata di Alfredo Pitta, ma che solo quella integrale di Montanari riesce a far mergere compiutamente.

 

Pietro De Palma

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F. D. Roosvelt (R.Hughes, H.Adams, A.Abbot, R.Weiman, S.S. Van Dine, J.Erskine) : The President Mystery Story, 1935

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Il Presidente degli USA Franklin D. Roosevelt fu sempre un grande consumatore di libri polizieschi. Un suo amico personale era Fulton Ousler che con lo pseudonimo di Anthony Abbot aveva scritto alcuni romanzi vandiniani. A lui, come ricordava lo stesso Ousler, direttore di Liberty, un grande Magazine dell’epoca, Roosvelt quando era ancora Governatore dello Stato di New York, aveva detto: “A good detective story,” he remarked at that time, is the answer to Lowell’s question, ‘What is so rare as a day in June?’ Hundreds of such novels are published every year, but only a few are really worth the time and attention of intelligent readers. Even in the good ones there is often a sameness. Some one finds the corpse and then the detective tracks down the murderer. I do not believe that such stories have to follow an inevitable pattern or formula”

In altre parole, Roosvelt contestava il fatto che su centinaia di romanzi solo pochi fossero buoni e all’interno di essi non è detto che il meccanismo del plot fosse sempre originale. Tempo dopo, quando già era diventato Presidente (il primo mandato 1933-1941), allo stesso Fulton Ousler che gli chiedeva se avesse mai pensato di scrivere lui un poliziesco originale: “Then why haven’t you written it? You seem to find the time for everything else”, il presidente Roosvelt rispose che non avrebbe trovato il tempo per farlo anche se un’idea base l’aveva: solo che non riusciva a trovare una soluzione al suo plot: “Well, I haven’t had the time for that,” he protested. “But there’s another and even more important reason — I can’t find the solution to my own plot! And I’ve never found any one else who could solve it, either.”

In pratica l’idea base era quella di un uomo in possesso di sei-sette milioni di dollari che per una ragione importante intende scomparire rifacendosi un’altra identità ma eliminando ogni possibilità che egli possa essere rintracciato sulla base dell’enorme quantità di soldi posseduti: “All right!” he exclaimed. “You brought it on yourself. Here in a nutshell is the idea. The principal character in my story is a man of considerable wealth. Perhaps he has six or seven million dollars tied up, as such fortunes naturally are, in a variety of investments — stocks, bonds, and real estate. My millionaire is not an old man — just over forty and wise enough to feel that his life is only beginning. But he’s tired, fed up with his surroundings and habits. Perhaps, too, the sameness of his middle-aged routine has begun to wear him down. Furthermore, he is disheartened at the hollowness of all the superficial friendship surrounding him. The men at the club smile and slap him on the back but they go away to do him in the eye. Finally he has an ambition, a dream….Yes, my man plans to disappear. His purpose in vanishing from the scene in which he has played an important and successful part is twofold. First, he wants to find a new world for himself, one in which he will no longer be bored. He wants to start life afresh — he’s finished with his present career because he feels he has exhausted its possibilities. Second, and equally important, that dream he has — he would like to make a certain experiment in some small city where, in his new identity, he will not be recognized. To carry out this laboratory experiment, which if successful would become nation-wide and benefit all the people, he will need five million dollars. The dream will cost money, you see, and moreover he feels that he has a right to live well and enjoy, in his new environment, the fruits of his labors in the old. In other words, he wants to vanish — but he wants his money with him when he goes.

In pratica, come fa un uomo a scomparire con cinque milioni di dollari in un qualsiasi modo e non poter essere rintracciato? Nell’espressione di Roosvelt : “How can a man disappear with five million dollars in any negotiable form and not be traced?”.

A questo problema, lui, il presidente per anni aveva cercato di dare una soluzione senza riuscirvi. Così chiese a Ousler come lui avrebbe fatto. Ousler vi provò e riprovò, ma per quante soluzioni egli trovasse (ne trovò in realtà tre), il suo Presidente le smontava. Così un bel giorno Fulton gli propose una sfida: “Suppose,” said to the President one evening, “that we were to ask several leading story writers of the United Stales to solve this problem — S. S. Van Dine, Rupert Hughes, and other names of equal distinction. Why could they not all collaborate on a mystery story in which your problem is dramatized in the person of a man faced with this predicament? I believe that the problem could be solved. I believe these men and women are smart enough to solve it. And even if they can’t, I believe the readers of Liberty can”. In sostanza gli proponeva di sfidare alcuni degli scrittori più in vista in quegli anni a risolvere il problema, cioè a drammatizzare il plot del presidente, creando una storia in cui quel quesito avrebbe trovato una sperimentazione valida, che sarebbe stata pubblicata a puntata proprio su Liberty, e che sarebbe stata votata dai lettori.

Il Presidente ne fu entusiasta e gli diede carta bianca: “That would be fun! Go ahead. The idea is yours — and theirs. See what you can all do with it.”.

Così Ousler provide a chiamare alcuni dei suoi colleghi più rinomati ed ad affidare a ciascuno il capitolo di quello che sarebbe dovuto essere “Il romanzo del presidente”. Gli scrittori chiamati (che accettarono entusiasticamente) ebbero ciascuno  una delle sei parti del romanzo. L’inizio eccitante del romanzo fu affidato a Rupert Hughes, il secondo capitolo a Samuel Hopkins Adams, mentre nelle successive uscite (le varie parti furono pubblicate settimanalmente sul Magazine di Ousler, Liberty), Abbot (lo stesso Ousler), Rita Weiman, S.S. Van Dine e John Erskine svilupparono la storia fino alla conclusione.

Dopo essere stato serializzato sul Magazine (1935), lo stesso fu pubblicato come romanzo (1936) preceduto da una Prefazione dello stesso Fulton Ousler che spiegava la genesi del lavoro, e i diritti furono concessi all’industria cinematografica: se ne fece  un film nel 1936,  diretto da Phil Rosen e interpretato da Henry Wilcoxon (nella parte dello sfortunato Jim Blake) l’attore che interpretò il ruolo di Marc’Antonio nel Cleopatra di Cecil B. DeMille .

Il successo fu clamoroso per l’epoca, e, come ricorda lo stesso Ousler, egli e i suoi colleghi rinunciarono ai compensi editoriali devolvendo il ricavato della vendita del libro e del film al grande progetto del presidente di una fondazione il cui scopo fosse quello di alleviare le cause della paralisi infantile (lo stesso F.D. Roosvelt era stato colpito già adulto da quella che al tempo fu definita una forma di poliomelite e che invece era la sindrome di Guillain-Barré-Strohl, una radicolo-polinevrite acuta, con paralisi degli arti prima inferiori e poi superiori): “And finally, in appreciation of the fact that we are using without recompense a plot which was originated by Franklin Delano Roosevelt, we are, without the knowledge or consent of the President, turning over any or all moving-picture and book-publication rights to the Georgia Warm Springs Foundation, Inc., to help carry on the great work inaugurated by the President for the alleviation of infantile paralysis.”

Pietro De Palma

P.S. Alcuni testi in americano sono tratti dal sito di Liberty : http://www.libertymagazine.com

1 – continua

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F. D. Roosvelt (R.Hughes, H.Adams, A.Abbot, R.Weiman, S.S. Van Dine, J.Erskine)– Le due vite di Giacomo Blake (The President Mystery Story, 1935) – Il Romanzo Mensile N.3 Anno XXXV (dell’Era Fascista) – Marzo 1937

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giallo presidente 001In Italia, recependo immediatamente il grande successo americano, il soggetto fu pubblicato su Il Romanzo Mensile N.3 Anno XXXV (dell’Era Fascista) – Marzo 1937. Questa è la versione da me presa in esame, quella originale. Tuttavia, non è l’unica. Infatti, siccome l’ultimo capitolo lasciava la vicenda di Giacomo Blake “appesa” , parecchio tempo dopo, in America, si pensò di darvi una legittima conclusione. Così, nel 1967, il romanzo fu ripubblicato con una introduzione di Arthur Schlesinger Jr. ed un finale postumo, approntato all’uopo da Erle Stanley Gardner (creatore di Perry Mason). Questa è la veste del soggetto tradotto ad A.Ghilardelli e pubblicato nel 1982 da Mondadori nella sua collana, “Gli Oscar del Giallo”. Successivamente le Edizioni Olivares, nel 1993, ne approntarono un’ulteriore traduzione (sempre della versione postuma non originale), affidandola  a T. Guiducci.

Come già detto, l’inizio della storia, La voce dell’altro, che dovesse sviluppare il nocciolo di plot proposto dal Presidente Roosvelt, fu affidato a Rupert Hughes (sceneggiatore e scrittore).

Jim Blake è a capo di una famosa ditta di pratiche legali. E’abbastanza ricco, e ha sposato Ilka Varaska, una sedicente russa espatriata e riparata in Occidente dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Nonostante Jim la ami, tuttavia ben preso i rapporti si incrinano quando risulta che la coppia non è allietata dalla nascita di figli e che la stessa Ilka si rifiuta di adottarne. Per di più Jim, notevole filantropo, mecenate soprattutto di sportivi in erba, poveri e senza prospettive di successo, ne accoglie uno persino a casa sua, un tennista promettente di nome Earle Marshall, che come ringraziamento non solo vive e sbafa senza neanche ringraziare Jim, ma per di più si sbatte la moglie fedifraga, Ilka. Jim non sospetta nulla, ma della tresca è a conoscenza Carlotta Hope, la sua socia dello studio legale, ventiseienne, che lo ama segretamente ma è al tempo stesso conscia del legame matrimoniale che lega Jim ad Ilka, e nonostante sia a conoscenza dei rapporti dei due amanti, non dice nulla a Jim. Ma un giorno, per caso, Jim capisce di essere stato tradito dai due. Pertanto comincia a pensare di rifarsi una vita – visto che la moglie non vuole divorziare – e per questo, innazitutto vuole cambiare voce: pertanto fa ricercare un ventriloquo che gli insegni l’arte di cambiar voce. Questa sua iniziale decisione diventa una certezza quando, approfittando dell’assenza di Marshall, una sera chiama a casa sua la moglie, imitando alla perfezione la voce del tennista, e così apprende con sua grande paura, che i due folli amanti stanno progettando di ucciderlo. Lui vorrebbe sbattere la cornetta in faccia alla moglie ma poi, cambiando voce ed assumendo una dal timbro femminile, le rinfaccia di conoscere quanto lei ha appena detto. Inoltre Carlotta, nonostante lo ami, fà capire a Jim che in realtà ha un suo innamorato, e così quello capendo di non avere più ancore, né la moglie né l’amata, si fissa di non avere altra chance se non quella di fuggire via.

Il capitolo due, La prima vita finisce, affidato a Hopkins Adams (giornalista e scrittore), è in sostanza lo sviluppo della risoluzione di Jim: assume un vecchio attore teatrale perché gli dia lezioni di recitazione; assume come proprio primo modello, per poter applicare i suggerimenti del ventriloquo e dell’attore, un certo Fillinson, suo conoscernte; si fa liquidare cinque milioni in contanti dalla sua banca; prende contatti con il chirurgo plastico Grimshaw chiedendogli, in cambio di 70.000 dollari, di rifargli un’identità facciale; e sbriga ogni giorno fino a notte fonda gli affari dell’ufficio, così da ottenere la massima liquidità possibile. Le sue assenze da casa si fanno così frequenti che la moglie, che aveva abbandonato il proposito di assassinio, spaventata dal fatto che qualcuno al di fuori dell’amante sapesse del loro piano, ma che purtuttavia aveva preso l’abitudine di chiudere la propria stanza a chiave, quando viene a sapere che pure il marito chiude la porta dalla parte sua, si fissa che la cosa accada perché è lui a non amarla più e ciò perché ama Carlotta. Così intima alla socia del marito di dirgli cosa il marito faccia la sera, non ricevendo alcuna risposta e per di più mette in allarme Carlotta, quando questa sa da lei che non c’è nessuna vacanza che Ilka e Jim stiano per iniziare, come invece Jim le ha detto motivando il superlavoro in ufficio. Ritornando in ufficio, scopre la lettera con cui Jim le dà il suo  addio.

Il Capitolo tre, Verso l’ignoto, fu scritto da Fulton Ousler (Anthony Abbot). In pratica Jim Blake chiusa la sua precedente esistenza, sotto il falso nome di Carter, si dirige verso la clinica del dottor Grimshaw, dove trova tanta povera gente ferita, dolente e terrorizzata, che grida, che piange, che si lamenta. E quindi rimane molto scosso: comincia solo ora a capire cosa lo aspetti, ma trovata la  stanza riservatagli, estremamente accogliente, solo quando vi si abbandona, si rilassa. Nei giorni successivi, espone le sue aspettative a Grimshaw che gli chiede un modello. Jim, dopo un’indagine affidata ad una agenzia investigativa, trova un modello perfetto, Frank Carter: una persona che sta per morire, che ha grande reputazione, che non ha parenti, originaria del Canada, a cui Jim chiede di cedergli la sua identità, in cambio di una cospicua somma con cui potrà beneficiare la sorella ed il nipote che non riesce a trovare. Jim viene sottoposto ad una serie di interventi operatori che ne modificano radicalmente l’aspetto, e in più con l’uso di lenti colorate, cambia anche il tono degli occhi. Inoltre tramite un’agenzia specializzata, Jim Blake con la nuova identità di Frank Carter (il vero FranK Carter nel frattempo è morto ed è stato seppellito come Jim Blake) rileva una Ditta di Toronto, “Noble & Scarf” Ltd.  rilevando il 51% delle azioni. Intanto Carlotta, trovando delle indicazioni di Grimshaw, in ufficio, è arrivata in clinica proprio mentre è presente Jim: egli ha paura di rivederla perché teme che lei possa riconoscerlo, ma è Grimshaw stesso che lo convince ad incontrarla perché solo così saprà se l’intervento di plastica è perfettamente riuscito.

Quarto capitolo è L’Alba di Frank Carter, elaborato da Rita Weiman (una famosa sceneggiatrice cinematografica del tempo): Jim incontra Carlotta, ma quando lei lo vede non lo riconosce quindi pensa di avere preso una cantonata; nonostante ciò Jim cerca di consolarla. Avendo capito che l’intervento è perfettamente riuscito, vuole morire del tutto e quindi riesce a prendere contatto con un giovane studente di medicina, oberato da debiti di gioco, affinchè in cambio del saldo dei debiti, gli procuri un cadavere della sua corporatura. La notte prevista, avvenuta la consegna, facendosi forza, Jim ripone i suoi effetti personali su di lui e gli fa indossare i suoi indumenti, poi si mette al volante dell’auto che come Jim Blake aveva lasciato ad un’autorimessa e che lì ha ripreso, e si dirige ad un posto prefissato, lì dove c’è un burrone, dove lancia nel vuoto l’auto finchè di essa e del corpo che contiene non restano solo fumo e cenere. Intanto Ilka, che sapeva dell’auto lasciata da Jim e del tempo in cui lui l’avrebbe ripresa, l’ha seguito ad una debita distanza, fino a che assiste alla sceneggiata ordita dal marito e assiste alla di lui “morte”, rallegrandosi di essere finalmente rimasta sola a godersi la fortuna del marito, col suo amante.

Il quinto e penultimo capitolo fu affidato a S.S. Van Dine: L’imprevisto. Jim Blake prende possesso della sua nuova identità a Toronto e lì si dedica alal sua nuova occupazione, Nonostante ciò sente il bisogno di andare a vedere chi lo pianga al “suo” funerale, accorgendosi di quanto la moglie finga e di come invece sia addolorata Carlotta. Tuttavia un imprevisto scombussola quelli che erano i piani sia di Jim, che avrebbe voluto rifarsi una vita, sia della moglie Ilka che si sta apprestando a godere di quella che ritiene una grossa eredità: la moglie, avvisata del fatto che in realtà della eredità originale rimanga solo la nuda proprietà, che Jim le ha intestato prima di scomparire, con la scusa di facilitazioni fiscali, accusa Carlotta di sapere dove Jim abbia messo i soldi, venendo accusata di rimando di aver ucciso il marito. Infatti Carlotta si è accorta che Ilka è mancata alcuni giorni ed è ritornata proprio in coincidenza della morte del marito. Rosa da questa eventienza, Carlotta si reca alla polizia, dall’Ispettore Markham al quale confessa le sue perplessità, e la velata accusa che Ilka abbia ucciso Jim, sulla base dell’infedeltà manifesta di cui lei era stata  testimone. L’Ispettore ci vuol vedere chiaro e così comunica la sua decisione di voler riesumare la salma, chiedendo al dottor Doremus di apprestarsi ad una autopsia del cadavere. I risultati sono assolutamente sconcertanti: nel cranio della vittima viene rinvenuta una pallottola calibro 5,5. Guarda caso Ilka aveva proprio una pistola di quel calibro a casa sua, ma, sconsideratamente, accusata da Carlotta,  aveva chiesto al suo amante di disfarsene. Ora che la polizia, che sa dell’esistenza di una pistola a casa sua, chiede di vederla, lei non può acconsentire, ed offre quindi su un piatto d’argento la prova della sua presunta colpevolezza. Ilka viene arrestata per omicidio di primo grado e condannata a morte. In attesa di notizie, essendo venuto a sapere che pure la domanda di grazia è stata respinta e che quindi Ilka è avviata alla sedia elettrica, Jim decide di fare marcia indietro e di confessare tutto alla polizia. Per questo, decide di chiamare al telefono Carlotta, che lì per lì, prima di capire che Jim è vivo, pensa di star parlando ad un fantasma.

Il capitolo finale, La prova, fu scritto da John Erskine, un grande scrittore del tempo. Jim non vede altra alternativa che coinvolgere Carlotta nel suo tentativo di salvare Ilka, nonostante ella non sia una “stinco di santo” e abbia tentato di ucciderlo in passato. Ora si confessano vicendevolmente e finalmente Jim ha la prova dell’amore di Carlotta perché lei butta al vento ogni remora. Il tentativo per salvare Ilka non può che far capo al Governatore dello Stato di New York, il quale, solo lui, può annullare la sentenza capitale. Jim e Carlotta lo vanno a trovare e nonostante egli dubiti fortemente che quella persona, così diversa fisiognomicamente sia Jim, che egli ha conosciuto personalmente in passato, conunque, sulla base di ricordi comuni, che Jim gli rivela, acconsente all’estrema richiesta che gli viene formulata: l’unico che possa riconoscere Jim, lui ne è sicuro, è il cane, Tinker, che giace malato presso il suo casolare. Il guardiano, Patrick, come il Governatore, non riconosce Jim anzi si mostra decisamente indisponente, ma quando viene a sapere che quello sconosciuto vuol vedere Tinker e sa come si chiami, rimane sbalestrato: Tutti lo chiamano per nome ma il cane non risponde; ma quando Jim lo accarezza come solo lui sapeva fare, il cane in un ultimo guizzo di vita, si alza, lo lecca per poi accasciarsi senza vita. Solo a questo punto il Governatore crede alla storia di Jim e dà ordine di annullare la sentenza capitale. Jim si aspetterebbe di venir inquisito, ma anche qui vi è un imprevisto, questa volta a suo favore: il Governatore gli comunica che nessuno gli farà nulla, e che non ha da temere nulla, neanche da Ilka, visto che si è scoperto come la stessa non fosse affatto vedova, prima di sposarsi con Jim, ma avesse ancora il proprio vero marito vivo e vegeto a Varsavia: quindi il suo successivo matrimonio non è valido, e lei potrebbe essere accusata di bigamia. Solo allora Jim e Carlotta si baciano e finisce con un Happy End il romanzo.

E’ evidente, leggendo la storia, che scrivere a dodici mani non è la stessa cosa che scrivere da soli: è estremamente più difficoltoso, perché ciascun o deve imbastire la propria storia sulla base di quello che ha scritto quello prima di lui; tuttavia la storia non ha mai un andamento costante, ma ha alti e bassi. Con tutta franchezza i capitoli più entusiasmanti sono il primo, il quarto, il quinto e il sesto, cioè quelli scritti da scrittori di professione, o da sceneggiatori cinematografici: sono i capitoli che hanno un respiro più ampio e posseggono indubbiamente un piglio e un taglio assolutamente spettacolari. In particolare, il quarto, il quinto, e il sesto sono in assoluto i migliori, perché danno una sterzata al romanzo, che fino ad allora sembra una storia di appendice, trasformandolo in un thriller atipico in cui il morto è tale per opera di ignoti e il fine è quello di salvare la vita ad una assassina potenziale da parte di chi, essendo una persona buona, non può vivere col rimorso di aver mandato a morte chi in effetti non l’aveva ucciso, Si noti come Van Dine usi dei suoi personaggi della serie di Philo Vance: il dottor Doremus e Markham che qui è un Ispettore mentre lì è un Procuratore Distrettuale, come se avesse fatto carriera, laureandosi in legge. Comunque sia, magistrale è l’invenzione della finta morte con un cadavere preso in prestito, come pure magistrale è l’invenzione del proiettile nel cranio del cadavere preso in prestito, che determina l’accusa di omicidio di primo grado. Infine, il finale ha un peso letterario molto ampio ed è teatrale: il cane che riconosce il suo padrone. Dico che ha un peso letterario non di poco conto, perché mi pare che il finale ripeta esattamente un altro celeberrimo ritorno a casa, in uno dei Poemi più famosi in assoluto: l’Odissea. Anche lì Ulisse, badate bene, sotto mentite spoglie, sotto cioè un aspetto che non è il suo, come accade per Jim, si presenta a casa sua ma nessuno lo riconosce: così come Patrick, il guardiano del suo casale nei confronti di Jim, così Eumeo non riconosce Ulisse. Ma in tutti e due i casi è il cane che riconosce il padrone, seppure si presenti sotto mentite spoglie: Argo riconosce Ulisse, Tinker riconosce Jim.

E Roosvelt? Mah. Sicuramente fu migliore come Presidente che come scrittore di polizieschi. E anche se questo viene chiamato Il romanzo del Presidente, The President Mystery Story, in realtà converrà con me chi mi legge che il suo contributo fu assolutamente irrisorio, anche se il fine ultimo fu grande: si mise a punto un progetto per aiutare i bambini affetti da paralisi, che opera ancor oggi.

In quanto all’edizione italiana, mi vien da dire una cosa: la traduzione del testo è una delle migliori per resa in italiano che io abbia mai potuto vedere, tanto più se si pensa che risale al 1937, e la sua resa è in tale italiano fluido che si potrebbe pensare sia risalente a questi giorni; inoltre, individuo una caratteristica peculiare: in quei tempi, si tendeva a italianizzare tutti i nomi stranieri possibili, ma in questo testo assistiamo ad una procedura singolare: non so se per precisa decisione editoriale o per una presa di posizione rispetto alle direttive centrali e politiche dell’editoria, si tende a conservare dei nomi stranieri la formazione originaria: Franco Carter, viene indicato come Carter in tutto il romanzo per non indicarlo come Franco; Carlotta come Carlotta; Patrick come Patrick; “Giacomo (detto Jim)” Blake, viene indicato come Jim per tutta la durata del romanzo, invece che come Giacomo; Earle è Earle; Ilka è Ilka. Insomma, è la prima volta che mi trovo dinanzi ad una evenienza del genere ed è per questo che l’ho fatta notare.

Al di là del testo in sè per sè, comunque, il giallo può essere visto, come un Giallo nel Giallo, ad uno strato più profondo: Schlesinger Jr. nella prefazione all’edizione del 1967, avanzò l’ipotesi tutta da provare, ma suggestiva e secondo me assai verosimile, che il soggetto  inventato dal Presidente non sarebbe stato altro che la proiezione di se stesso secondo la tesi di Sigmund Freud secondo cui  i racconti, come i sogni, “possono essere una proiezione, la rivelazione di un processo interiore e cosi’ svelare qualche particolarita’ insospettabile del narratore”. Secondo questa ipotesi il preteso cambiamento di identità del ricco Jim Blake, sarebbe stato specularmente il cambiamento di identità del Presidente Roosvelt: anche lui appartenente all’Alta Borghesia,  disprezzava la classe sociale da cui proveniva . E sognava un’altra vita che si materializzò nella scelta politica. Cioè con altre parole “hating the falsity of his existence, the meaninglessness of his career, the sameness of his middle-aged routine, the absence of purpose and the boredom with his marriage”.

Pietro De Palma

The post F. D. Roosvelt (R.Hughes, H.Adams, A.Abbot, R.Weiman, S.S. Van Dine, J.Erskine)– Le due vite di Giacomo Blake (The President Mystery Story, 1935) – Il Romanzo Mensile N.3 Anno XXXV (dell’Era Fascista) – Marzo 1937 appeared first on La morte sa leggere.


Hillary Waugh – A cena con il delitto (Madam Will Not Dine Tonight, 1947) – trad. Lydia Lax – I gialli segreti, Nuova serie illustrata, n.51 del 1962

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Waugh 001Di Hillary Waugh abbiamo parlato in occasione dell’ottimo romanzo ripresentato qualche tempo fa da Polillo nella collana I Mastini, ma pubblicato parecchi anni fa da Mondadori. Come tanti altri, è bene dire.

Però non solo Mondadori, pubblicò i suoi romanzi, ma anche Garzanti (Serie gialla Le tre scimmiette) e piccole case editrici poi scomparse. Una di queste era La Tecnografica Editrice, che realizzò la serie de I Gialli Segreti, il cui Direttore Responsabile era Lydia Lax. Nome che non dice nulla ai più, ma che è conosciuto abbastanza a chi si diletta a collezionare (e leggere) i romanzi pubblicati in Italia anche da altre case editrici. Infatti Lydia Lax, non solo fu il terzo Direttore responsabile di questa piccola casa editrice di Varese, in ordine cronologico (gialli n. 25-99), ma anche la traduttrice dei testi: insomma, una piccola azienda con ruoli diversificati. Lydia Lax per di più non fu una traduttrice qualunque, ma una delle grandi traduttrici degli anni ’60; tradusse parecchio anche per Mondadori, segno che doveva essere davvero un’ottima traduttrice. Cosa del resto che si evince dalla scorrevolezza e dalla facilità di lettura del romanzo che analizzo oggi: A cena con il delitto (Madam Will Not Dine Tonight, 1947).

Anni fa Giuseppe Lippi, curatore di Urania, ma anche esperto di polizieschi, scrisse un bell’articolo su quelle piccole case editrici che, negli anni ’50 e ’60, e anche ’70, per poter attrarre il pubblico, soprattutto maschile direi, creavano delle copertine con donnine variamente discinte, oppure con fotografie, inserite nel romanzo, di modelle in bikini, che non avevano nulla a che fare con la trama del romanzo. Ecco, “I Gialli Segreti”, era una di queste piccole case editrici, che dovevano pur fare qualcosa per poter annullare il gap evidentissimo con quelle super-titolate, che non avevano bisogno di ricorrere a questi espedienti[1].

Sheridan Wesley è stato invitato a casa di Valerie King per una cena. Niente di strano se Valerie King fosse di sua conoscenza, ma così non è. L’invito è tanto più strano perché a Sheridan, che è investigatore privato, è stata recapitata una busta con l’invito in cui c’era una banconota da cento dollari e anche la richiesta di portare con lui a cena un’accompagnatrice, nel caso suo, sua moglie.

L’invito, che è già strano di per sè, acquista ancora maggior valenza in tal senso quando i due arrivano a casa di Valerie e non la trovano ad aspettarli; trovano invece una strana compagnia di persone: Jimmy Burns, un giornalista scandalistico; Charley Cromwell, un playboy; James Godfrey, un avvocato; Gloria Van Ryne, una bella ragazza di buona famiglia; i coniugi Hammitt. Il gruppo di individui là convenuti è tanto più strano in quanto loro non si conoscono – e potrebbe anche accadere che ad una festa le persone non si conoscano – ma ancor più è strano quando appare chiaro a Wesley e a sua moglie, che alcuni di loro dicono di aver mai conosciuto prima la King: per esempio i coniugi Hammitt, Burns e Gloria Van Ryne.

Intanto tutti aspettano Valerie, ma la padrona di casa sembra far aspettare i suoi ospiti. Sheridan comincia a chiedere informazioni, a fare domande: i domestici, i coniugi Webb, dicono che è andata in città il giorno prima e che quando loro sono tornati, alle dieci di mattina, già non era in casa, ma aveva annunciato il giorno prima di preparare la casa per un ricevimento serale, quando sarebbero tornati. E loro avevano fatto quanto loro ordinato. Tuttavia, questa rivelazione pare essere in contrasto con quanto Wesley ha scoperto: cioè che l’auto di Diana è ancora in garage. Segno che sarebbe andata in città a piedi da una villa in aperta campagna. Wesley comincia a sentire puzza di bruciato: se in casa sembra non esserci, da qualche altra parte starà. Intorno alla villa c’è un boschetto: nonostante sia sera, faccia freddo e loro siano vestiti con abiti da sera, Wesley e Diana si incamminano, illuminando il terreno con una lampadina tascabile che lui porta sempre in auto. Fatto sta che dopo aver trovato su un tratto di terreno, delle impronte di tacchi femminili, e poi una scarpa femminile col tacco, trovano Valerie, nuda, accoltellata, e morta da un bel po’, almeno un giorno.

Ritornano in villa e chiamano la polizia.

Le indagini sono affidate al capitano Slocum, che inizialmente diffida di Wesley, pensando ad un depistaggio, per poi dargli credito (ma solo fino ad un certo punto) quando sa che Wesley e l’Ispettore in capo Bradley, della Squadra Omicidi della Polizia di New York, sono ottimi amici. Nonostante tutto lo fa pedinare. Questo provoca la reazione di Wesley che, invece di affiancare l’indagine, indaga per conto proprio: innanzitutto sottrae, all’apertura della cassaforte di Valerie King, dalle foto e documenti che gli porge Slocum, una vecchia foto; poi in sua assenza, perquisisce più a fondo lo studio, dove aveva trovato, comunicando per telefono alla polizia l’avvenuto decesso di Valerie, del tabacco sparso sul tappeto e due barattoli di sigarette (di color rosso e verde) con i tappi invertiti che aveva messo a posto: partendo dal presupposto che i coniugi Webber ed in particolare la donna aveva affermato di aver pulito a fondo la casa giovedì mattina prima di andare via, ne desume che il tabacco doveva essersi versato dopo, come per una lite, quando  i barattoli si erano aperti e le sigarette erano finite sul tappeto. Togliendo il tabacco, si accorge che ci sono dei punti sul tappeto appiattiti, come se per del tempo ci fosse stato appoggiato sopra qualcosa di pesante che ipotizza essere state le gambe dello scrittoio; spostandolo in modo da far arrivare su queste zone i piedini delle gambe, si accorge che le zone del tappeto ricoperte provvisoriamente dalla gambe presentano delle macchie, presumibilmente di sangue: capendo che è lì che si è consumato l’assassinio, bussa sulle pareti per cercare ipotetici cassetti segreti e trova invece, dietro una riproduzione di un Corot, il proiettile di una 38 conficcatovi dietro, che provvede a rimuovere e a prendere. Dopo aver ripulito la stanza, va a consegnare il proiettile al suo amico della Omicidi per gli esami balistici, solo per sapere che proviene dalla pistola di un noto gangster finito tempo prima sulla sedia elettrica. Inoltre, facendo una ricerca sui giornali di anni prima, risale alle persone ritratte nella foto che ha sottratto: si tratta di due rapinatori, Lenny Myers e Joe Freeman: il primo, che aveva una sorella più piccola, Virginia Myers, è stato giustiziato sulla sedia elettrica, per l’omicidio di un benzinaio; il secondo, è evaso di prigione e non se ne è saputo più nulla; Virginia più tardi aveva cambiato il nome in Valerie King. Assieme ad altri indizi, tra cui carte e lettere conservate in quella cassaforte, esce fuori un altro ritratto di Valerie, non semplice moglie, tradita da un marito che si sollazza con quattro amanti, che vive con la cospicua rendita di azioni dell’ex marito, frutto del divorzio, ma ricattatrice patentata, che ricattava Cromwell, ex suo amante, ma anche probabilmente l’avvocato Godfrey, suo legale nella causa di divorzio; e probabilmente anche l’ex marito: possibile che ricattasse anche i coniugi Hammitt? Wesley si accorge che invecchiando la foro di Freeman, quella rispecchia l’attuale volto di Hammitt, l’industriale che ora lui sa essere un galeotto evaso, che poi ha fatto fortuna nell’industria. Chi sarà mai l’assassino? C’entra qualcosa il tentato suicidio del figlio dei Webb, innamorato anche lui di Valerie, che ricattava i suoi amanti e poi seduceva i giovani? Ha qualche valore la scoperta effettuata da Wesley, contestualmente alla scoperta delle macchie di sangue sul tappeto dello studio, di un frammento di lente diottrica?

Primo romanzo di Hillary Waugh, Madam Will Not Dine Tonight, non ebbe molto successo: fu scritto mentre Waugh era ancora sotto le armi. Per questo motivo Hillary, dopo aver scritto altri due romanzi, sempre accolti tiepidamente, Hope to Die (1948) e The Odds Run Out (1949), cambiò genere creando Last Seen Wearing, 1952 (“E’ scomparsa una ragazza”- Garzanti e Mondadori), il romanzo che lo lanciò nel firmamento del Giallo, con cui Waugh creò il Procedural per antonomasia.

Per quale motivo questo primo suo romanzo non ottenne il successo voluto? Probabilmente perché non creava nulla di nuovo. Avrebbe affascinato, se non avesse ripetuto alcuni elementi propri di romanzi usciti precedentemente al suo: è questo il limite del romanzo. E’ un prodotto onesto, scritto assai abilmente, che mischia l’Hard Boiled (i pedinamenti; l’aggressione nel night-club con scazzottamento, che fa il verso a tante altre analoghe, in particolare ad una contenuta in Headed for a Hearse, di Jonathan Latimer; la donna fatale, contrapposta alla moglie, che vuole con il sesso ottenere il risultato prefissatosi e quando non l’ottiene si produce in un effluvio di oscenità da scaricatore di porto) con il Mystery deduttivo (il sangue sul tappeto, che fa il verso ad un romanzo di Ellery Queen, The Egyptian Cross Mystery; la lente diottrica rotta e lo scambio delle scatole di sigarette, indizi connessi al daltonismo, che fanno il verso ad altro romanzo di Ellery Queen, The Greek Coffin Mystery; e sempre a tale romanzo di Ellery Queen potrebbe rifarsi questo di Waugh, per quanto riguarda la vena artistica di Godfrey, giacchè come nel romanzo di Queen c’è il pittore falsario Grimshaw, qui c’è l’avvocato Godfrey che è anche un artista provetto in quanto realizza delle stampe; il ricatto, tema già approfondito in tantissimi altri romanzi; e pure in parecchi romanzi precedenti, c’è l’indizio della falsa impronta per depistare le indagini) secondo un percorso già indicato proprio da Jonathan Latimer o da Craig Rice.

Al tutto aggiunge dei temi assai personali, che si ricavano se si associ ancora una volta, come accade spessissimo nei primissimi romanzi di un determinato autore, la vicenda personale a quella del suo eroe. Non a caso per esempio la moglie di Wesley, sia chiama Diana, come la moglie di Hillary Waugh, e l’avvocato Godfrey si diletta in stampe essendo un provetto disegnatore, come disegnatore lo era lo stesso Hillary, dedicatosi oltre che alla scrittura anche al fumetto.

Un romanzo comunque che si legge tutto d’un fiato, sorretto da ottimi dialoghi. Tuttavia  anche se la prova determinante è data da un ragionamento che dà i risultati voluti e che sfugge per sottigliezza al lettore, il colpevole può essere facilmente individuato sulla base del proiettile analizzato, parecchio tempo prima.

In pratica,  non vi è nessun effetto sorpresa nel finale (parliamo ovviamente del romanzo letto da lettori incalliti), in quanto il colpevole non può essere che essere una sola persona!

 

Pietro De Palma


[1] Giuseppe Lippi : Gialli proibiti – sesso e violenza in edicola http://www.europolar.eu/europolarv1/6_dossiers_articles_giuseppe_lippi_it.htm

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Paul Harding – Lo scheletro nel monastero (Murder Most Holy, 1992) – trad. Elisa Pelitti – Il Giallo Mondadori N. 2449 del 1996

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Molti anni fa conobbi Igor Longo. Avevo scritto una lettera al Giallo Mondadori e in particolare all’allora Editor Sandrone Dazieri, per avere una lista aggiornata (al 2003) di tutti i Gialli e Classici Mondadori dall’inizio delle serie e ottenere delle risposte in merito al genere da me adorato, cioè le Camere Chiuse. Dazieri mi disse che Igor Longo mi avrebbe dato tutte le delucidazioni che avessi voluto. Dal momento in cui lo contattai, cominciò una amicizia epistolare molto ricca di contenuti (ci telefonavamo anche), e mi ricordo che una delle prime cose che lui mi disse fu che per un appassionato come me di Camere era necessario che leggessi i romanzi di Paul Halter e Paul Doherty, che non consoscevo allora.

Per la qual cosa mi rivolsi a La Libreria del Giallo di Milano presso cui avevo acquistato parecchia roba, e Tecla Dozio mi procurò una serie di romanzi dell’uno e dell’altro, i primi di Doherty (quelli della serie di Athelstan) e parecchi di Halter.

Chi sia Halter, è arcinoto (l’ho anche intervistato l’anno scorso); urge invece qui spendere qualche parola per introdurre Doherty, i cui romanzi ammontano ad oltre cento attualmente e che è considerato uno dei migliori romanzieri viventi inglesi, tanto che tre anni fa è stato insignito dell’OBE (Order British Empire) dalla regina Elisabetta II.

E’ nato nel 1946 a Middlesbrough (North-East England). Ha ottenuto una Laurea in Storia alla Liverpool University per poi ottenere una Borsa di Studio Statale all’Exeter College ad Oxford, dove ha conosciuto la sua attuale moglie Carla Lynn Corbitt. Successivamente ha preferito non continuare gli Studi universitari optando per la carriera di Docente di Scuola Media Superiore. Nel settembre 1981, è diventato preside della  Trinity Catholic School, a Woodford Green, Essex, una delle scuole di punta in Inghilterra, premiata varie volte per l’alta qualità dei suoi insegnanti. Doherty, che da giovane aveva studiato per diventare prete cattolico, vi ha educato i suoi sette figli.

Nonostante infatti egli abbia cominciato a scrivere nel 1985, con The Death Of A King, subito dopo aver vinto un dottorato su Edoardo II, Doherty ha scritto romanzi di varie epoche con svariati pesudonimi (C.L. Grace – serie K. Swinbrooke : regno di Edoardo IV dopo fine Guerra delle Due Rose; Paul Harding – serie Fratello Athelstan:  regno di Riccardo II protettore John Gaunt, e serie Misteri d’Egitto; Michael Clynes – serie Sir Roger Shallot  Misteri dei Tudor: regno Enrico VII; Paul Doherty – serie Hugh Corbett: regno Edoardo I; Ann Dukthas –serie Nicholas Segalla; Anna Apostolou, serie Misteri di Alessandro il Grande; e altri ancora, tra cui Canterbury Tales, oltre a romanzi senza personaggi fissi. Da quanto si evince dalle date di pubblicazione dei vari romanzi, egli è evidentemente più affezionato ad alcuni personaggi di determinate serie piuttosto che ad altri (probabilmente anche per il successo ottenuto): nello specifico, le serie che ancor oggi vantano romanzi recenti sono quelle de I Misteri di Fratello Athelstan (l’ultimo è The Straw Men, 2012); Hugh Corbett (l’ultimo è The Mysterium, 2010); romanzi senza personaggio fisso (l’ultimo è The Last of Days, 2013); serie Canterbury Tales (l’ultimo è The Midnight Man , 2012).

Oggi analizzeremo un romanzo della serie  di Fratello Athelstan,  Lo scheletro nel monastero (Murder Most Holy, 1992).

Nel convento dei Blackfriars accadono oscure macchinazioni: è in fase di sviluppo un Capitolo Interno all’Ordine Domenicano per dibattere la questione concernente le affermazioni teologiche di Henry di Winchester, ma mentre i due inquisitori visionano le carte per dare una risposta sul fatto che esse contengano o meno eresie, Bruno e Alcuin, due confratelli, vengono barbaramente assassinati.

Al Capitolo Interno, Athelstan è convocato dal Priore del Monastero, Padre Alselm, per indagare sulla morte di Bruno e sulla sparizione di Alcuin, che non è stato visto uscire dalla chiesa, ma avrebbe potuto farlo, solo che tutti i suoi effetti personali sono rimasti nella sua cella. Athelstan non vorrebbe essere attirato nelle beghe e negli intrighi interni ai Domenicani, di cui è a tutti gli effetti una pecora nera, in quanto novizio è scappato assieme al fratello minore per combattere in Francia, finendo per sentirsi responsabile della sua morte sul campo di battaglia, e di quella per crepacuore dei suoi genitori: per questo è stato mandato per castigo a gestire una parrocchia malandata di gente miserabile, finendo per affezionarsi ai suoi parrocchiani, tra cui un cacciatore di topi, un porcaro, uno stagnatore, una prostituta, una ricca vedova, un pittore sognatore, formanti il Consiglio parrocchiale. Ma lo deve fare. Non vorrebbe anche perché ci sono altre due rogne che lo vedono protagonista: la prima concerne Sir John Cranston, coroner della Città di Londra, nominato da Sua Eccellenza John di Gaunt, quartogenito di Edoardo III e zio e protettore del giovanissimo Riccardo II, Sir John è caduta nella trappola tesagli dal protettore del sovrano, che lo vuole più legato a lui e non invece troppo indipendente come è attualmente. Per questo lo costringe ad accettare una scommessa del Signore di Cremona, Gian Galeazzo, ospite a Corte, in quanto lo si vuole indurre ad un prestito consistente nei confronti della Corona inglese, vessata dalle spese e da un clima continuo di ribellione dei contadini e dei baroni: deve risolvere un quiz riguardante un problema di camera chiusa: in una stanza senza che nessuno potesse entrarvi, senza che siano entrati cibi o bevande avvelenate, con la porta sbarrata dall’interno e le finestre ermeticamente chiuse, in vari diversi momenti, quattro persone sono morte, addirittura una è stata trovata uccisa dalla paura e con le unghie infisse negli stipiti di legno della finestra. La seconda rogna è parimenti infida: infatti, durante i lavori di rifacimento della pavimentazione della povera chiesa di St. Erconwald, cui fa capo la parrocchia di Fratello Athelstan, i muratori, scavando sotto l’altare, hanno trovato uno scheletro, che stringe una croce. I parrocchiani subito gridano al ritrovamento prodigioso: pensano di aver trovato le ossa di una martire, perché si tratta dello scheletro di una donna; e sembrerebbero darvi ragione un miracolo che avviene di lì a poco: un parrocchiano ricco, commerciante, che aveva contratto una brutta infezione al braccio, dimostra che esso è completamente guarito nell’incredulità generale e del medico che lo aveva visitato al cui dire l’infezione avrebbe potuto guarirsi dopo molte settimane e non così presto.

Appena arrivato al suo monastero d’origine, Athelstan comincia ad indagare: lui figura come segretario di Sir John e quindi con una posizione subalterna rispetto al grosso amico, ma in realtà chi svolge le indagini è lui mentre Sir John pensa a mangiare e a bere idromele. Athelstan capisce subito che il fulcro del mistero è il Capitolo interno: infatti di lì a poco, Fratello Roger, un povero mentecatto accolto nella comunità, che ha visto in chiesa qualcosa di cui non sa rendersi conto, viene trovato impiccato, ma in realtà è stato strangolato. Perché? Athelstan è sicuro che riguardi il mistero della scomparsa di Alcuin, che vegliava il corpo di Fratello Bruno, sceso nella cripta un attimo prima che scendesse lui. Athelstan sospetta che Bruno sia morto al posto di Alcuin e che anche quest’ultimo sia stato ucciso e immagina dove possa essere andato a finire il suo corpo: fa riaprire il sepolcro sotto la chiesa e fà issare la bara di FràBruno: quando la aprono, un puzzo pestilenziale si diffonde nella chiesa e tutti i confratelli, anche quelli che avevano criticato la riesumazione, attoniti, constatano che nella bara vi sono due cadaveri: quello avvolto nel sudario di Bruno e quello buttatovi sopra alla bell’e meglio, di Alcuin, strangolato.

Ma non è finita, perché viene trovato ucciso Callixtus, un altro confratello, nella Biblioteca: stava cercando qualcosa ma è caduto e si è rotto il cranio: in realtà qualcuno l’ha colpito con lo spigolo tagliente di un grosso candelabro in argento, come Athelstan e Sir John appurano grazie all’uso di una primitiva lente d’ingrandimento. E anche Athelstan per il rotto della cuffia scampa ad un attentato a suo danno.

Athelstan  individuerà l’assassino grazie ad un libro strappato della badessa tedesca Hildegarde vissuta un secolo e mezzo prima, libro che Callixtus stava cercando quando era stato sorpreso dal suo assassino. E risolverà la Camera Chiusa. E infine anche il mistero dello scheletro, grazie al suo amico Sir John che troverà Fitzwolfe, il precedente parroco di St. Erconwald, un prete scomunicato, dedito alla Magia Nera e a tutti gli affari poco puliti, che è fuggito anni prima dalla sua chiesa portando dietro il libro parrocchiale, dove erano stati trascritti tutti gli interventi, anche edilizi, svolti in chiesa prima del suo arrivo. E’ da questa fonte che Athelstan vuole risalire al carpentiere che mise in opera i lastroni di pietra, sotto uno dei quali è stato trovato lo scheletro sospetto. Vi riuscirà, e scoprirà che anche il miracolo, pure accaduto ad un uomo pio e benefattore della sua comunità, è un bluff, abilmente costruito con un trucco da guitto di strada.

E riuscirà anche Fratello Athelstan, grazie all’amico grassone, a far luce su una presunta nota informativa che era giunta e che voleva il marito di Benedicta – la vedova che Sir John sospetta sia piamente innamorata di Athelstan, cosa del resto contraccambiata – ritrovato presso un posto in Francia, lì imprigionato in attesa di riscatto, appurando che la notizia è falsa.

Le vicende di Athelstan e Sir John durante il protettorato di John di Gaunt si inseriscono nell’ultimo decennio del XIV secolo e precisamente avvengono in un tempo limitato, mesi cioè, al limite qualche anno: questo ci consegna un insieme di fatti che non si discostano molto per quadro politico generale, avvenendo durante l’infanzia di Riccardo II; solo in alcuni dei romanzi più tardi, cominciamo a vedere le sommosse che ci furono nell’Inghilterra e la confusione politica. Generalmente, invece, si differenziano gli uni dagli altri forse solo per le vicende che accadono ad Athelstan e a Sir John.

Comunque sia, che siano descritte o accennate vicende politiche vere o inventate, Doherty ha il dono di saper talmente descrivere con passione e veridicità la vita di ogni giorno della Londra di quel tempo, da far sì che il lettore, nell’attimo stesso in cui legge, possa immergersi e sentirsi lui protagonista, possa camminare con le ali della fantasia in quelle strade, vedere lui i mucchi di letame, i topi, le bisbetiche con la lingua imprigionata nella mordacchia, i “flagellanti” frustarsi intonando il Miserere, i rei di adulterazione di vivande immersi nelle botti piene di urina di cavallo, visitare le fiere in cui i commercianti di sete decantano i loro prodotti e i chioschi improvvisati vendono fragranti tortini di carne, in cui le osterie sono bettole fatiscenti o sale in cui aleggia il profumo dell’arrosto o del borgogna spillato dalle botti, in cui barconi solcano il Tamigi portando mercanzie, soldati o contrabbandieri. Questo soprattutto per una caratteristica che Doherty possiede a differenza della maggioranza di coloro che scrivono romanzi storici: lui è addentrato bene nelle pieghe della storia, è un esperto di storia inglese, è uno storico di professione che ha fatto fortuna scrivendo gialli; non è un giallista che si è inventato una dimensione storica. La differenza non è di poco conto. Lo si nota nella stragrande maggioranza di romanzi “cosiddetti” storici che non potendo descrivere la realtà di ogni giorno, così come la conosce Doherty, inventano, oppure ambientano i loro romanzi in quadri politici ben conosciuti. E’ vero che alcuni giallisti sono riusciti a ricreare dimensioni storiche affascinanti e di tutto rispetto (per esempio Carr), ma sono comunque una minoranza ben acclarata.

Quando Doherty parla di un fatto storico ben preciso, potete stare sicuri che lo sviscera in maniera tale che anche il più sprovveduto capisce che lui nella storia di quel particolare tempo, è ben calato. Mi ricordo come anni fa, durante un esame di Istituzioni Medievali, accennai al tempo di Giacomo I citando delle cose che avevo letto proprio in un romanzo di Doherty, della serie Shallot (pubblicata da Hobby & Works), suscitando l’interesse della docente che mi chiese dove avessi letto quelle cose e chi fosse l’estensore: non conosceva Doherty, ma quando lesse le note sue biografiche…

Oltretutto ha il dono di saper narrare, di scrivere meravigliosamente bene, cosicchè avvince il lettore, pur avendo dei limiti stilistici: per esempio, in tutti i suoi romanzi, non c’è mai una vicenda che vada avanti per tutto il romanzo dall’inizio alla fine, e dalla quale magari dipendono altre vicende, cioè non c’è un plot principale e dei subplots che dipendono dal principale, ma vi sono più plots – di cui magari uno è più importante di altri, perché ha uno sviluppo di pagine maggiore – talora concatenati, talora no, anzi il più delle volte non lo sono, cosicchè alla fine il romanzo è come se fosse un insieme di racconti legati gli uni agli altri solo dai personaggi fissi (Athelstan, Sir John e John di Gaunt) e da quelli accessori (i parrocchiani di St. Erconwald per Athelstan, Maude e i due pargoli per Sir John). Nell’ambito delle storie narrate in ciascun romanzo, c’è sempre la descrizione di un delitto impossibile o di una Camera Chiusa, che interessa o il plot principale o quello secondario. Nel romanzo analizzato oggi, ce ne sono quattro: due sono inserite nella narrazione principale (la sparizione di Alcuin dalla chiesa e il suo assassinio); e due in quelle accessorie (la Camera che uccide; il miracolo che non è tale ma che in base alle testimonianze, tutte vere, dovrebbe esserlo): l’assassinio di Alcuin è molto simile a quello narrato in Satan in St. Mary’s (romanzo d’esordio di Doherty nella serie di Hugh Corbett): un assassinio in chiesa, l’assassino che non dovrebbe esserci, eppure c’è, nascosto lì dove c’è l’ombra, magari indossando vesti nere, guanti e cappucci neri, cioè ricorrendo ad un vero e proprio trucco illusionistico; la sua sparizione è chiaramente derivata da quella presente in The Greek Coffin Mystery di Ellery Queen; la Camera che uccide è il più antico e più famoso degli esempi di Camera Chiusa (qui l’espediente narrato direi che derivi direttamente da quello di The Grey Room di Eden Phillpotts, pur essendo diverso l’agente killer, ma il mezzo è lo stesso ); infine il miracolo che non lo è, è ancora un trucco illusionistico.

Il successo della serie di Athelstan è forse da attribuirsi all’insolita coppia (le coppie nei Gialli sono sempre memorabili: S. Holmes e Watson, Poirot e Hastings, Philo Vance e Markham, Padre Brown e Flambeau, Henry Merrivale e Humphrey Masters, E. Queen e R. Queen, Alan Twist  e Archibald Hurst, etc..) in cui quello che dovrebbe essere il Watson della situazione, finisce per essere il vero detective, e quello che dovrebbe esserlo (Sir John) non lo è. Per di più la coppia è descritta macchiettisticamente: questo è il vero segreto del successo della serie. Il detective non è un eroe, ma è un antieroe: Athelstan rifugge dal successo che cede al suo compagno di avventure, e fà di tutto perché gli altri pensino a lui come un personaggio alternativo: un sognatore che ama perdersi a guardare le stelle, così come Sir John pur indugiando al tracannamento di Borgogna, Chiaretto, idromele e birra, molto spesso finge di appisolarsi (quando non si addormenta di botto davvero) perché gli altri pensino a lui come un ubriacone e non si curino di quel che dicono in sua presenza. Sono due personaggi simpatici e buoni di animo, burberi ma teneri. Inoltre Athelstan e la realtà della sua parrocchia, i suoi doveri e la sua veste canonica, i suoi uffici divini, i dogmi teologici, a mio parere riflettono la fede cattolica di Doherty e i suoi trascorsi di noviziato..

Un’ultima cosa vorrei osservare una curiosità: secondo me,  la vicenda della discussione circa una verità teologica, svolta da un Capitolo interno, con la presenza di inquisitori; la presenza di un libro che è la causa di alcune morti ( e lì è il mezzo addirittura); le morti di confratelli che avvengono in un monastero, sono tutte situazioni che Doherty avrebbe potuto trarre da Il Nome della Rosa di Eco, opportunamente modificandole secondo il suo gusto e il suo estro. Segno che Umberto Eco deve aver avuto un peso ed una risonanza molto vasti dappertutto, anche in Inghilterra, probabilmente anche grazie al film di Jean-Jacques Annaud e all’interpretazione di Sean Connery.

Pietro De Palma

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Noël Windry: Il giudice è in vacanza (Le Piège aux diamants, 1933) – trad. Alberto Tedeschi – G.E.M. n. 167 del 1940

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vindry 001Noel Vindry è una figura storica del romanzo poliziesco francese ad enigma e in particolare delle Camere Chiuse. Nato nel 1896 nell’Alta Savoia e morto a Parigi nel 1954, egli, avvocato e poi giudice, giudice istruttore, creò un personaggio in cui trasfondere la propria attività, conferendogli una grande calma, riflessione e capacità di analizzare a fondo un problema; una grande cultura, unita all’amore per la buona cucina; e facendone un gran fumatore di pipa. In sostanza nel giudice Allou si possono tranquillamente notare i caratteri di almeno sei grandi detective, a lui precedenti in quanto ad apparizione (e a me pare evidente che Alan Twist di Halter sia molto vicino, come caratterizzazione del personaggio, ad Allou). Vindry consegnò alle stampe dodici romanzi, con il giudice Allou, tutte Camere Chiuse. Di essi, pochissimi sono stati ristampati in epoca moderna, e sul mercato dell’antiquariato librario e del collezionismo, i Vindry essensdo difficili a trovarsi, sono anche piuttosto costosi. Ecco la serie originale:

  • La Maison qui tue, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1931
  • Le Loup du Grand-Aboy, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1932
  • La Fuite des morts, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1933
  • Le Piège aux diamants, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1933
  • Le Fantôme de midi, Gallimard, « Chefs-d’œuvre du roman d’aventures », 1934
  • La Bête hurlante, Gallimard, 1934
  • L’Armoire aux poisons, Gallimard, 1934
  • Le Collier de sang, Gallimard, 1934
  • Le Cri des mouettes, Gallimard, 1934
  • Le Double Alibi, Gallimard, 1934
  • Masques noirs, Gallimard, 1935
  • À travers les murailles, Gallimard, 1937
  • Les Verres noirs, Gallimard, « Le Scarabée d’Or » no 16, 1938

Di Noel Vindry, sono stati pubblicati solo tre romanzi in Italia, due in libro (La Maison qui tue e Le Piège aux diamants ) ed uno sotto forma di romanzo a puntate su rivista (Les Verres noirs).

E’ bene subito dire che l’edizione GEM, tradotta da Alberto Tedeschi, direttore e alla bisogna anche traduttore, fu massacrata. Perché ? L’interrogativo non riguarda tanto la sostanza, perché i GEM erano pubblicazioni popolari, estremamente ridotte, rispetto alle più lussuose e sovra-copertinate Palmine, romanzi che venivano opportunamente tagliati nelle traduzioni e presentati in paperback. L’interrogativo che mi pongo, che pongo e che rimarrà purtroppo senza risposta, è perché mai proprio un romanzo di Vindry, l’unico poi di cui Mondadori avesse acquisito i diritti, venne sottoposto a questa infame tosura e quindi non pubblicato integralmente nelle Palmine ed invece lo furono altri romanzi, per esempio i due di Marquand, con Mr. Moto, certamente meno importanti? Io penso per una ragione. Tedeschi non amava Carr, e non amava i francesi. Aveva pubblicato uno dei capolavori di Very nelle Palmine, e uno Steeman. Ma pur essendo due Camere Chiuse, gli autori erano più conosciuti in Italia rispetto a Vindry. Persino i due Marquand avrebbero potuto, immagino io, nelle aspirazioni di Tedeschi, che gestiva con poteri assoluti quasi la collana, rendere di più, perché Mr. Moto è affine a Charlie Chan, è un detective asiatico, e come tale avrebbe potuto far ricordare al lettore attento il protagonista dei romanzi di Biggers. Fatto sta che proprio per il taglio importante del romanzo e per aver fatto più un lavoro di collage che non di vera traduzione, il romanzo è molto difficilmente leggibile e non ha un grande respiro. Però il fascino dell’atmosfera rimane tutta, perché è il tema del romanzo che le dona un fascino tutto suo.

E’ bene anticipare qui anche che il protagonista non è tanto  il Giudice Allou, protagonista dei dodici romanzi di Vindry, quanto il suo collega Dampierre, incaricato delle indagini. Allou, compare in un secondo tempo, come accade nel primo romanzo di Carter Dickson con H.M., e diventa quindi il “deus ex-machina” della ricostruzione e della soluzione finale.

Gli attori principali del dramma sono i tre soci delle “Gallerie del Porto”: Flavio Dancour, suo fratello Paul e André Caroux. Il padrone originario è Flavio che però ben presto, accortosi di aver intrapreso un’attività ben al di là delle proprie forze, si consocia con un amico e con il fratello Paul. I due, per arricchirsi alle spalle dell’ingenuo Flavio, fraudolentemente fanno in modo che i suoi affari vadano alla malora e in più gli concedono un prestito che sanno non potrà mai essere onorato. Insomma, ben presto, contro Flavio viene spiccato un mandato di arresto per bancarotta fraudolenta. Solo in extremis il fratello Paul si ravvede, e pure avaro e taccagno qual è, concede un sostegno di settantacinquemila franchi a Flavio e la possibilità di fuggire in motoscafo, giacchè per la legge francese il domicilio era inviolabile dal tramonto fino all’alba e quindi Dalcour, a meno che non si consegni lui alle forze di polizia, dovrà essere arrestato all’alba, e fino a quel momento il commissario Laurent e degli agenti circonderanno la casa impedendo a qualsiasi persona, che fosse in quella casa, di uscire senza essere da loro intercettato. Durante l’assedio, Flavio verrà visto affacciarsi alla finestra e rispondere al richiamo della polizia ad arrendersi e verrà scorto da un agente arrampicatosi fin sotto alla finestra, prima seduto ad un tavolo, poi per terra. Il fatto è che prima che venga visto per terra, si sente chiarissimo un colpo di pistola, poi viene visto il corpo di Flavio per terra ed allora si è inclini a pensare che si sia ucciso. In realtà non tutto va così.

Infatti, nonostante lo sparo, la polizia non entra in casa perché la porta è dotata di serratura particolare. Tuttavia vedono un’auto avvicinarsi sempre più: è il dottor Rufare, amico della vittima, il quale era spaventato per dei rumori di passi e per questo gli ha chiesto di venire subito. Tuttavia nessuno può essere uscito, perché c’è il cordone di polizia tutt’attorno. Ma quando entrano, e trovano Dacour riverso per terra, il dottore, visitandolo attesta che è stato ucciso con un corpo contundente che gli ha fratturato il cranio. Mentre il dottore visita il cadavere, i poliziotti e il commissario perquisiscono la casa, mentre il figlio del dottore sta sulla porta di casa, non sopportando la vista di un cadavere.

Non trovano nessuno. E neanche la pistola. E non può essere scappato, perché l’uscita era presidiata da Pierre, il figlio di Rufare. E allora? Come ha fatto l’assassino a fuggire?

Al primo mistero se ne aggiungono degli altri.

Il dottore afferma di avere visto in casa di Dalcour 5 meravigliosi brillanti azzurri, stimati trecentomila franchi, che evidentemente la vittima aveva sperato di portare via con sé. Ma i 5 brillanti non si trovano: erano in una cassettina di ferro, che si apriva con un congegno a scatto attivabile mediante un segreto. Ma brillanti e cassettina non si trovano: il delitto è la conseguenza di un furto? L’assassino è il ladro?

La polizia mette gli occhi sulla ex domestica di Dalcour passata da pochi giorni a servizio da Caroux: può esser stata lei a trafugare i brillanti. La polizia non crede alle sue parole e l’arresta. Il fatto è che la polizia è convinta che ci siano due responsabili: l’assassino e Giannina Arlaud, la domestica. Perché le impronte rinvenute su un candelabro di argento, non appartengono ad alcuno dei sospetti, tantomeno a Giannina.

Qualche giorno dopo, viene trovato morto Paul Dalcour, fratello di Flavio: è stato trovato nella sua povera stanza (non era povero, ma viveva da povero per non spendere soldi ) chiusa dall’interno, asfissiato dal gas; sul tavolo una lettera in cui si proclama assassino del fratello. Solo che le impronte sul candelabro non sono le sue.

Emerge un altro fatto importante ora: Flavio, otto giorni prima di morire, aveva ceduto i brillanti a suo fratello Paul, in cambio di un assegno di duecentocinquantamila franchi. Perché allora Rufare ha detto di averli visti a casa di Flavio? Mentre Giannina dice di non vederli più almeno da due settimane, e il tempo coinciderebbe con la vendita degli stessi? O Flavio non li ha venduti e allora la notizia è falsa, oppure li ha venduti e Rufare ha mentito. Ma perché? Rufare dev’essere estraneo al delitto: del resto la telefonata dal suo amico è stata fatta. Per quale motivo Dalcour avrebbe chiamato proprio il suo assassino? Ma poi come avrebbe fatto ad ucciderlo, se non c’era quando Dalcour è morto? No, è un’ipotesi che non regge. Rufare dev’essere estraneo.

Come insolita e fonte di dubbi è la faccenda di Paul Dalcour. Per quale motivo egli si sarebbe dichiarato responsabile della morte del fratello se gli aveva dato un assegno per  duecentocinquantamila franchi a fronte dei cinque brillanti? E ancora più strana è la questione dell’omicidio: per quale motivo sarebbe stato ucciso se non aveva già più i diamanti? Forse l’assassino non lo sapeva, un assassino ignoto ancora nella vicenda.

Un nuovo colpo di scena esplode. La polizia riceve una telefonata anonima e intercetta due ladri che hanno compiuto un furto in appartamento e la casa è quella di Caroux: essi stanno portando via una cassettina, che viene riconosciuta da Rufare, come quella dell’amico. Dopo averla fatta scassinare, vi trovano dentro, immersi nella bambagia, cinque brillanti azzurri. Conseguenza possibile? Se Caroux aveva i brillanti, è chiaro che egli è l’assassino. Si pone sempre il problema: come avrà fatto? Caroux viene arrestato: ladro e assassino sono la stessa persona. Almeno così parrebbe.

Ma un nuovo sconvolgimento accade: i cinque brillanti, analizzati, sono falsi: per quale motivo avrebbe ammazzato Dalcour? Per cinque brillanti azzurri falsi? Caroux non lo sapeva? E perché Dalcour aveva 5 brillanti falsi, quando aveva venduto quelli veri al fratello, ora scomparsi?

Si presenta un gioielliere spontaneamente e consegna alla polizia un brillante, che è stato da lui acquistato a casa di una vecchia megera, a lui presentatasi per la vendita: essa viene identificata nella domestica di Paul Dacour. Insomma un nuovo personaggio entra nella vicenda: che ruolo ha?

Come ha fatto ad entrare in possesso dei brillanti? Possibile che il suo padrone, avaro e taccagno anche in punto di morte (andava a letto presto per non consumare la luce, e risparmiava sull’inchiostro e sui pennini, e utilizzava come carta da lettera quella ricavata da altri fogli già utilizzati) gliel’avesse detto e si fidasse tanto di lei?

Caroux prima si dichiara estraneo alla vicenda, poi chiama in causa Rufare e Giannina. Rufare, messo alle strette, rivela il vero fine di Dalcour, che lo aveva “costretto” a rimanere invece di fuggire subito: tentare una truffa, vendendo all’amico, ma anche socio di Caroux in operazioni finanziarie al limite della legalità, i cinque pezzi di vetro abilmente contraffatti.

Le indagini sono ad punto di stallo: perché se è vero che Caroux è stato arrestato con l’accusa di furto, non c’è nessuna prova che egli abbia ucciso Dalcour, né la polizia ha prove per dimostrarlo.

Entra in scena a questo punto il giudice Allou, amico del cugino del giudice Dampierre, il quale, non volendo umiliare il collega, preferisce che sia quello a dedurre, dopo aver raccolto delle prove. Allou è già molto conosciuto per aver risolto brillantemente dei casi insoluti di Camera Chiusa. Dopo aver posto sulla bilancia delle domande che nessuno si era posto (Dalcour aveva un’assicurazione sulla vita? Chi ha fatto la telefonata alla polizia che ha permesso di bloccare i due ladri? Sono davvero i brillanti il movente dell’omicidio?), Allou provoca l’azione del collega. Le indagini permettono di identificare il misterioso informatore nella persona del dott. Rufare: come sapeva egli che Caroux aveva rubato i diamanti? Rufare rientra nell’inchiesta, gli vengono prese le impronte digitali, ed ecco..queste sono quelle trovate sul candelabro. Capovolgimento della situazione: Caroux non è più l’assassino, ma solo il ladro; Rufare è l’assassino. Ma come avrebbe mai fatto? E allora Paul Dalcour perché si è dichiarato assassino del fratello?

Allou propone la sua verità: Rufare non avrebbe ucciso ma solo tentato un’estorsione. Ma allora chi è stato? E come ha fatto? In un pirotecnico susseguirsi di eventi e rivelazioni, Allou identificherà l’assassino, il ruolo di un complice, il mistero della pistola scomparsa, di quella degli altri quattro brillanti e dell’assegno di duecentocinquantamila franchi.

Romanzo pirotecnico, propone una continua inversione di ruoli e situazioni, giungendo sul finire del romanzo a proporre una ipotesi sconvolgente: un omicidio che diventa suicidio e un suicidio che diventa omicidio, riuscendo a ricostruire esattamente la vicenda e il ruolo di ogni singolo protagonista. Il continuo turbillon di avvenimenti, di rivelazioni e di controrivelazioni che annullano le precedenti creano uno spaesamento del lettore che, avvinto dagli avvenimenti, non riesce più a capire nulla. Confesso che persino il sottoscritto, che ne ha letti tanti di romanzi, non avrebbe mai pensato alla possibilità di invertire la sostanza delle morti dei fratelli. Veramente un romanzo straordinario.

Del resto il coinvolgimento di Rufare nella vicenda si estrinseca in una messinscena: i passi che Dalcour aveva sentito, sono solo un depistaggio, per… Ma allora in cosa c’entra? Come mai non è l’assassino se sul candelabro che ha provocato la morte di Dalcour c’erano le sue impronte? Ma Dalcour è morto per la frattura oppure no? E perché lui avrebbe attestato la morte di Dalcour? E perché l’autopsia rivela la frattura effettivamente? Insomma di carne sul fuoco Vindry ne mette tanta!

Ricordiamoci che il romanzo, il terzo nella successione dei dodici di Vindry, è del 1933.

Nel 1940 Agatha Christie consegnerà alla storia un romanzo che farà epoca ed influenzerà tutto il genere: Evil Under the Sun. Vi ricordate l’escamotage del romanzo? Beh, è anticipato in questo, né più né meno. Possibile che la Christie abbia copiato l’idea di Vindry? Possibilissimo direi, visto che stranamente anche quella di un romanzo di Steeman, Six hommes morts, si ritrova nel suo capolavoro Ten Little Niggers, e in quello di Bristow & Manning, The Invisible Host. A mio parere bisognerebbe analizzare l’opera della Christie alla luce anche dell’influenza del romanzo francese.

E Vindry? Indubbiamente già in questo romanzo troviamo un tema che ricorrerà in uno dei suoi capolavori successivi, La Bête hurlante: il fatto che la casa sia circondata da un cordone di polizia che determina l’impossibilità che l’assassino sia riuscito a fuggire. Ma troviamo anche caratteristiche riconducibili anche ad altri romanzieri francesi del periodo: il fatto che al centro della trama non vi sia una caratterizzazione psicologica dei personaggi ma l’enigma. E’ l’enigma, il centro di tutto, intorno a cui si muove la vicenda: in sé per sé la caratterizzazione psicologica è nulla o quasi e anche l’esiguità degli attori fa sì che l’azione si concentri esclusivamente sulla storia, un procedimento che si trova concretizzato anche in Boileau. E’ evidente che Vindry si ponga in maniera antitetica rispetto a Simenon, per cui invece l’enigma non è il fulcro della vicenda ma solo un tassello ed il centro di tutto invece è la psicologia dei personaggi: Vindry è molto più vicino a Carr, anche se Carr in certi suoi romanzi caratterizza i personaggi in maniera più a tutto tondo di quanto non faccia Vindry.

Vindry è vicino a Carr ma soprattutto al Carr di Bencolin e questo lo si può dedurre da un fatto: Vindry comincia a scrivere nel 1931, mentre il primo romanzo di Carr è del 1930. In ambedue, protagonista è un giudice, ancor più juge d’instruction: è lui che risolve il mistero. In Carr il primo Bencolin è una Camera Chiusa, e guarda caso di quali casi si occupa il giudice Allou? Di Camere Chiuse. Ma Vindry è vicino a Carr anche per un’altra faccenda: ambedue, ma in realtà anche Boileau spesso, per arrivare alla soluzione, capovolgono la situazione: quando il quadro delle prove non porta a nulla, provano a guardare il problema da una diversa prospettiva, che spesso è opposta. Sia Bencolin o Fell (o H.M.) sia Allou hanno la capacità di staccarsi dal mondo reale e guardare la successione degli eventi come se il loro spirito si fosse librato astralmente, staccandosi dalla materialità degli eventi terreni. Così come in Hag’s Nook capovolgendo l’ordine delle cose Carr riesce a individuare l’assassino tra il meno probabile, qui Vindry riesce a dargli un nome, anzi a provare la sua colpevolezza, sovvertendo l’ordine delle cose: un assassinio diventa suicidio ed un suicidio diventa omicidio.

Tuttavia, nel momento in cui accade questo rovesciamento di prospettiva, aumenta anche il virtuosismo dell’indagine. Se infatti le cose così avrebbero un senso (Paul Dalcour è stato trovato a letto come se volesse dormire; la lettera che ha lasciato, dato la sua tendenza a utilizzare pezzi di lettera, sarebbe potuta essere un frammento di una lettera più lunga, con un senso diverso rispetto a quello che a prima vista si desumeva: la filiazione dal Chesterton di The Wrong Shape, è chiarissima), gli interrogativi aumentano a dismisura: con l’omicidio, si tende a conoscere l’identità dell’omicida ed il suo modus agendi; con il suicidio, la scomparsa della pistola, dell’assegno, la frattura del cranio, la strana constatazione di decesso di Rufare che collima con quella del medico legale, le sue impronte sul candelabro, ma nello stesso tempo la sua estraneità all’assassinio; e nel tempo stesso, il suicidio che diventa omicidio di Paul, costringe gli inquirenti a confrontarsi con la soluzione di una Camera Chiusa diventata tale. E il tutto, spiegando anche gli alibi.

Così, in sostanza, il capovolgimento dell’ordine delle cose porta Vindry a capovolgere il senso di due Camere Chiuse: spiegando la prima in modo che non lo sia, e spiegando la seconda morte come in effetti una Camera Chiusa, al tempo stesso dandone una soluzione assolutamente lineare.

E’ da dire peraltro che Vindry, a differenza di Agatha Christie e apparentandosi ancora una volta a Carr, non imbroglia per nulla il lettore: il quadro dei fatti è assolutamente quello che è davanti agli occhi de magistrato, quella che cambia è la prospettiva da cui viene guardato il problema e la capacità di immaginare, allontanandosi dal reale.

E per certi versi Vindry, realizza qualcosa di suo, una caratteristica assolutamente personale, nel suo far diventare difficile il facile: diversamente da tutti i comuni detective che cercano in tutti i modi di semplificare la successione degli eventi, riducendo i fattori ai minimi termini, Vindry realizza un absurdum: spiegare l’inspiegabile, facendolo diventare ancora più astruso e più denso di implicazioni recondite, nel tempo stesso spiegandole e dando all’insieme un suo significato.

Pietro De Palma

 

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Sua Maestà L’ENIGMA PURO: piccola storia dell’enigma come genere letterario.

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C’era una volta l’Enigma Puro.

Sin dai tempi di Sherlock Holmes, l’enigma è stato il centro del plot di tutti i romanzi polizieschi, da quelli della Golden Age sino ai meravigliosi romanzi degli anni ’30.

Passato attraverso le nebbie di inizio secolo, le avventure di Fantomas o di Arsene Lupin, l’enigma è stato il perno di tutta la narrativa di genere degli anni ’20. Se inizialmente le trame mettevano al centro dello svolgimento i disegni delittuosi di bande di malfattori, con la conquista dell’Alta Borghesia in quanto bacino privilegiato di lettura del poliziesco, la stessa qualità del Mystery si evolse, contemplando non più delitti nelle sordide stradine di Soho, ma nelle splendenti dimore di duchesse, diplomatici o banchieri.

Perché questo accadesse, perché il Mystery conquistasse un posto suo particolare, fu necessario innanzitutto che superasse il gap di essere considerato sottogenere letterario o che fosse confinato nella paraletteratura. Ciò accadde nel momento in cui il genere poliziesco cominciò ad essere avvertito come genere letterario, “come categoria letteraria specifica, come genere a sé”. Proprio il fatto che il poliziesco trattasse un’amplificazione letteraria di fatti di sangue, portò probabilmente alla convinzione che il poliziesco, come genere letterario, non fosse letteratura, ma cattiva letteratura. Ecco allora l’evoluzione del poliziesco e la sua trasformazione in romanzo-enigma.

Ronald Knox

Fu in Inghilterra che precipuamente questo indirizzo si affermò, considerando la detective novel come un esercizio letterario, che attraverso regole codificate, affermasse e valorizzasse il romanzo poliziesco. Il primo organismo che in certo senso si occupò di questo, legando i propri appartenenti a non violare il proprio codice, fu proprio il Detection Club, fondato nel 1928 da Berkeley. La codificazione venne poi stabilita e cristallizzata in più divieti, come nelle 20 Regole di S.S. Van Dine, nel Decalogo di Ronald Knox  o nelle regole di Dorothy Sayers.

Attraverso questi codici, venivano a crearsi delle piattaforme, delle piste preferenziali ed esclusive su cui marciavano solo quegli scrittori che avessero sottoscritto idealmente il contratto base: l’intrigo doveva essere inaccessibile alla soluzione perché a condurre il gioco, a stupire, doveva essere l’autore, e fatto imprescindibile perché il successo arridesse al romanzo era che la qualità dello stupore fosse di massimo grado possibile (cioè vi fosse ardimento,  fantasia, razionalità) ma mai imbroglio, cioè ancora se proprio vi fosse dovuta essere trasgressione, essa comunque sarebbe dovuta essere pur sempre sottoposta stata alla codificazione. Così, in questo modo, veniva creato un certo elenco di scrittori, da cui il lettore poteva aspettarsi di tutto, ma mai l’imbroglio e soprattutto, il rispetto alle regole a cui si attenevano tutti gli altri.

Perché anzi si potesse parlare di Mystery di un certo tipo qualitativo, era necessario che ogni accenno a malavita o altro fosse bandita, perchè il delitto non era più un fatto di sangue, una vendetta, un atto di protervia e di cieca brutalità, ma un parto delle menti più raffinate (e degenerate), una partita a scacchi, una sfida di strategia tra due menti supreme, l’assassino e il detective. I cadaveri furono privati del sangue, spesso puliti, non si accennava se non raramente a scene da Grand Guignol, i delitti erano asettici, perché il sangue, l’emozione, non doveva turbare il procedimento logico, il gioco, l’enigma.

La letteratura poliziesca del resto, seguiva (segue tuttora, ma solo in determinati casi) un procedimento unico in quanto spesso deve confrontarsi con la logica, che è una qualità non tanto di carattere umanistico ma matematico: potremmo dire che, attraverso l’enigma puro, il genere letterario poliziesco diventa la sintesi di due discipline opposte: le lettere e la matematica, lo spirito razionale e quello irrazionale, la fantasia (e la capacità di descrivere) e la logica. Per questo, “il delitto come una delle belle arti” come soleva dire De Quincey, diventa l’espressione massima dello spirito intellettuale dell’epoca: una sorta di divertissement delle menti più impegnate, pronte alla sfida di scrivere, ma al tempo stesso una sorta di confronto con un lettore molto più esigente, avvezzo oramai alle tecniche e conoscitore delle regole, che non si può imbrogliare con mezzucci vari, e con cui entrare in competizione, in singolar tenzone. Questo momento, che trova la propria collocazione negli anni ’30, rappresenta il trionfo dell’Enigma puro: ora, a confrontarsi sul terreno della logica, delle descrizioni, dell’astuzia e dell’ingegno, non sono più assassino e detective, mentre il lettore ne registra mentalmente lo scontro, ponendosi atarassicamente su una nuvola e guardando distaccato il tutto, ma lettore e detective: ecco allora la sfida intellettuale, la cosiddetta Challenge to Reader, la Sfida al lettore cui non ci si sottrae ,da Ellery Queen a Spriggs, da Berkeley a  Philip MacDonald, etc..

Quando invece. Sia lettore che detective si trovano contrapposti al reo, ma innanzitutto contrapposti fra di loro.

Tutte le cose belle, però,  hanno un termine; e così anche il tempo dell’Enigma puro finì, nel mondo anglosassone, con un attacco non coordinato, ma deciso e definitivo ( o quasi) portato in America dagli scrittori Hard-Boiled e da alcuni autori operanti nell’ambito del Commonwealth, tra cui, soprattutto, Agatha Christie.

Seguace anche lei dell’Enigma Puro, già nel 1926, con The Murder of Roger Ackroyd, aveva sferrato un attacco non di poco conto, proprio lei che da sempre era stata appartenente al Detection Club. Tuttavia l’attacco definitivo, con cui venne data una spallata all’Enigma puro, fu dato da un affondo del genere psicologico che divenne totalizzante a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Si può dire che i due conflitti, a vario grado, segnarono la storia dell’Enigma Puro: con la fine del primo, esso nacque e si affermò sempre più; la fine del secondo, ne decretò la fine.

Nel mondo anglosassone di derivazione british, si può dire che la fine dell’Enigma venga a coincidere con la pubblicazione nel 1952, di Mrs McGinty’s dead ( “Fermate il boia”), di Agatha Christie, romanzo che và oltre la mera trasgressione, in quanto con esso vengono abbandonate le regole da oltre un ventennio seguite pedissequamente ( o quasi) e non essendoci più regole, non essendoci più un codice stabilito, il giallista può dare libero sfogo alla sua fantasia proponendo delle vie nuove: per esempio, vari omicidi non per forza attribuibili al medesimo assassino.

E’ bene dire però che se il romanzo della Christie rappresenta un paletto, anche in considerazione del nome della scrittrice (e della sua conseguente fama, per cui tutto ciò che lei scrive acquista maggiore diffusione di ciò che scrivono gli altri), altri prima di lei avevano tentato di sballare il codice di Van Dine (o di Knox o di Sayers), per esempio Christianna Brand.

L’Enigma Puro però, se in quanto vetta di un genere, finisce, rimane purtuttavia nell’opera di taluni scrittori, pochi, pochissimi in verità, che per condizioni geografiche o per fama, possono ancora aderirvi.

Quelli che continuano a praticarlo nel mondo anglosassone, sono coloro che hanno una tale fama, da fregarsene di quello che instaurano altri: ad esempio John Dickson Carr. E’ vero che la produzione carriana post bellica è inferiore sia per numero che qualitativamente (tranne alcune eccezioni) ma comunque non rinuncia ai suoi presupposti base, che si assommano nella sfida per eccellenza della logica, qual è quella che opera in un sottogenere caratteristico del Whodunnit, da lui assurto a genere a sé stante, quasi: i delitti in una Camera Chiusa. In quest’ambito, Carr applica alla Locked Room gli stessi presupposti ideologici che avevano attuato per un intero genere i suoi colleghi del Detection Club (a cui aderì anche lui in verità). Infatti, nel 1935, codifica tutti i tipi di Camera Chiusa e tutti i possibili mezzi per evaderne (che si tratti di uno spazio chiuso da quattro muri, o da spazi aperti ma per certi versi inaccessibili (spazi innevati, distese di sabbia, piscine, campi da tennis).

Poi vi sono quegli scrittori che, per condizione geografica, risentono meno dei cambiamenti del poliziesco: costoro sono gli scrittori francesi. La ragione del loro successo nei paesi francofoni?

Per aver testimoniato di saper scrivere e affascinare anche loro, per il fatto di ritenere di non dover per forza seguire il carro anglosassone, anche per una sorta di rivendicazione delle loro origini (il poliziesco era nato non solo con Sherlock Holmes ma anche con Monsieur Lecoq), per ritornare ad affermare una loro forza, in contrapposizione ai loro cugini inglesi (in certo modo la ruggine, dalla Guerra dei cent’anni, affiora sempre qua e là) che si era persa con l’inizio del primo conflitto mondiale, fino a quando gli scrittori francesi erano stati sulla breccia dell’onda: se vogliamo la grande stagione della Letteratura Gialla francese è quella con Lupin di Leblanc e Rouletabille di Leroux. Ma fin quando c’è il romanzo d’appendice e il Feuelliton, la Francia ammalia. Tutto finisce con la Prima Guerra Mondiale : son le guerre che sanciscono la fine dei filoni di Letteratura Gialla.
La Belle Epoque finisce e dalle ceneri nasce la pretesa che ci si distacchi dai soliti romanzi di avventura e fantasia.

Coloro che ripetono le forme, come Gaston Boca (pubblicato in Italia, con l’italianizzazione fascista dei nomi stranieri, come Gastone Boc(c)a ), e i suoi amici Latzarus, Bernard, Destez, Groc etc., tutti dimenticati, sono sorpassati da chi inventa nuove soluzioni. Io penso che la sconfitta prematura del Giallo francese sia derivato dalla tendenza tutta francese ad adagiarsi su se stessa, una sorta di sciovinismo letterario, di chi crede di essere depositario della cultura : sugli allori di Leroux, Leblanc e Allain& Souvestre (Fantomas), hanno riposato gli altri, chi credeva di continuare in maniera estenuante a ripetere stilemi fritti e rifritti.

Il “Grand Guignol” nasce nella Francia di inizio secolo, e tutti gli scrittori di polizieschi, soprattutto i più lontani nel tempo, hanno utilizzato elementi del Grand Guignol: violenza, sangue, scene macabre. Quasi nessuno si è sottratto.

La tendenza ad una letteratura e a riferimenti macabri sono soprattutto presenti negli scrittori di inizio secolo : Georges Meirs (di cui ho svariate opere, le cui copertine sono illustrate da Crepax) è uno di quelli. Come autore non è nulla di speciale, in quanto ricalca gli stilemi di inizio secolo : il brillante poliziotto William Tarps ed il suo fido collaboratore l’avv. Pastor Lynham sono il suo Sherlock Holmes e il fido Watson, e in questo ripete quello che affermano molti altri scrittori. Devo dire che in alcuni vi sono Camere Chiuse, ma abbondano le situazioni orrorifiche e d’effetto – davanti alle quale oggi ci metteremmo a ridere – e i titoli le ricalcano :”L’ombra che uccide”, “Il Cadavere Assassino”, “La mano fantasma”, “Il segreto della mummia”, “La carta insanguinata”, etc… Per certi versi, i titoli di questi romanzi mi ricordano quelli del ciclo per ragazzi de “I 3 Investigatori”: un’altra influenza del romanzo francese su quello anglosassone?
Un bel giorno è avvenuto il sorpasso del filone all’inglese su quello francese. Hanno cominciato a dettare legge la Christie, la Sayers, Wallace, e poi gli americani Van Dine soprattutto, ma anche Biggers. E così il giallo francese è divenuto vassallo di quello britannico e americano.

Con il successo di questo filone, vengono fondate importanti case editrici in Francia :“Le Masque” (1927) che presentò Agatha Christie, e l’ “Empreinte” (1929) che presentò Carr, Crofts, Wallace, Queen, Freeman, etc. Nello stesso anno de “La Collection de l’Empreinte” viene pubblicato il primo Giallo della Mondadori con Van Dine, “La strana morte del Signor Benson”.
Essendo un’enclave, quella francese, una sorta di valle solitaria (anche se come abbiamo detto parecchi autori francesi varcarono le Alpi per affermarsi altrove), essa, alla fine della seconda guerra mondiale, si sottrasse alle regole seguite altrove, nonostante alcuni degli autori francesi si fossero avviati sulla via tracciata dagli inglesi: seguendo vie nuove, oppure confrontandosi sullo stesso terreno e creando dei capolavori pari per sottigliezza a quelli anglosassoni.

Fine Prima Parte

 

PIETRO DE PALMA

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Delitti, federali e doppiopetto : I gialli, nel Ventennio, di Augusto De Angelis

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Il romanzo poliziesco era già nato tempo prima, ma fu intorno agli anni ’20 che cominciò a ingranare consensi e attirare le masse: il Poirot di Agatha Christie, il Philo Vance di S.S. Van Dine, il signor Reeder di Edgar Wallace. E anche nell’Italia fascista dei movimenti futuristi, delle trasvolate e delle grandi opere nazionali (e degli assassini politici), un giorno arrivò il Romanzo Poliziesco; e tanto grande allora era il successo che questo genere letterario riscuoteva in ogni parte d’Europa, che, anche in Italia, fu fondata la collana de I Gialli Mondadori, nel 1929. Ma chissà perché l’Italia fascista, nonostante il successo che arrideva a Philo Vance, Poirot e Ellery Queen, non amò questo nuovo genere, semmai lo tollerò inizialmente.

Il fatto era che il fascismo guardava in maniera assai mirata alla comunicazione di massa: e mezzo principe, prima ancora di radio e cinema, erano i libri, diffusi principalmente e inizialmente tra le classi borghesi e nei centri urbani; ma l’esplosione del poliziesco coinvolse ben presto le masse: il fascismo non guardava di buon occhio a questo tipo di letteratura, considerato immorale, per contenuti (la realizzazione di un fatto delittuoso) ma anche per provenienza (l’origine era prevalentemente il mondo anglosassone, il cui stile di vita era visto come corruttore della “sana gioventù fascista”). Ecco allora perché più o meno alla metà degli anni Trenta del Novecento, il fascismo impose delle limitazioni oltre che delle direttive politico culturali: accettato o tollerato il giallo, si richiese che le case editrici includessero almeno per il 20% del proprio parco titoli una quota di gialli creati da autori italiani; inoltre erano indicate delle direttive cui non si poteva derogare: i delitti si imponeva che avvenissero in ambienti esotici se non cosmopolitici; che non venissero rappresentati delinquenti “italici” ma stranieri e che i fatti delittuosi avvenissero in ambienti viziosi quando non depravati, che non ci dovevano essere suicidi, e che il lieto fine fosse obbligatorio a dimostrare che la risoluzione del delitto dovesse identificarsi in un ritorno all’ordine delle cose.

E’ così che in un batter d’occhio la Mondadori mise su un nutrito gruppo di autori da Mariotti a Spagnol, da Vailati a Varaldo. Due autori, emersero in particolar modo, e i loro romanzi ancor oggi si leggono con piacere: Augusto De Angelis creò il Commissario De Vincenzi, Ezio d’Errico il Commissario Richard : due autori italiani, due figure diverse. Entrambi però attirati e conquistati dal mito di Simenon, il commissario Maigret. Perché proprio Maigret fosse l’esempio del detective da seguire, più dei suoi colleghi d’oltreoceano vicini all’esempio sherlockiano, è da ricercarsi nel fatto che Simenon più di altri creasse per la prima volta il romanzo poliziesco borghese, realizzando il tutto attraverso due caratteri che diverranno peculiari caratteristiche di tutti i romanzi con Maigret: l’umanità del commissario ed il realismo delle situazioni. Proprio tali caratteristiche in opposizione al giallo del detective superuomo, dell’indagine puramente indiziaria e della conseguente logica abduttiva necessaria a rimettere ordine nel disordine del delitto, conquistarono gli scrittori italiani. Conseguentemente i personaggi degli scrittori che si votarono a costituire quella che potremmo definire una “scuola di Simenon”, rifuggivano dal sensazionalismo aristocratico per rifulgere invece nella vita di ogni giorno, in cui il delitto è quasi sempre banale come la vita che ci circonda, e non invece quasi un’opera di ingegno, come andava predicando il De Quincey.

De Angelis volle muoversi nell’angusto spazio di casa nostra: per certi versi, la sua scelta fu coraggiosa, nonostante il suo eroe incontrasse in quegli anni un certo successo. La prima avventura è infatti del 1935, e in nove anni, fino al fatidico 1944, in cui De Angelis morì in seguito ad un pestaggio fascista, consegnò il suo lascito nell’ambito del genere poliziesco.

Va detto che anche la critica letteraria aveva cercato di stigmatizzare a riprese – in certo senso anche pilotata – la scelta delle masse di ricorrere ad una scrittura “degenerata” quale il Giallo, che poteva influire pesantemente sull’animo dei giovani fascisti.

Alberto Savinio nel 1932 aveva detto : “…Il romanzo poliziesco è essenzialmente anglosassone. La metropoli inglese o americana, con i suoi bassifondi sinistri e popolati come gli abissi marini di mostri ciechi, le sue squadre di delinquenti disciplinati e militarizzati, le sue folle nere come l’acqua delle fogne, l’aspetto spettrale delle sue architetture, offre il quadro più favorevole, la messinscena più adatta al quadro del delitto. S’immagina male un romanzo poliziesco dentro la cinta daziaria di Valenza o di Mantova, di Avignone o di Reggio Emilia. Il viaggio di Cristoforo Colombo, nonché segnare la fine dell’evo di mezzo, segna pure nel mondo latino, il fallimento del mistero della mezzanotte. Nel mondo anglosassone invece esso mistero non solo perdura, ma col volgere del tempo si rimoderna, si industrializza, si meccanizza, si standardizza. E come concepire romanzo poliziesco cui manchi l’atmosfera, il brivido del mistero della mezzanotte? (“Romanzo Poliziesco”, “L’Ambrosiano”, 23/8/1932; anche Souvenirs, Palermo, Sellerio, 1989, p. 144). Alberto Savinio era lo pseudonimo sotto cui si celava il pittore, letterato e critico, Andrea Francesco Alberto de Chirico ( fratello del pittore italiano Giorgio De Chirico), che scrisse tra l’altro dei saggi per la rivista “L’Ambrosiano” diretta da Leo Longanesi.

A questa dichiarazioni di intenti, aveva risposto lo stesso De Angelis nella prefazione a Le sette picche doppiate (N. 211, Romantica Mondiale Sonzogno, 1940), dal titolo : “Il romanzo Giallo. Confessioni e meditazioni”:  “..L’essenziale, inoltre, per me è creare un clima. Far vivere al lettore il dramma. E questo lo si può ottenere anche facendo svolgere la vicenda in Italia, con creature italiane. […] Questo è certo, ad ogni modo. Che, se il romanzo poliziesco deve nascere anche da noi, ha da essere romanzo italiano, caratteristicamente nostro, luminosamente nostro.

Metterci proprio noi a scriver storie poliziesche, con personaggi americani o inglesi, che si svolgono su suolo straniero, non potrà mai costituire esercitazione artistica, nonché arte.

Raffazzonatura semmai. Pedissequa imitazione..

Il banchiere assassinato  (anno 1935) è il primo romanzo della serie : qui De Angelis, fine letterato imprestato al genere poliziesco, rivela la sua natura più profonda, attribuendo al suo personaggio il suo amore per la poesia e la letteratura : il Commissario De Vincenzi è una figura anonima, che guarda con sguardo disincantato e anche alquanto atarassico allo svolgersi della vita: nasconde un profondo e cupo pessimismo, un decadentismo che potremmo definire dannunziano, quasi nichilista, nel vedere il mondo non a colori ma secondo varie nuances di grigio; e gli conferisce anche l’interesse per le idee e le tesi freudiane, “l’intuizione psicologica e l’osservazione dell’involontario da cui emerge l’indizio segreto”.

Qualcuno potrebbe storcere il naso: decadentismo dannunziano e filiazione simenoniana? Secondo me le due cose possono anche coesistere: in fondo il decadentismo dannunziano è figlio di un’epoca e al di là del modo di scrivere è espressione di un modo di vedere le cose più in bianco e nero che non a colori: la Milano di De Angelis non è tenebrosa quale poteva essere la Parigi di Balzac, ma nebbiosa e uggiosa, una Milano che attraverso il suo clima esprimeva anche la disaffezione politica del Nostro; nel tempo stesso Simenon è essenzialmente il trionfo del romanzo della borghesia, dell’umanità, e della realtà: si vuole affermare che i romanzi di De Angelis non siano borghesi, umani e realistici? Essi sono gli stessi in cui si muove il più noto Maigret: portinerie, bar, locali fumosi, le strade deserte di notte, le atmosfere caliginose delle città sonnecchianti; “appartamenti, circoli, alberghi, botteghe artigiane, mercati, fiere, ditte industriali, uffici, banche”. E i soggetti, pure simili: garzoni, impiegati, camerieri, facchini, dame, commercianti, gangsters, massaie, commesse, telefoniste, nullatenenti, ricconi annoiati. Del resto, ci pare che proprio a Maigret, De Angelis guardi, introducendo il suo commissario: infatti, come il Maigret che conosciamo in “Pietro il Lettone” : “..Il commissario Maigret..alzò la testa ed ebbe l’impressione che il brontolio della stufa di ghisa posta al centro dell’ufficio e collegata al soffitto da un grosso tubo nero, si stesse affievolendo… ( Georges Simenon, Pietr il Lettone, Le inchieste del commissario Maigret, RCS Corriere della Sera, Milano, 2009, pag.11), il commissario De Vincenzi, proprio in Il Banchiere assassinato entra in scena subito, sin dalla prima pagina e lo vediamo alle prese con una vecchia stufa : “..mise un legno nella stufa e aprì il tiraggio. Per fumare, fumava, quella stufa..” (Augusto De Angelis, Il banchiere assassinato, Sellerio editore, Palermo, 2009, pag.12). A me il paragone sembra voluto, quasi una citazione, tanto più perché entrambi sono presentati nel proprio ufficio, all’inizio del romanzo.

La morte tragica di De Angelis ci fornisce una traccia per poter a posteriori analizzare la sua opera: molto spesso si nota, anche nel consueto giro di luoghi comuni e di linguaggi acquisiti, una sua netta distanza dal regime fascista, molto pericolosa, tanto da farlo tenere sott’occhio dalla censura; e del resto, la creazione di un commissario per niente celebrativo del regime e così poco impegnato ad esaltarne le positive virtù italiche, così poco fisico, anzi tanto anonimo dal comparire nel suo primo romanzo naturalmente, come se fosse un amico già conosciuto, e non illustrandone per niente l’aspetto, ma solo virtù nascoste, l’amore per la letteratura (“Le serpent à plumes” di Lawrence; “Le Epistole” di San Paolo; l’ “Eros” di Platone), tanto da interrogarsi : “.. Perché mai aveva fatto il commissario di Pubblica Sicurezza, lui?” (Il banchiere assassinato, pag. 12), beh proprio questo sarebbe bastato a interrogarsi sulla sua identità fascista o meno. Tanto più che il fascismo rimase sempre estremamente sospettoso verso la cultura letteraria cosiddetta d’elite, e quindi il Giallo, anche se non era proprio il prodotto che ci si sarebbe aspettato di perorare, finiva per essere pur sempre un prodotto di massa.

Tuttavia, crediamo di poter dire che una sua politica letteraria più accorta, avrebbe potuto concorrere ad evitargli guai successivi: sarebbe bastato anche dare al suo così anonimo commissario un’ “aurea più fascista” : un personaggio più fisico, baldanzoso, bombastico, un detective più ruffiano anche.

Il suo non sentirsi intimamente fascista, che all’indomani del settembre del 1943 gli procurò l’accusa di antifascismo, l’internamento nel carcere di Como (pare per l’accusa rivoltagli da una donna) e poi la morte avvenuta a Bellagio nel 1944 dopo un violento pestaggio (pare che proprio la donna che l’aveva accusato, vedendolo molto deperito, si fosse scusata e che lui avesse liquidato le scuse di lei con sufficienza, “provocando la reazione” dell’accompagnatore di lei, un fascista, che lo massacrò di botte), si rende già manifesto ne  “Il Candeliere a sette fiamme”. Qui il delitto matura in uno squallido albergo, e nel milieu in cui ben presto il Commissario deve investigare si ritrovano i soliti elementi stranieri, una vera spy-story in cui elementi ebrei hanno un ruolo di primo piano nella neonata questione palestinese. Ma proprio nel tratteggiarli, De Angelis rinuncia in certo modo alla propaganda di regime e pur nei luoghi comuni (l’ebreo è un soggetto con dei rilievi fisici ben definiti) egli è dalla loro parte, prende le parti degli ebrei e ne fa degli eroi nel suo romanzo.

I romanzi di De Angelis, sono innanzitutto “d’atmosfera”, perché devono indicare gli ambienti di vita che sono alla base delle vicende delittuose. Sono anche ricchi di vita talora, di ritmo, ma il commissario vi partecipa quasi flemmaticamente: come un placido fiume che scorre sotto le arcate del ponte, il commissario è lì, che collega le varie intuizioni e i vari indizi, in attesa che gli baleni l’intuizione giusta: poi basta solo non perderla di vista e semmai collegarla al resto, per avere la meglio sull’evento delittuoso; egli è un fine poeta, ma diversamente dagli altri investigatori tipo Philo Vance non si da mai arie; pur essendolo non incarna la figura del commissario tutto d’un pezzo, come se la cosa non lo interessasse poi molto; è versato nelle arti, osserva, ma non fa risaltare mai la profonda conoscenza; è taciturno e come chiuso in una sua sfera di interiorità, e analizza la realtà con raro acume psicologico.

Nell’analisi mai meramente indiziaria, De Angelis rivela un aspetto che lo caratterizza peculiarmente: il suo commissario, dalla figura malinconica e sempre distaccata dai clamori del mondo in cui si muove, è un soggetto che fa della riflessione esistenziale, ed è perciò in certo senso in posizione critica rispetto a quanto lo attornia, senza ricalcare in alcun modo i modelli proposti da altri detectives di successo. De Angelis del resto lo manifestò in più d’una occasione : “..Mi sono proposto di fare romanzi polizieschi in cui le persone vivono secondo natura”.  Maigret ( come poi fa De Vincenzi ), sa ascoltare e guardare e scopre più verità con la psicologia di quanto non avvenga con le perizie balistiche” (G. Benelli, “La fortuna italiana di Georges Simenon”,in Critica e società di massa,Trieste, Lint, 1983, p. 306).

E lo stesso Commissario De Vincenzi che in fondo è l’immagine incarnata dell’immaginario di De Angelis, muove le sue indagini partendo da caratteristiche che sono proprie del decadentismo romantico che egli incarna: con sensibilità romantica, intuizione e psicologia l’indagine poliziesca diventa per lui la “considerazione psicologica del clima del delitto e delle persone, che si muovono dentro e attorno al dramma”; e lui, che è un sensitivo, “..in fondo è un romantico a cui lo studio dell’anima umana, a ogni nuova esperienza, procura soltanto dolore. Qualcuno aveva detto di lui che, come il demonio cercava più le anime che i corpi… Un povero demonio, lui… E un tristo mestiere il suo: cercatore di anime”. Perché De Vincenzi, per acchiappare il reo, deve entrare nella sua testa, ragionare come lui, diventare per un attimo egli stesso l’assassino, secondo un modo di fare che è tipico dei detectives d’oltreoceano.

Interessante è sottolineare che ancora, nonostante il tentativo di privilegiare l’indagine psicologica a scapito di quella indiziaria, e nonostante ancora egli dica, sempre nella sue “Confessioni e Meditazioni” : ..Da noi,  manca tutto, nella vita reale per poter congegnare un romanzo poliziesco del tipo americano o inglese. Mancano i detectives, mancano i policemen, mancano i gangsters, mancano persino gli ereditieri fragili e i vecchi potenti di denaro e di intrighi disposti a farsi uccidere.Non mancano, sebbene in scala ridotta, pur troppo i delitti. Non mancano le tragedie.Perché non considerare tali ineluttabili fenomeni della vita sociale come materia di vita umana, come materia di indagine artistica?, egli prenda tuttavia anche qualcos’altro dal giallo d’oltreoceano: lo testimonia la tendenza alla “spiegazione finale” tipica del Giallo Classico di tipo anglosassone, che in lui diventa, nel suo primo Giallo, “Il banchiere assassinato”, “la Conferenza di De Vincenzi”.

Altro carattere ancora che rileviamo in De Angelis è una tendenza già espressa da Simenon: in “..un elemento innovativo all’interno del genere poliziesco: l’analisi del carattere dei personaggi, l’attenzione prestata dall’autore alla loro psicologia e specialmente alle delicate espressioni e ai più misteriosi recessi dell’animo femminile, un oggetto narrativo trascurato o mortificato prima di Simenon” (Valentina Catania, Articolazioni tipologiche e fortuna critica del “poliziesco” in Italia nel primo trentennio del Novecento, APAV, 2006, pag.72). Lo si vede ne “Il mistero delle tre orchidee”: “..Sapeva che con una domanda improvvisa e inaspettata si può prendere di sorpresa un uomo; ma non si prende mai alla sprovvista una donna. Essa ha la menzogna facile, il diversivo pronto, la deviazione immediata (Augusto De Angelis, Il mistero delle tre orchidee, Sellerio, 2001, pag.38): vien quasi da chiedersi quale fosse il successo con le donne di De Angelis/De Vincenzi, velato secondo noi da una certa misoginia.

 Pietro De Palma

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Christianna Brand: Cockrill perde la testa (Heads You Lose,1941) – trad. Marilena Caselli – I Classici del Giallo Mondadori N.890 del 2001

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cockrill 001Il primo romanzo di Christianna Brand, con l’Ispettore Cockrill fu Heads You Lose, scritto nel 1941. Prima di esso, nello stesso anno, Christianna aveva però esordito con “La morte ha i tacchi alti” (Death in High Heels), romanzo che le aveva riservato un’ottima accoglienza e che le era servito di sprone, quando ancora lavorava come commessa, convincendola a continuare la sua carriera di scrittrice.

E’ un romanzo con dei delitti impossibili e che ha una vena sottilmente macabra, venata dal velo della pazzia e comunque dalla bizzarria, che dona al romanzo un suo fascino particolare.

Stephen Pendock è lo squire del villaggio. Grace Morland è una pittrice, che ora gli sta parlando nella terrazza della sua casa. Di lui è innamorata, forse sì forse no, ma certamente le farebbe piacere vivere il resto della sua vita con lui a Pigeonsford. Il fatto è che Stephen, così misurato, così sobrio, e anche così maturo, ama segretamente Fran, una delle nipoti di Lady Hart che lui sta ospitando nella sua magione. Fran è però così giovane, così sbarazzina, che Stephen è in dubbio se veramente lui, cinquantenne, possa interessarle: il suo al momento è un amore platonico e non sa se riuscirà mai a diventare altro.

Grace dipinge nei vari momenti della giornata i paesaggi che più la attirano: dalla terrazza di Stephen può dipingere godendosi il paesaggio migliore, però sa di essere tollerata; nonostante ciò ha imposto la sua presenza, che per gentilezza non è stata rifiutata. Si accorge subito che Stephen non ha occhi che per Fran, nonostante le faccia gli occhi dolci anche James Nicholl, giovane e ricco scapolo. E siccome è gelosa di Stephen, pensa bene di disprezzare l’unica cosa per cui Fran si sia dimostrata entusiasta, un cappellino vezzoso, che fà vedere a tutti: a sua nonna, Lady Hart; a sua sorella Venetia e a suo cognato Henry Gold, ricco ebreo; a Stephen; e a Grace, che si trova lì per dipingere, che esclama: “..neanche morta in un fosso, vorrei farmi vedere con un cappello del genere!” (pag.19).

Fatto sta che quella notte viene trovato il suo cadavere, nella proprietà di pertinenza della magione, proprio in un fosso, con il cappellino di Fran calcato sulla testa, dal vecchio maggiordomo Bunsen, che è andato a trovare la sorella in bicicletta, ed era di ritorno a Pigeonsford. Il fatto sconvolgente, che lascia tutti inorriditi, a partire da Bunsen stesso, da Lady Hart, Pendock e gli altri è che Grace Morlan non è stata solo uccisa, ma anche decapitata; e che sulla testa, a mò di sfregio, è stato calcato il cappellino da lei vituperato. E’ evidente che solo alcune persone erano a conoscenza di quanto aveva detto Grace, e sempre solo le stesse persone sapevano dove il cappellino fosse stato riposto, cioè in quale posto della casa: quindi è evidente che se un colpevole deve ricercarsi, lo si deve trovare nella casa.

Di questo è soprattutto convinto l’Ispettore Cockrill, detto familiarmente Cockie, dagli occupanti della casa, perché abitante da quelle parti: è rimasto profondamente turbato alla vista del cadavere, anche perché lui Grace Morlan l’aveva conosciuta in gioventù: “una capra sentimentale” era per lui, e quindi non aveva mai avuto alcuno stimolo affettivo nei suoi confronti nonostante ella avesse in più occasioni tentato di farsi sedurre. Triste il destino di Grace: nonostante avesse cercato di non restare “zitella” per il resto della sua esistenza, nessuno le aveva mai dimostrato sentimenti affettuosi. Forse anche per l’acidità che ella dimostrava alla prima occasione. Fatto sta che ora è morta. E anche male.

Il primo campanello di allarme per Cockie, è la telefonata che arriva in centrale, e che proviene dalla casa di Pendrock : a parlare è una donna, che dice di essere l’assassina, e che di lì a poco anche Fran morirà. Cockrill deve trovare l’assassino prima che uccida di nuovo; e siccome anche l’estate prima, una sguattera, dopo aver salutato il suo innamorato, era stata trovata nel boschetto della tenuta, con le mani legate dietro la schiena e la testa staccata dal corpo mediante un’affilatissima falce, lasciata lì dappresso, la cosa diventa maledettamente urgente.. E’ ben strano che a distanza di un anno vengano trovati ben due cadaveri decapitati nella stessa tenuta. E di questo è certo Cockie.

Un altro personaggio fa capolino, alla morte di Grace: è la sua sorellastra Pippy Le May, attrice.

Pippy Le May odiava sottilmente la sorellastra. Quando è avvenuto il delitto era lontana e quindi a ben donde non può essere coinvolta. Tuttavia, trova ben presto come incunearsi nella vicenda. Pippy che è sveglia, ha visto qualcosa in quella casa, e pensa bene di approfittarne. Ha intenzione di ricattare qualcuno? M anche lei viene ben presto uccisa, in un modo atroce: anche lei decapitata.  Vicino ai binari. E’ come se qualcuno, dotato di una forza enorme, le avesse strappato il collo dal tronco, non lasciando impronte nella neve. E riservando di nuovo alla vittima delle attenzioni a dir poco strane: se sulla testa mozza di Grace era stato messo il cappellino di Fran, ora attorno al collo maciullato di Pippy l’assassino ha messo la sciarpa della donna. Insomma, tre persone decapitate, in meno di un anno. Tutto gira attorno a questa casa, una casa maledetta.

Cockrill indaga ma ben presto si trova contro un muro di omertà: dev’essere stato qualcuno della casa, sicuramente, ad uccidere Grace Morland, e forse anche Pippy Le May, e forse anche la sguattera l’anno prima. Certo che è strano che accadano tre delitti, tutti con le stesse caratteristiche, nello stesso posto! Cockrill ci pensa e fa le sue congetture, ma rimuovere il muro che hanno creato gli stessi appartenenti della casa attorno a loro, vicendevolmente, non è poca cosa. Tutti sembrano, o meglio, vogliono credere, che il responsabile sia venuto dall’esterno, ma neanche loro ne sono certi. Infatti, come l’omicidio di Grace è quantomeno strano, per il particolare del cappellino, che una mano beffarda e nello stesso tempo folle, ha calcato sulla testa mozza della pittrice, segno che per forza qualcuno, nonostante tutti neghino, e nessuno abbia visto nulla, deve essere rientrato a casa, aver sottratto il cappellino dalla scatola dove era risposto, e averlo portato via, anche l’omicidio di Pippy non si può dire che non sia curioso: Pippy è rientrata a casa sua, ma si è scordata gli occhiali a casa di Pendrock e quindi ha riferito alla sua domestica che vi sarebbe ritornata per riprenderseli; ma non è più ritornata. La qual cosa collega nuovamente un delitto a casa Pendrock. In questo caso però, il particolare che rende il tutto più difficile, è che intorno al corpo non vi siano orme ma una distesa di neve intatta: come avrà fatto l’assassino ad uccidere Pippy?

In una girandola di colpi, Cockrill inchioderà l’assassino, meno colpevole di quanto gli stessi delitti avrebbero fatto pensare, per il delitto delle due cugine, ma non per quello della sguattera, di cui sarà incolpata altra persona.. Non prima che sia stato fatto il nome per l’assassino: di Trotty, la cameriera; di Pippy (per Grace); del vero assassino; di Lady Hart. Perché, se è stato fatto il nome dell’assassino (da Cockrill, che lo ritiene responsabile, e ne spiega le azioni e la colpevolezza), poi viene fatto quello di altra persona? Perché qui la Brand ricorre ad un artificio che userà altre volte, per es. in Tour de Force: indicare il vero assassino, per poi inventare un’altra soluzione che lo metta in ombra, e ritornare infine sulla colpevolezza di quello.

Ancora una volta Christianna Brand stupisce e ammalia. E ancora una volta, un segno distintivo del suo stile narrativo, sono le multiple soluzioni, che si succedono l’un l’altro, e i molteplici colpevoli indicati e scartati volta per volta; ma anche le molteplici identità delle stesse persone, come abbiamo visto già in altri romanzi, per esempio in Tour de Force. Ma siccome questo è il primo romanzo, la cosa è ancora più particolare.

L’identificazione dell’assassino giunge quasi inaspettata. Dico quasi, perché il lettore attento ( che avesse letto altri romanzi in cui un certo particolare ricorre) potrebbe essersi insospettito, per una certa cosa ( cui non accenno, altrimenti è come se facessi il nome dell’assassino). Questa cosa però ricorre in altri romanzi: mi ha ricordato Helen McCloy, circa il suo capolavoro sul Doppelganger; e soprattutto, nella stessa modalità, in uno dei capolavori di Paul Halter, Le Brouillard Rouge. In altre parole, l’assassino non è pienamente responsabile, perché è pazzo, e dopo aver ucciso, non si ricorda nulla: è come se avesse agito in stato di trance, perché epilettico. Ora, di assassini folli nei romanzi di Halter, ve ne sono parecchi, ma, in quel romanzo, l’assassino ed il suo modus operandi sono indicati due volte: prima si accenna ad una certa cosa che fa, e poi, in altro passo del romanzo, riprende quest’azione nel particolare frangente che ha descritto prima, però spiegandola in tutta la sua orribile valenza. Qui accade la stessa cosa.

Altra cosa interessante, perché verrà usata anche successivamente, è la presenza di un prologo: vedremo una cosa simile per esempio in Death of Jezebel.

Infine, vi è il ricorso a soluzioni che contemplino le Camere Chiuse: in questo caso, essa è spiegata facendo riferimento alle qualità ginniche dell’assassino (già Carr vi si era cimentato, per esempio in A finger in the Sky), in un modo particolare, che sarà pari pari ripreso da Joseph Comming in un suo racconto; e molto dopo, anche in un romanzo di William De Andrea: Killed on the Rocks. Ma la cosa veramente interessante è che in questo romanzo, vi sono tre vittime e due distinti assassini. Cosa significa? Che Christianna Brand propende per l’estrema originalità, e per il non legarsi al carro di chicchessia, già nella sua opera prima. Il che rivela anche una grande sicurezza di sè. Per di più l’escamotage, diciamolo pure, è il vero “coup de theatre” del romanzo. L’avevamo detto a proposito di Agatha Christie, perché lei in due occasioni aveva dato  una spallata al Whodunnit classico, così come l’aveva impostato con le sue Venti regole S.S. Van Dine, ma nel caso di Christianna Brand, la cosa è ancor più straordinaria, perché viene compiuta in occasione del suo esordio: mentre Van Dine, per non disorientare il lettore aveva proibito che vi fosse in un romanzo poliziesco ad enigma più di un assassino, qui ve ne sono due!

Mi vien da sottolineare, ancora, il ricorso della Brand a delle messinscene spettacolari: in questo romanzo, sia nel caso dell’omicidio della sguattera, sia nel caso dell’omicidio di Grace e di Pippy. Ma la cosa avviene anche negli altri suoi romanzi, e in alcuni suoi racconti.

Infine, un dato caratteristico: se si fà caso, in alcuni romanzi, le vittime di Christianna Brand vengono decapitate. Non accade solo in questo suo primo divertissement macabro, ma anche in Death of Jezebel. Io ritengo che probabilmente questo possa essere messo in relazione anche col fatto che la Brand era nata in Malesia, nel Borneo, dove i dajachi praticavano la decapitazione dei nemici: questa orribile pratica può esser rimasta impressa e poi riprodotta nei suoi “delitti di carta”.

 

Pietro De Palma

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William De Andrea: Neve rossa a Rocky Point (Killed on the Rocks, 1990) – traduz. Maria Luisa Vesentini Ottolenghi – Il Giallo Mondadori N° 2255 del 1992.

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de andrea 001William De Andrea è un nome che a molti non dirà nulla in Italia. Eppure la Mondadori gli ha pubblicato gran parte dei suoi romanzi, una ventina di anni fa.

William De Andrea nacque il 1 luglio 1952 a Port Chester, New York. Dopo aver studiato in USA, svolse la professione di giornalista e scrittore, soggiornando in Europa, a Parigi e Londra. Successivamente, da quando si stabilì nuovamente in USA, visse fino alla morte, avvenuta nel 1996, nel Connecticut, nella Contea di Litchfield. Scrisse varie serie di romanzi: in quella con Matt Cobb che gli dette il successo, inserì la propria esperienza in una grande rete televisiva americana; quella di Niccolò Benedetti fu intesa anche come un omaggio a Nero Wolfe di cui egli fu sempre un fan; la serie Clifford Driscoll invece si avventurò nel genere spy, mentre quella con Lobo Black/Quinn Booker prese le mosse nel vecchio West.

De Andrea è ricordato per essere stato un grande scrittore, vincitore di ben tre Edgar: il primo, vinto come “Best First Novel” nel 1978 con Killed in the Ratings, facendo esordire Matt Cobb (dopo la morte di De Andrea, la serie è stata continuata dal moglie, anche lei scrittrice, Jane Haddam); il secondo vinto, nel 1979, come “Best Paperback Original” con il primo romanzo della serie dedicata a Niccolò Benedetti,  The HOG Murders, mentre il terzo gli fu assegnato il suo grande saggio “Encyclopedia Mysteriosa”.

Neve rossa a Rocky Point (Killed on the Rocks) è il settimo romanzo con Matt Cobb, ed è la sua unica Camera Chiusa. E’ compresa in qualche lista di lavori del genere, stilata da critici americani, pur non essendo un romanzo di grande impatto.

Matt Cobb è il vicepresidente di un network, la NTA, che sta passando di mano. Allorchè si è sparsa la di una imminente offerta di Dost per rilevare il network,  i dirigenti del network  entrano in fibrillazione: vogliono capire infatti a cosa miri in realtà  l’offerta che Dost si appresta a fare. Infatti, qualcuno che trama nell’ombra, ha inviato una missiva anonima in cui si perora di far di tutto perche l’NTA non venga ceduto al miliardario, in quanto si sostiene che egli sia pazzo.

A questo punto , Tom Falzet, il presidente del network si affida a Cobb, perché scopra cosa vi sia sotto, e gli dà incarico di scoprire cosa vi sia sotto: Matt  accompagnerà i dirigenti del network presso la tenuta di Dost ad Adirondacks, sulle montagne rocciose, di proprietà del miliardario, e lì si discuterà della faccenda.

Lo Chalet è stato riammodernato dallo stesso miliardario che non ha badato a spese, e si è affidato al gusto della moglie Aranda, per far colpo su chi fosse lì invitato. Oltre alla moglie, è presente, assieme al miliardario, suo figlio Barry. Dost alla domanda di Cobb, nega che sia pazzo anzi muove il dito contro qualcuno nell’ombra che sta facendo di tutto per mandare a monte la sua offerta. Infatti molti non vorrebbero che il Network, pure in cattive acque, non passasse di mano.

Prima della cena, Cobb conosce Jack Bromhead, amico e braccio destro di Dost. E’ un tipo vestito da cowboy, con una vistosa cravatta a stringa, chiusa da un turchese, che si sarebbe aspettato calzasse degli stivali intonati al vestito. E invece, Jack calza degli sivaletti da passeggio, allacciati alla caviglia, a causa di una distorione: infatti zoppica. Subito Jack gli riesce simpatico, tanto più che difende a spada tratta il suo amico. Non così simpatico invece gli appare il figlio di Dost, il quale pensa che Cobb gli voglia sottrarre,  una volta conclusa la vendita del network, la “promogenitura”. Non è la sola nota stonata di quella sera, a Rocky Point: dopo la sontuosa cena che Gabby ha organizzato pe ri suoi ospiti, Cobb è invitato da Charles Wilbeforce, Capo dell’Ufficio Legale del Network, a uscire fuori dallo chalet, al freddo, poiché deve confidare una cosa. Cobb, trova fuori anche Carol Coretti, assistente di Wilbeforce che gli rivela comela moglie di Gabb abbia tentato di adescarla, facendole un’offerta esplicita di sesso, giacchè lei, Carol, è lesbica. Cobb consiglia ai due di far finta di nulla, anche perché non sa che pesci prendere: Aranda è la terza moglie di Gabb, giacchè la prima e morta, e dalla seconda lui ha divorziato.

Dopo esser caduto in un sonno profondo, Cobb è risvegliato, come altri ospiti da un grido lacerante: qualcuno ha scoperto un corpo nella neve, a circa quaranta passi dallo chalet: è Dost, morto. Il sangue macchia la neve. Tutt’attorno una distesa immacolata, priva di impronte. E una lenza da pescatore: cosa mai possa esserci tra le montagne, su quella distesa di neve, vicino al cadavere di Dost una lenza da pescatore, è una cosa che al momento non capisce

Dopo aver trovato anche Bromhead sveglio, e averlo inviato a svegliare il figlio del miliardario, Cobb sale al quinto piano della casa di montagna, perché vorrebbe capire come sia stato possibile che qualcuno abbia potuto uccidere Dost senza lasciare impronte: vuole guardare la scena del delitto dall’alto. Ma si imbatte nel figlio di Dost, che pensa sia stato lui ad uccidere il padre: fuori di sé, sferra un violento calcio alla tempia di Matt, prima di andare via.

Quando Cobb, barcollando, riesce a scendere giù, trova tutta la combriccola riunita. Compreso l’autista del miliardario, che egli apprende essere un ausiliario della polizia locale e come tale, rappresenta, seppure in una veste non professionale, la giustizia a Rocky Point.

Cobb prima viene a sapere da Bromhead che Aranda pur ereditando venti mioni di dollari non avrebbe avuto nulla da guadagnare dalla morte del marito, perché se fosse stato vivo avrebbe fatto per sempre la bella vita, e non per qualche anno, visto che la sue aspettativa di vita è altissima e venti milioni di dollari nel suo caso sarebbero spariti in men che non si dica; sa pure che il grosso dell’eredità andrà al figlio, salvo delle cose che eredita lui stesso, Jack.

Insomma, di candidati ad essere indicati quali assassino, ce ne sono non pochi, tra cui anche un sospetto maggiordomo ed un’altra sospetta governante.

A condurre le indagini è l’agente Ingersoll, che ben presto deve affidarsi all’acume di Cobb. L’atteggiamento ostile di Barry Dost, che si sfoga anche contro l’agente rompendogli il naso, sarebbe spiegabile sotto forma di una reazione eccessiva, ma ad indirizzrea le indagini vi pensa una misteriosa apparizione di Gabby Dost sul televisore di casa: il fantasma della vittima accusa il figlio di qualcosa. La matrigna, che era stata colta di sorpresa dall’apparizione spiritica sviene. Barry fugge finchè, pazzo furioso, si trova dinanzi Cobb e cerca di ucciderlo, credendo sia parte di un fantomatico complotto contro di lui, venendo a sua volta ucciso da Bromhead. Ma era davvero lui l’assassino? Oppure quello vero ha posto le cose in modo che le indagini prendessero il verso errato?

Cobb riuscirà a comprendere come sia stato commesso l’assassinio di Gabby Dost, come l’apparizione sul televisore sia riconducibile a qualche rudimento di trasmissione via cavo, e cosa c’entrino una lenza ed una canna da pesca, e persino una gruccia di metallo. E a inchiodare il vero assassino.

Bel romanzo di De Andrea, regge però il ritmo sino ad un certo punto: il fatto è che De Andrea non coinvolge molti potenziali assassini, ristretti a tre quattro persone. E per di più, tratta la materia narrativa anche ingenuamente, dicendo troppo, e facendo morire troppo presto il figlio della vittima e nel tempo stesso, dichiarando, senza neanche troppi sotterfugi, che l’assassino potrebbe essere un altro. Per di più fà accusare, da Cobb, una persona di aver realizzato la falsa trasmissione, e quindi indirizza le attenzioni verso di essa: se fosse un abile inganno per nascondere quello vero, e ottenere quindi un finale ad effetto, sarebbe una bella cosa;ma siccome quella persona finisce per essere responsabile, è evidente che o sia stata lei ad uccidere oppure sia stata aiutata da qualcuno. E quindi il sillogismo porta come risultato ad individuare il vero assassinio, e anche il movente.

Il metodo utilizzato per la variazione del prato innevato, della Camera Chiusa, mi pare possa rifarsi ad un celebre racconto di Joseph Commings, Serenade to a Killer, se non direttamente almeno indirettamente: infatti entrambi utilizzano dei cavi come mezzo per arrivare al luogo del ritrovamento del cadavere, anche se nel caso di De Andrea, è il cadavere che viene spostato dal luogo dell’omicidio a quello del ritrovamento, mentre nel caso di Commings è direttamente l’assassino che usa il cavo come via per raggiungere il luogo dell’omicidio, superando la distesa innevata e poi ritornare per la stessa strada. Carino è anche il metodo di spiegare l’apparizione spettrale.

Al di là di questo, un romanzo che avrebbe potuto avere ben altra tensione, se non si avesse avuto troppa fretta ad impostarlo e concluderlo.

 

Pietro De Palma

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Edward Dentiger Hoch : La stanza oblunga (The Oblong Room, 1967) – trad. Vittorio Curtoni – in “La ragione dei granchi” di M.Elder, I Capolavori Urania, n.992 del 1985

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No, non è un errore.

Molti, apprestandosi a leggere questo articolo, potrebbero pensare ad un errore, vedendo l’immagine correlata all’articolo. E invece non è così, per strano che possa essere. Persino Mauro Boncompagni, qualche giorno fa, pur dichiarandosi non collezionista di Urania, era dubbioso che su un volumetto Urania si fosse potuto pubblicare un racconto di Hoch. D’altronde Hoch aveva anche scritto tre romanzi fantascientifici. Ma questo non è un racconto di tale genere. Eppure è vero che sia stato collocato su un volume Urania! Anch’io qualche tempo fa non ho creduto ai miei occhi, quando ho saputo che era contenuto nel numero 992 de I Capolavori Urania, dal titolo “La ragione dei granchi” di M.Elder. Anzi, per strano che possa essere, è stata l’unica edizione italiana di questo famosissimo racconto (non famosissimo in Italia anzi praticamente sconosciuto, ma famosissimo nei paesi anglosassoni).

Il racconto in questione, tradotto da Vittorio Curtoni, è “La stanza oblunga”. Il racconto originale, The Oblong Room, pubblicato non su EQMM, la rivista su cui furono pubblicati circa 450 racconti di Hoch per oltre trent’anni, ma su The Saint Mystery Magazine, nel luglio del 1967, vinse nell’edizione 1968 dell’Edgar Allan Poe Awards promossa come sempre dal MWA, il premio per The Best Short Story.  

Non è una storia fantascientifica, e quindi si potrebbe obbiettare sulla collocazione. Tuttavia, la soluzione trascende l’umanità, è una soluzione che direi metafisica, e forse per questo si pensò di pubblicare il racconto su un volumetto di Urania.

Fatto sta che il racconto di Hoch, diversamente da quello che a prima vista si potrebbe pensare, non tratta affatto una Camera Chiusa o un delitto impossibile, ma un delitto punto e basta; semmai è la soluzione che per quanto sbalorditiva possa essere, è l’unica vera.

Il Capitano Leopold accorre assieme al Sergente Fletcher, chiamato a risolvere il caso, in una università non meglio precisata: Tom McBern ha ucciso Ralph Rollings suo compagno di stanza. Frequentavano entrambi il secondo anno, e che andassero d’accordo è testimoniato dal fatto che avevano chiesto di continuare a condividere la stessa stanza. Perché allora Tom ha ucciso Ralph?

Perché che sia stato lui ad ucciderlo non c’è ombra di dubbio: la vittima è stata trovata uccisa da due pugnalate, nel suo letto, nella sua stanza, di forma strana, oblunga. Una camera spartana: due letti, due armadi, due comodini, due scrivanie, due sedie, tutto esattamente uguale, ed una grande finestra che si affaccia sul panorama: nient’altro. La stanza è stata trovata chiusa dall’interno, con Tom che è rimasto quasi un giorno intero, 22 ore, in compagnia del cadavere dell’amico, senza che dicesse nulla a nessuno. La circostanza dell’omicidio è stata scoperta solo per l’insistenza di un loro compagno di corso, tale Bill Smith che insospettito perché i due non si erano fatti vedere il giorno prima a lezione perché a dire di Tom erano febbricitanti, e neanche in quel giorno, aveva detto che avrebbe chiesto aiuto e solo allora Tom aveva aperto la porta, presentandogli la scena del delitto.

Rimane un mistero per quale motivo Tom abbia ucciso Ralph. Il Capitano Leopold, che conduce l’interrogatorio, pensa che i due possano essere venuti in contrasto per una ragazza. In effetti, messo alle strette, Bill confessa che una che usciva con ambedue c’è: è una tale Stella Blanting, di vent’anni, come lo è Tom e come lo era Ralph.

Interrogata, Stella rivela che era uscita dapprima con Ralph, ma poi, non volendo più trattarlo, era uscita qualche volta con Tom. Uscita assieme non significa che ci aveva fatto sesso. Significa che aveva voluto conoscerli. Stella rivela che era rimasta spaventata dal primo: emanava un’aria malvagia, malsana. Tom era diverso, ma era totalmente soggiogato dal primo.

Leopold vuole vederci chiaro.

Erano omosessuali? No.

Intrattenevano una sorta di relazione sadomasochista tipo schiavo-padrone? No.

E allora?

La verità uscirà dalle labbra di Tom, messo alle strette. Una verità sconvolgente: i due avevano un rapporto mistico, è come se Ralph avesse avuto una sorta di potere della mente e dello spirito su Tom, ne avesse soggiogato la volontà, essendo diventato l’altro il suo discepolo e lui il suo maestro, condividendo una specie di credo religioso.

Ma allora perché Tom ha ucciso Ralph?

La verità lascerà a bocca aperta, e spiegherà il perché dell’attesa e anche della forma della stanza.

A ben donde, Edward Dentiger Hoch vinse l’Edgar per questo racconto: è un vero capolavoro!

Innanzitutto l’incipit:

“Il caso fu competenza di Fletcher sin dall’inizio, ma quando arrivò la telefonata, il capitano Leopold uscì in auto con lui. Sembrava una storia già chiusa, con l’unico sospetto letteralmente trovato a vegliare la vittima, e, in una giornata noiosa, Leopold pensò che fare un salto all’università potesse essere piacevole.
Lì, lungo il fiume, gli alberi avevano già il colore dell’autunno, e nel parco, a tratti, il fumo che si alzava dalle foglie che bruciavano oscurava la strada. Per essere autunno, il giorno era caldo, assolato. Un giorno poco adatto a un omicidio
(pag.134).

Gli alberi che hanno il colore dell’autunno, già fanno presagire qualcosa: non si è in inverno, una stagione legata al buio e al freddo, ma in autunno, una stagione che è a metà, che morta l’estate, veglia l’arrivo dell’inverno. La veglia è il motivo del racconto; e del resto di veglia si parla chiaramente in questo incipit, quando si dice che il sospetto era stato trovato a vegliare la vittima.

Perché vegliarla?

E perché la stanza e la sua forma sono importanti? Perché? Lo dice Tom nella sua confessione al Capitano Leopold, a pag. 142, della traduzione italiana: “Avete mai riflettuto su questa stanza, sulla sua forma? Ralph diceva sempre che ricordava un racconto di Poe, La cassa oblunga. Lo conoscete? La cassa era su una nave, e ovviamente conteneva un corpo…”. “E questa stanza era la bara di Ralph?”. “Sì”.

La stanza oblunga, rifacendosi al racconto di Poe, ricorderebbe per Ralph una bara. Loro vivono e dormono in una bara. Quindi la veglia a cosa può alludere se riferita ad un rapporto mistico, o di esperienza religiosa?

Il racconto è un crogiuolo di trovate, di allusioni, di citazioni. Ed è triste. E nello stesso tempo è un altro riferimento ad una realtà, che in America molte volte ha prodotto le sue vittime: quella delle sette mistiche, in cui il sacerdote plagia i fedeli, già raccontata in altri romanzi polizieschi (ricordiamo “Morire d’estasi” di Ngaio Marsh).

L’incedere è lento, come quello di una processione. Solo che alla fine non c’è la statua del santo o della Vergine, ma un omicidio, non voluto ma richiesto: un omicidio, il sangue, il prezzo per qualcos’altro.

E se Ralph lo si vede come una specie di messia per Tom, a cosa mai potrà alludere la veglia accanto al cadavere dell’amico?

Se non avete capito, non vi resta che procurarvi il volumetto Urania (un’impresa!) e leggerlo. Ringrazio Mauro Catoni, mio caro amico e collezionista anche di fantascienza, per avermelo messo a disposizione.

Pietro De Palma

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Augusto De Angelis : L’Albergo delle tre rose – La Memoria N° 539, Sellerio Editore, 2010

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Il più famoso autore poliziesco italiano dell’epoca fascista è Augusto De Angelis, l’unico i cui romanzi abbiano superato l’esame dei tempi, e che siano ancor oggi riproposti con successo, dopo la riscoperta anche mediata da due fortunate serie televisive nei primi anni ’70 della RAI in cui la parte del Commissario De Vincenzi fu affidato a Paolo Stoppa.

Il romanzo più famoso di De Angelis è senza dubbio “L’Albergo delle tre rose”, che è il suo capolavoro. Non è solo un romanzo poliziesco di prim’ordine, con false piste, indizi, personaggi estremamente sfaccettati e a tutto tondo, ma che ha una suspence crescente, un ritmo non indifferente e misteri a go-go. Ha anche un’atmosfera claustrofobica, in quanto è ambientato in un piccolo albergo, nell’arco di una notte, e propone per di più anche un mistero della Camera Chiusa, con una interessantissima variazione.

De Vincenzi, che è più giovane del suo Vice Commissario Sani (ma nello sceneggiato omonimo è più anziano in quanto interpretato da Paolo Stoppa), ma è da lui rispettato e stimato per via della sua non comune genialità, appena entrato in Questura, trova la posta e tra le varie lettere, una accende il suo interesse: è una lettera anonima che annuncia che qualcosa di sinistro sta accadendo all’Albergo delle tre rose, un albergo di terz’ordine, più pensionato che altro, dotato di sala ristorante. La frase molto d’effetto che richiama la sua attenzione parla del “Diavolo che sghignazza dietro ogni porta”. Colpito dalla lettera, quasi subito viene chiamato dal Commissario Bianchi, un suo amico, e viene informato che all’Albergo delle tre rose è avvenuto un delitto.

Arrivati sul posto, notano un certo trambusto. Siccome è sera, nel ristorante la sala è piena: oltre agli occasionali clienti, vi sono quelli che giocano a scopone, e poi i clienti fissi della pensione. I poliziotti vengono informati che al terzo piano, Bardi, un gobbo che abita nella pensione, ha trovato impiccato il giovane Douglas Layng. Sembra che sia stato messo per impressionare o Carlo Da Como, un tale che nato ricco ha dissipato tutte le sue ricchezze vivendo in maniera dissoluta, o un tedesco, Vilfredo Engel, amico di Da Como: si pensa che possa essere un avvertimento per uno di loro, perché per andare alle loro due camere bisogna obbligatoriamente passare per dove è stato impiccato il giovane.

Il giovane comunque pare appeso, non impiccato. Fatto sta che la Guardia Medica chiamata lì per lì, non può dire di più di quel che vede perché la luce è davvero fioca, ma alla luce di una lampadina di forte luminosità recuperata dabbasso, tolti i vestiti, si accorgono che il giovane è stato pugnalato. Gli abiti però non sono lacerati, segno che dopo essere stato denudato e pulito dal sangue, è stato rivestito, e poi appeso. Una orribile messinscena: perché? Portato il cadavere all’istituto di Medicina Legale fanno un’altra scoperta: il cadavere presenta la flaccidità secondaria, che si manifesta dopo la rigidità cadaverica. Ma, da quanto tempo è morto? Prima si ipotizza un tempo, ma poi dal rilievo della scoperta di una tazzina sul comodino, tazzina che non sarebbe potuta esserci all’atto del riordino della stanza avvenuta nella mattinata perché sarebbe stata portata giù, si ipotizza che l’assassinio sia avvenuto dopo; il fatto che essa fosse accuratamente lavata, fa pensare a qualche sostanza disciolta, o veleno o sonnifero. La prima ipotesi è da scartare perché non avrebbe avuto senso avvelenare, poi pugnalare ed infine impiccare la stessa persona; per cui si pensa ad un narcotico. Dall’esame della stanza si accerta che sotto il copriletto messo alla bell’ e meglio, il lenzuolo sottostante è tutto imbevuto di sangue, segno che il cadavere nudo o comunque svestito è stato lasciato lì per del tempo. Quello che ancora non si capisce è come sia stato mutato il rigor mortis: si pensa ad una stufa, ma non se ne ritrova traccia.

Parecchie sono le persone sospette. Innanzitutto quelli che stanno sul piano dove è stato trovato l’impiccato, tra i quali spicca Engel, il quale dimostra di aver paura di qualcosa, oltre a possedere una cosa strana per un uomo: una bambola. La cosa ancor più strana è che anche Layng possedeva una bambola, come pure una svedese diciannovenne, tale Karin Nolan. Tre bambole uguali, in possesso di tre persone diverse. E’ chiaro che debba esserci un legame. E siccome per di più uno dei tre possessori è stato ucciso, De Vincenzi sospetta che l’assassino voglia ancora uccidere.

A complicare le cose, è anche l’arrivo, di poco successivo alla scoperta del cadavere, di una coppia di nazionalità britannica, i coniugi Flemington, che, informati della triste casualità e invitati ad andare in altro albergo, preferiscono anzi dichiarano che devono soggiornare in questo, di terz’ordine. Subito al Commissario la moglie di Flemington pare molto spaventata, a addirittura atterrita quando conosce l’identità della vittima. E’ facile capire che anche loro c’entrino con tutto quel casino, ma non si capisce come.

Tra i vari clienti fissi, ce n’è uno che subito cattura l’interesse del commissario: è un levantino, di nazionalità cipriota, che sbarca il lunario facendo il chiromante e vendendo chincaglierie varie. Entrato nella stanza di Layng, subito dichiara che quell’ambiente è saturo di morte e che lì è stato ucciso qualcuno alle 12,30 del giorno prima. Oltre questo non dice nulla, oltre il fatto di essere chiromante e di aver captato un’aura malvagia. Pure reticente è il gobbo Bardi, che De Vincenzi capisce essere stato il misterioso e anonimo scrittore della missiva fatta recapitare in questura, tanto più che la macchina da scrivere nella sua stanza presenta le stesse imperfezioni dei caratteri riscontrate da lui sul foglio dattiloscritto.

Altri personaggi sono la bionda Stella Essington , attricetta, che è visibilmente spaventata e non vuol dire nulla ma che deve aver visto qualcosa; e la stessa Carin Nolan, parente di un militare che aveva combattuto nella guerra Boera.

Viene trovato un foglietto in cui, a firma di un certo Julius Lassinger, si promettono in pratica altre morti, perché il giovane ucciso è il primo di una serie.

Prima che tuttavia il Commissario cominci a capire qualcosa, in quella pensione così angusta, così poco illuminata, disseminata di poliziotti, avviene un secondo omicidio: viene trovato il mago cipriota, Giorgio Novarreno, pugnalato. De Vincenzi aveva dato ordine di presidiare il giardino interno chiuso, su si affacciano le finestre delle varie camere, ma a causa della pioggia battente il suo vice non se l’era sentita di piazzare sotto la pioggia un piantone. Fatto sta che la finestra è aperta, e siccome non è passato dalla porta l’assassino perché sarebbe dovuto passare davanti a dei poliziotti che affermano che nessuno è passato, egli deve essere passato per la finestra. Infatti ai piedi del muro c’è una lunga scala, adagiata per traverso. Il fatto è chiaro: l’assassino tramite la scala deve essere salito, deve essersi incontrato con Novarreno (probabilmente che aveva l’intenzione di ricattarlo) e deve averlo ucciso e poi è ritornato dabbasso mediante la stessa scala. Non capisce perché tuttavia perdere tempo a rimetterla a posto, con la possibilità di essere visto. Per di più, l’unica accesso interno da porta al giardino è dato dal ristorante, ma quando vi irrompono, nessuno dice di aver visto qualcuno entrare ed uscire da quella porta finestra, né tantomeno trovano le impronte bagnate che dovrebbero esserci visto che fuori piove a dirotto. Insomma un classico mistero da Camera Chiusa. Come ha fatto l’assassino?

Uno degli inquilini fissi dell’albergo è tale Pompeo Besesti, un ricco industriale non è ancora ritornato all’albergo. Un altro è tale Nicola Al Righetti, un italo-americano, per sua stessa confessione passato per parecchie città straniere, ultima delle quali New York. De Vincenzi sospetta, ma non ha prove che lo sia effettivamente, che sia un gangster americano. Questi due sembrerebbero che non avessero nessun peso nella morte del giovane, perché Besesti era fuori e Righetti cenava nel ristorante, e ci sono dei testimoni che lo hanno visto. Inoltre c’è un altro sospetto ancora: una donna, Mary Alton, arrivata in albergo la sera del ritrovamento del cadavere di Layng, che sembrerebbe avere un passato oscuro. Anche lei possiede una bambola.

Insomma di sospetti ce ne sono a iosa.

L’alba non vuole proprio annunciarsi in quella notte terribile: infatti un altro evento funesto, viene a turbare De Vincenzi, Sani & Co. Infatti viene trovata Carin Nolan, con una forbice infissa nel petto: viene immediatamente inviata in ospedale e De Vincenzi per paura di una emorragia non le fa nemmeno estrarre la forbice dal petto. Ed è un bene, perché, pure dichiarata grave, Carin Nolan si salva. Questa volta l’assassino ha fallito. La serie si è interrotta. Ma chi è Julius Lassinger?

Vilfredo Engel rivela la storia che è alla base di questa mattanza: sia il fratello, sia il maggiore Alton, sia Nolan avevano fatto parte dell’esercito, in particolare di una batteria di artiglieria leggera, e in questa veste avevano combattuto nella guerra Boera. Ma prima di arruolarsi, sia Nolan sia Alton sia Lessinger erano stati soci in una società che si occupava dell’estrazione di diamanti. Col tempo, i migliori pezzi se le era accaparrati, non sempre con propri meriti, ma anche ingannando i due soci, proprio Lessinger. Ciò aveva accresciuto la brama degli altri due, invidiosi, che avevano concepito un piano per riprendersi anche le proprie pietre: con la scusa di snidare dei ribelli, una volta arruolatisi, avevano fatto irruzione nella proprietà di Lessinger dove viveva lui assieme alle tre filglie, e li avevano trucidati, con la complicità di Engel. I preziosi erano stati nascosti. Engel era morto di lì a poco, Nolan dopo un po’ mentre Alton era sopravvissuto per vari anni, e si era poi sposato già anziano con Mary Alton, proprio nell’Albergo delle Tre rose.

E Julies Lessinger? Era l’unico figlio maschio dell’ex cercatore di diamanti, arruolato come soldato all’epoca dell’assassinio del padre  e delle sorelle, e per questo scampato alla strage, che aveva giurato di vendicarsi. E’ evidente che sia lui che sta uccidendo i vari personaggi: ma cosa c’entrava Layng? Si appura che era il figlio del Maggiore Alton, avuto da una relazione con la signora Flemington prima che si risposasse con l’avvocato, arrivato nell’albergo, proprio la sera della morte del figliastro, per leggere le ultime volontà del maggiore Alton che, in prossimità di morire, ha disposto la divisione delle sue sostanze tra i 3 aventi diritto: Engel, Nolan E Layng.

Ma a gettare altra polvere in faccia è proprio Besesti, il Presidente della Società dei Metalli Puri il quale, interrogato da De Vincenzi , confessa il fatto di aver nel passato ricattato Alton e averlo costretto a finanziare  la sua Azienda, minacciandolo di rivelare quanto aveva saputo per bocca di Julius Lessinger. Solo che egli rivela una cosa sconcertante: se prima si pensava che Lessinger avesse avuto un complice all’albergo, in quanto lui era incapace di scrivere in italiano, conoscendo a malapena l’inglese, ora si viene a sapere che Lessinger non può esser stato l’autore di quei delitti, perché lui, Lessinger, è morto nel 1913. E allora chi è l’assassino?

De Vincenzi lo scoprirà non prima che ancora un’altra vittima sia stata sacrificata. E non prima che la lettura del testamento avrà fornito gli ultimi tasselli perché il colpevole, pazzo, venga affidato alle cure di un manicomio criminale.

L’Albergo delle tre rose è uno dei più bei romanzi di narrativa poliziesca italiano del ‘900: innanzitutto è scritto benissimo, con descrizioni a tutto tondo dei personaggi (molto diversamente dalla normalità dei romanzi di quel periodo anche stranieri, in cui o i personaggi sono molto bene tratteggiati e il plot non è niente di speciale o è il contrario, fatto salvo quanto accade solo nel caso di grandi nomi della letteratura poliziesca in cui entrambi i caratteri sono presenti) tale da fissarli bene nella mente; gli stessi caratteri psicologici sono estremamente decisi, e assieme a quelli fisici, realizzano compiutamente un determinato soggetto; la storia è avvincente, e utilizza un espediente che deriva direttamente da Conan Doyle (la valle della paura): un qualcosa accaduto nel passato che è alla base della tragedia che accade nel presente; sono presenti molte false piste, che distraggono il lettore e lo portano a considerare delle strade impossibili da seguire, mentre invece la storia è molto semplice, e anche il movente vero lo è; vi è una Camera Chiusa molto interessante (non la distesa di neve, ma un giardino interno completamente bagnato di pioggia, tale che l’assassino dovrebbe lasciare delle orme umide, ed invece non le lascia, e si comporta in maniera strana, non come si comporterebbe chi non vuole essere visto); vi  sono continue messinscene: le bambole che appaiono; il cadavere pugnalato, poi denudato, rivestito in maniera tale che non si veda il sangue, e impiccato; il tentativo di eliminare il rigor mortis; l’apparizione della vera madre della vittima; due diversi testamenti; e infine anche un matrimonio di cui non si sapeva nulla. Quest’ultimo escamotage è tipico nei romanzieri inglesi (per es. in Agatha Christie).

In De Angelis si nota tuttavia una estremizzazione delle storie e dei caratteri che sono molto forti: non ci sono soggetti deboli, ma tutti potrebbero essere l’assassino, o comunque tutti hanno nascosto qualcosa che poi unito al resto, forma il puzzle ricomposto. Persino, Bardi, il gobbo, che dà inizio a tutta la storia con la lettera anonima, è un personaggio forte: siccome si sente una vittima del sistema per via della sua diversità morfologica, odia più degli altri, anche se ha sentimenti di protezione nei confronti di gente che lui considera debole come lui. Ed è proprio perché vuole salvare una di queste persone, che avvisa il Commissario di qualcosa di imminente che secondo lui sta per verificarsi in quella casa. Solo che nella sua lettera anonima c’è un equivoco che gioca a favore degli eventi. Lui si muove per salvare un’innocente, ma non sa che quella minaccia fa parte di una macchinazione ben più grande.

Al di là di ciò, il giudizio critico non può che appuntarsi anche su altre cose.

Lo spirito con cui è scritto risente della xenofobia strisciante contro gli stranieri (il popolo italico era perfetto, gli altri no: in questo, la propaganda fascista e nazista eran uguali), ma è purtuttavia un dato che doveva esserci altrimenti la censura fascista non avrebbe mai autorizzato la pubblicazione del romanzo. Per il resto, il romanzo narra di tre delitti avvenuti in un albergo (più un quarto presunto, più un tentativo di omicidio), in cui però parecchi clienti dimorano stabilmente. Più che albergo potremmo definirlo quindi “un pensionato”, con sala ristorante.  Questo è un particolare molto importante che raccomando:  infatti, anni dopo Steeman scriverà L’assassin habite au 21, romanzo che si svolge in un pensionato. Direi che Steeman potrebbe aver letto benissimo il romanzo di De Angelis, in quanto in quei tempi, De Angelis era il romanziere di polizieschi più famoso in Italia. Se nel plot Steeman deve qualcosa ad Agatha Christie, per quanto riguarda il luogo del dramma egli sicuramente ripropone quanto già scritto da De Angelis.  Rispetto a Steeman e a Ten Little Niggers della Christie, il romanzo di De Angelis possiede però un’atmosfera estremamente claustrofobica, che accentua spasmodicamente la tensione. Per certi versi è molto vicino a The Greene Murder Case di S.S. Van Dine o The Tragedy of Y di Ellery Queen.  Inoltre, per il particolare che due dei tre delitti, tra cui una presunta Camera Chiusa, avvengono in circostanze impossibili o quasi, in un albergo presidiato dalla polizia, potrebbe esser stato tributario di Vindry, che in alcuni suoi romanzi (per es. Le Piège aux diamants e  La Bête hurlante, scritti il primo un anno e il secondo due anni prima) fà presidiare la casa dalla polizia.

Pietro De Palma

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Pierre Boileau – Uno strano cliente (La Promenade de minuit, 1934) – trad. Aldo Albani -I Grandi Gialli Pagotto n.14, anno III, 1951

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Boileau 001C’erano una volta I Grandi Gialli Pagotto. Già, i Pagotto. Il nome di una collana mitica per i collezionisti di libri gialli in Italia.

Tanti anni fa, alla fine degli anni ’40, c’è chi puntò tutto su una serie che proponesse autori non anglofoni ma francofoni. E’ bene dire che questa scommessa non pagò i risultati voluti, perché il bacino di lettura italiano, sin dall’origine fortemente anglofilo, non reagì entusiasticamente; tuttavia, quell’atto di presunzione, ci donò un patrimonio che ancor oggi, con notevoli difficoltà, per la rarità del materiale cartaceo in circolazione e quindi anche per il costo, ci dona momenti di grande lettura.

E’ il caso del romanzo che propongo questa volta, “Uno strano cliente” del francese Pierre Boileau. Il titolo dice poco a prima vista: direbbe di più se si fosse tradotto quello originale: La Promenade  de minuit, “La passeggiata di mezzanotte”, titolo che fa diretto riferimento ad un episodio di cui si narra nel romanzo e che condurrà alla soluzione.

Pierre Boileau è conosciuto per il sodalizio che lo legò all’altro scrittore francese Thomas Narcejac, di cui felici risultati furono tanti romanzi (anche conosciuti per le felici riduzioni cinematografiche): Les diaboliques (I Diabolici) oppure per esempio D’entre les morts (La donna che visse due volte), Maléfices, L’ingénieur aimait trop les chiffres, Les veufs (I Vedovi),  e anche per i romanzi che egli scrisse prima che incontrasse l’amico, tra cui il recentemente ripubblicato da Mondadori, Six Crimes sans Assassin (1939), “Sei delitti senza assassino”.

Tuttavia prima che scrivesse quest’ultimo, ne scrisse altri due, entrambi nel 1934, La Pierre qui tremble (La pietra che trema, 1950) e La Promenade de minuit (Uno strano cliente, 1951): quindi il romanzo di cui parlo in quest’occasione, anticipò direttamente Six Crimes sans Assassin: Perché lo metto in rilievo? Perché troviamo già nel romanzo precedente delle strane anticipazioni che verranno riprese e ampliate nel romanzo successivo.

Andrè Blunel è alle prese con una delle sue crisi di identità: vorrebbe avere per le mani un bel caso, che gli dia la possibilità di mettere in moto le sue cellule grigie; invece nulla gli viene proposto. Il fatto che la stampa locale lo definisca  benefattore dell’umanità, lo fà star male, perché egli non si sente tale: egli non combatte i criminali per affermare il senso della giustizia, ma solo per affermare il suo egocentrismo. In sostanza è una specie di Philo Vance, che cerca i migliori criminali per battersi con loro, sfidandoli sul piano della logica e della deduzione. Qunado meno se l’aspetti, ecco che gli capita un altro caso: gli si presenta alla porta un certo Lucien Blaisot, un tale secco secco e lungo che verrà chiamato per tutto il romanzo coll’appellativo di “Il trampoliere”. Lucien gli racconta una storia: suo padre, Auguste, un bel giorno è scomparso. Conduceva una vita tutto sommato tranquilla: aveva solo il pallino delle costruzioni meccaniche, e per quello s’era fatto costruire, accanto alla casa, una specie di laboratorio-deposito, dove passava le notti. Né lui, né la madre, né tantomeno lo zio, Charles, immaginano dove possa essere finito. Non hanno avvisato la polizia, anche per evitare di finire in bocca alla gente. Il fatto è che Lucien rivela che suo padre doveva avere una doppia vita: infatti una volta che sarebbe dovuto essere in laboratorio, era scomparso, e con lui il calesse, non l’auto. Dove andava di notte, per poi ritornare di mattino presto e infilarsi a letto come se avesse lavorato in laboratorio tutta la notte?andre-brunel-policier-la-promenade-de-minuit-roman-policier-de-pierre-boileau-980224012_ML

Andrè Brunel e l’amico (il narratore) partono alla volta di Coteville (Seine-Inférieure), vicino Dieppe, dove Blaisot vive. Appena arrivati, ricevono una gravissima notizia: lo zio Charles, il fratello del padre, è stato ritrovato dalla domestico morto: causa della morte una profonda ferita all’addome. Il fatto è che quando si recano sul posto e trovano il vecchio morto, notano: l’assenza di tracce evidenti di sangue, nonostante l’imponenza dell’emorragia, segno che il ferimento è avvenuto altrove; e che dev’essersi trattato di omicidio, perché lo strumento per mezzo del quale è stato ferito a morte, un’arma da fuoco, non è stato trovato.

Brunel, sulla base del fatto che al momento del ritrovamento del cadavere e anche qualche tempo prima, spirava vento contrario, e in base al fatto che la villa dello zio Charles abbia due uscite contrapposte (una davanti ed una dietro alla villa) deduce la possibile direzione che deve aver seguito lo zio, trascinandosi ferito fin dove è stato trovato morto, sulla base che il vecchio ogni giorno, ad una determinata ora, soleva fare un giro a piedi nella sua tenuta, anche per controllare che nelle sue terre non girassero bracconieri, con cui aveva una sorta di guerra privata.

Il tenente Perruchet della gendarmeria, che già è in loco, di buon grado accetta la collaborazione di Brunel.

Che possa essere stato forse un bracconiere, viene avvalorato dal fatto che viene trovato, nel posto che Brunel indica come possibile per l’omicidio, un bossolo calibro 16, di un fucile a pallettoni, un’arma che benissimo può aver colpito orribilmente all’addome il vecchio Charles. E trova anche una serie di impronte, che all’inizio sembrano indirizzare verso uno zoppo, zoppo che però, dopo un certo numero di passi, all’imboccatura di un sentiero che porta ad una casa abbandonata, scompare: evidentemente un depistaggio.

Dopo una serie di abboccamenti, decidono di penetrare in quella casa e vi trovano nascosto un fucile che potrebbe essere stata l’arma dell’omicidio. La casa è abitata da un certo Raymond Roujard, che alla loro vista fugge ma è acchiappato dopo un breve inseguimento: è un cacciatore di frodo, uno zoticone, mezzo vagabondo. Arrestato, viene portato in guardina. E’ lui l’assassino dello zio di Lucien Blaisot? E c’entra qualcosa con la scomparsa di Auguste Blaisot? Brunel è convinto del fatto che, se davvero come sembra, la morte e la scomparsa (ma sospetta un’altra morte) sono collegate, Roujard dev’essere stato sicuramente manovrato da qualcuno: insomma è stato il braccio, come è oramai sicuro, ma sicuramente non la mente, essendo un individuo alquanto stolido.

Brunel convince Perruchet a tendere un tranello a Roujard: allenteranno la sorveglianza in maniera che fugga, e lo seguiranno, sicuri che così sorprenderanno i complici. Tutto fila come previsto: Roujard fugge e si rifugia a casa sua . Brunel, l’amico e il tenente della gendarmeria si dividono le uscite della casupola: la porta e le due finestre, ognuno di guardia ad una di esse. L’evaso è alla loro mercè. Tuttavia mentre tendono l’assedio alla casa arrivano due ciclisti, e mentre uno dei due rifiuta di qualificarsi, assalta il tenente, e fugge, vedono anche l’altro che fugge, proprio mentre si sente un grido orribile e Roujard viene trovato in un mare di sangue con la gola squarciata: i due non possono essere stati, non è stato visto altro avvicinarsi alla casa, eppure Roujard è morto. Sembrerebbe un mistero da Camera Chiusa. Accanto al cadavere un coltello, che viene identificato come appartenente a Charles Blaisot. Cosa significa? Che sicuramente Roujard deve avere ucciso Blaisot, ma..chi ha ucciso a sua volta lui? Come ha fatto un coltello con le iniziali di Charles Blaisot ad essere trovato nella gola di Roujard?

Brunel sospetta che c’entri qualcun altro. Ma non ha prove di alcun genere. Sa solo che l’unico testimone del mistero che grava sull’intera faccenda non parlerà mai, perché parlare proprio non sa. Semmai sa..nitrire. E’ il cavallo che tira il calesse. Possibile che lui sappia la strada che il vecchio Auguste faceva di notte? Brunel si affida all’unica pista che ha a disposizione: convinto a seguirlo Lucien, partono di notte sul calesse e lasciano che il cavallo segua un suo itinerario. Li porterà ad una casa abbandonata, dove Brunel avrà una grande sorpresa che per poco non si concluderà con la sua morte prematura. Questa volta dovrà dire grazie al suo aiutante, che a sua volta, novello Sherlock Holmes, avrà capito come nella faccenda c’entri qualcun altro di casa Blaisot, tra la fidanzata di Lucien, Hélène Dorance, il custode Bertrand, e la moglie di Auguste, e proprio nell’istante in cui Brunel sta per andar a far visita, legato mani e piedi, alle rane di uno stagno, pardon, a San Pietro, ecco che l’amico interviene, vero deus ex machina e lo salva.

In un finale liberatore, si spiegherà tutto, e più d’uno dovrà rivelare la sua verità.

Romanzo delizioso, con tratti assai godibili (il modo come senza indizi di sorta, ma solo affidandosi all’acume e all’intuito, Brunel capisca dove è avvenuto veramente l’omicidio di Charles Blaisot, e gli indizi che lo portano a sospettare di un bracconiere, è veramente un pezzo di bravura), il romanzo gioca ancora una volta su quella che è la caratteristica comune dei romanzi francesi del periodo, di cui Boileau incarna la leadership indiscussa: disinteressarsi di atmosfera e descrizioni psicologiche, per presentare al lettore una storia basata esclusivamente su un mistero, che porterà, allorchè venga risolto brillantemente, alla spiegazione del tutto. E’ un modo assai semplicistico di scrivere ma che consente di concentrare tutte le proprie energie sull’intreccio e sul mistero, senza occuparsi di altro.

In un certo senso questo romanzo è anche assai interessante, non solo perché è uno studio rivolto alla Camera Chiusa, ma anche perché in certo senso, è uno studio preparatorio, una sorta di cartone su cui Boileau fissa alcune delle idee che riprenderà nel romanzo del 1939: innanzitutto il motivo della casa sorvegliata da tre persone diverse (Brunel, l’amico assistente ed il poliziotto di turno) che sorvegliano ognuna una delle uscite possibili della casa, e il motivo della Camera Chiusa conseguente, visto che colui che si è chiuso in casa, muore in circostanze impossibili.

Interessante è anche l’intreccio che avviluppa assieme, due storie completamente diverse, presentandoci un due cadaveri, morti per cause diverse, in seguito a fatti completamente estranei, che coinvolgono persone che neanche si conoscono, in un intreccio che non sente il bisogno di seguire le idee classiche del romanzo poliziesco di quegli anni, quelle delle 20 regole di Van Dine.

In un mondo ancora una volta d’altri tempi: un’ambientazione bucolica (ma non troppo), personaggi quasi surreali, un animale che porta gli uomini a scoprire un intreccio neanche immaginato, carrozze e auto d’epoca, malfattori che fuggono inforcando due biciclette, mezze verità e mezze bugie, un detective osannato che deve la vita al suo aiutante improvvisatosi a sua volta detective, una bella fanciulla di cui l’amico di Brunel si innamora. E due assassini che stanno per diventarlo spinti dalla necessità, ma in realtà ladri di polli; ed un ladro di polli che diventa assassino.

Insomma tante sorprese con un finale a sorpresa che sorprenderà non poco e non pochi.

 

Pietro De Palma

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Giorgio Meirs: Il cadavere assassino (Le Cadavre assassin, 1912) – trad. Pio Piucco – I Nuovi Sonzogno n.61 del 1968

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Il cadavere assassino 001George Meirs è un autore oggi dimenticato. Fà parte di quella schiera di autori, direttamente influenzati da Conan Doyle, come Leblanc o Shiel.

Mi ricordo quando me ne parlò Igor Longo molti anni fa: mi sollecitò a procacciarmi tutti quelli che avrei potuto trovare giacchè al tempo era possibile ancora trovarli (ora è difficilissimo). Dato che le edizioni italiane originali, a patto di trovarle, sarebbero costate troppo, mi disse che era facile trovare le ristampe (editore Sonzogno) della fine degli anni ’60 perché mi sarebbe bastato vedere le copertine, tutte firmate da un giovane Crepax.

Il filone è quello del cosiddetto Giallo realista, ma i connotati francesi lo distinguono da altri romanzi del periodo (inizi del ‘900): innanzitutto ha caratteristiche avventurose, che lo avvicinano a molti altri romanzieri del periodo (Leblanc, Sauvestre, Leroux); poi vi è la tendenza a presentare un eroe che è il protagonista di tutte le avventure ( o quasi); e infine vi è il sensazionalismo tipico dei romanzi del periodo, che si ammanta di mistero, in castelli stregati, delitti soprannaturali, gioielli maledetti. Per di più Meirs ha una porzione di rilievo nel sottogenere delle Camere Chiuse e dei Delitti Impossibili in quanto assieme a Gaston Boca ne è uno dei massimi esponenti, prima di Chesterton.

Ma chi fu George Meirs?

Fu uno dei tanti pseudonimi (A.M., Asmodé Dayle, Héma, Adrien Méria, Jean Mires, William Thook, Weal) di Adrien Jean Remy Machaux. Nacque il 21 maggio 1878 in Francia. Dopo gli studi alla scuola di Belle Arti di Parigi, diventò disegnatore. Questa sua caratterizzazione lo accomuna  ad altri grandi romanzieri francofoni, primo fra tutti Stanislas-André Steeman, che prima di esplorare la letteratura di genere, furono disegnatori.

Con lo pseudonimo di Adrien Meria, lavorò per Le Rire, La Fin de Siècle, Frou-Frou e L’Assiette au Beurre. Ma soprattutto fondò una rivista satirica, che diventò molto famosa: La Gifle.

Nel 1911 George Meirs cominciò, per l’editore Albert Mericant, la serie delle famose avventure del detective inglese William Tharps. I primi libri, con copertine firmate da lui, furono scritti in collaborazione con J.M. Darros, alias Edmond Fricot: L’Enigme du train 13, 1912, (L’enigma del treno n. 13, 1914); La Carte sanglante, 1912 (La carta insanguinata, 1914); Le Cadavre assassin, 1912 (Il cadavere assassino, 1914).

“William Tharps, il celebre poliziotto inglese” (come intitolerà le sue avventure la più importante collana di romanzi polizieschi prima dell’avvento di Mondadori, cioè “I Romanzi Polizieschi” di Sonzogno, che presenterà a partire dal 1914, su un totale di 31 uscite, ben 24 di Meirs) è un emulo di Sherlock Holmes, un suo clone. Logico, esteta, Tharps è un laureato in Medicina (guarda caso come il Professor Bell, modello per Holmes, di cui si professa ex-allievo). Anche lui ha il suo Watson, l’avvocato Pastor Lynham; e come Holmes ha un nemico implacabile, Ludovic Marmont. Se il mistero e la caratterizzazione sensazionalistica sono una caratteristica comune, anche lo spionaggio è esplorato accuratamente nelle avventure di Tharps. Dopo 22 romanzi, Meirs abbandonò William Tharps per un eroe piu giovane, Walter Clark, che però fu protagonista di pochi di essi.

Durante la guerra, George Meirs scrisse per Tallandier la Novelization di  Les Vampires, diretta dal regista Louis Feuillade, che raccontava  la lotta tra il giornalista Guerande e una misteriosa banda di criminali i cui capi si chiamavano : Le Grand Vampire, Venenos, Irma Vep, Satanas.

L’ultima sua opera, un romanzo scandalo sulla vita parlamentare, Monsieur le depute et sa maıtresse, risale al 1924.

Da allora, fino alla morte, avvenuta nel 1962 a Reims, molto malato, non scrisse più nulla.

Il primo romanzo, scritto a quattro mani assieme a J.M. Darros, fu Le Cadavre assassin, 1912.

E’ l’esordio di Tharps, che ruffianescamente viene presentato come il più diretto e accreditato erede di Sherlock Holmes, in quanto ex allievo di quel professor Bell che aveva fornito il modello a Conan Doyle per il suo celeberrimo detective. Infatti nelle prime pagine Tharps è depresso per la morte del suo ex professore di medicina. Dal suo stato dichiara che “solo un bel delitto” potrebbe tirarlo su. La professione sulla bellezza dei delitti creati ad arte, è un po’ un leit-motiv, che ritroveremo espresso in Pierre Boileau, che erediterà parecchio da Meirs, ma che deriva la sua “professione di fede” direttamente dall’estetica del delitto trattata in “L’assassinio come una delle belle arti” di Thomas De Quincey.

E un bel delitto gli capita tra le mani, quando il suo Watson, l’avvocato Pastor Lynham, vede il titolo di un giornale, che narra di un misterioso omicidio avvenuto a Netley, una piccola città nei pressi di Southampton: il defunto Duca di Willingham,  in attesa di essere seppellito, che era vegliato da prete e chierichetto, in una chiesa chiusa e sbarrata dall’interno, avrebbe assassinato il prete, pugnalandolo. La bizzarria della circostanza è che la chiesa era stata sbarrata con catene e catenacci dall’interno dal sagrestano, persona della massima fiducia, che era rimasto in sagrestia, mentre in chiesa vegliavano il defunto prete e chierichetto. Il sagrestano, interrogato più in là dallo stesso Tharps, rivelerà alcuni particolari sconcertanti che avevano anticipato il delitto: la caduta di un cero ai piedi del morto, il sudario che si era alzato davanti agli occhi dei terrorizzati astanti, ed una corrente che aveva invaso la chiesa. E, dopo il delitto, il fatto che al prete fosse stato mozzato anche l’anulare della mano destra, per sottrargli un anello. Questo particolare però coinciderebbe con l’uscita del sagrestano dalla chiesa, che ha la cura di chiudere dietro di sé il portale e di sollecitare l’intervento di alcune persone che transitano vicino alla chiesa, le quali irrompono in chiesa armate, decise a trovare l’assassino. Ma non trovano nessuno. A questo punto, quella che si fa largo è l’ipotesi soprannaturale. Da cui prende le distanze Tharps, che comincia ad indagare.

Innanzitutto, munito di una grossa lente, aiutato dal suo assistente che solleva la testa gelida del morto, esamina la parte della bara sottostante il corpo, scoprendo dei frammenti di capelli cortissimi neri. E poi delle impronte di fango sul sudario. Da tener presente è che la presenza di questi indizi è inspiegabile: non piove da parecchi giorni e non c’è fango nelle strade; eppure lì vi è del fango. Da dove è stato portato?

Dalle prime indagini di Tharps non emerge nulla che possa contraddire le tre sole ipotesi sulla morte del prete:

egli è stato assassinato da un cadavere che ha ripreso momentaneamente vita, riaddormentandosi successivamente nel sonno della morte; oppure è stato assassinato dal sagrestano, tale Southam, che avrebbe intimato al chierichetto di non parlare pena…; oppure è stato assassinato da altra persona, che però avrebbe dovuto trovare la forza di penetrare in quel luogo, attraversando le mura o il portale, e non potendo assolutamente accedere dalla torre campanaria, a motivo della conformazione della chiesa. Cosa che non può essere vera. E allora ? L’Ispettore Gregger sospetta del sagrestano, poiché a norma di logica non vi può essere altro responsabile; inoltre la diceria popolare vuole che la moglie del sagrestano fosse l’amante del prete. Movente è la gelosia? O/e la cupidigia ( perché alla morte una parte dei beni del prete sarebbero passati alla donna)?

Tharps è dubbioso. Ospitati sia lui che Linham da un amico di Tharps, il banchiere Elijah Callon, vengono a sapere che proprio lui era diventato intimo conoscente del vecchio duca Orazio Jesson, grazie a consigli disinteressati che avevano fruttato al vecchio duca dei guadagni di denaro per degli investimenti oculati; e di come il vecchio duca, sentendosi prossimo a morte, avesse disposto che nello studio del suo notaio di fiducia, oltre ad essere lette altre disposizioni testamentarie, fosse consegnato al suo amico un plico che sarebbe dovuto essere letto solo dopo che lui fosse morto: il vecchio duca confessava di avere commesso qualcosa di riprovevole. Inoltre si viene a sapere che nella dimora ducale c’era in una stanza un pannello segreto che si apriva grazie al pomolo dell’elsa di un pugnale antico, tramandato nell’ambito della famiglia, che in una apertura dissimulata nel pannello sarebbe dovuta essere usata a mò di chiave.

Il pugnale non può essere usato a questo scopo perchè è con esso che il prete è stato assassinato e quindi si trova nelle mani della polizia, e quindi Tharps mediante della cera molle, produce un calco da cui si fa forgiare una specie di chiave che gli permette di aprire uno scomparto segreto, nel quale tuttavia non trovano nulla di quanto aveva detto il vecchio duca.

Lo scomparto dev’essere stato aperto prima di loro da altri. Magari da chi tempo prima, durante la notte, aveva terrorizzato a tal punto il vecchio da farlo rimbambire e successivamente dal provocargli la morte. In quell’occasione nulla era stato rubato di valore tranne dei ninnoli, tanto da far accreditare che la rapina era da escludersi.

Gregger è pronto ad arrestare il sagrestano, mentre Tharps fa di tutto per salvarlo non credendolo colpevole. A Tharps che sospetta di una persona in particolare, si accende la lampadina quando viene a sapere: prima che il prete prima di spirare aveva invocato La Madonna e che “lui l’aveva ucciso”, e soprattutto quando apprende che la chiesa prima di diventare luogo di culto cittadino, era stata la vecchia cappella del castello avito che il duca aveva deciso di far distruggere.

Un tentativo di far andare via Tharps e il successivo suo tentato omicidio, fanno capire al poliziotto dilettante che qualcuno lo teme e a tal punto da tentare di sparargli: il bossolo della pallottola, una calibro 6 in forza all’esercito, viene ritrovato. E’ anche questo che indirizza le indagini del poliziotto verso un’unica direzione, suffragata da altri rinvenimenti e scoperte, che apparirà tanto più sconvolgente quanto vera, soprattutto alla luce dell’assassinio del prete (perché proprio lui?) e al ritorno di un erede di cui nessuno sa (di cui non sapeva nulla neanche il vecchio duca alla sua morte)..

Dopo aver arrestato il colpevole, Tharps ricostruirà tutta la vicenda e anche la dinamica incredibile dell’omicidio.

Bellissimo romanzo di altri tempi, mischia sapientemente anche se ingenuamente, feuelliton, amori traditi, figli rinnegati, un erede che ritorna, un prete che muore inspiegabilmente, una eredità consistente, passaggi segreti, un castello vero ed uno distrutto, una vecchia cappella del castello distrutto, un padiglione delle guardie nel quale si vedono strane luci, apparizioni spettrali, etc..

Il tutto condito da un’atmosfera e una tensione che fa leggere il romanzo con passione, nonostante lo stile sia quello di un libro scritto nel 1912 e tradotto per la pubblicazione in Italia nel 1914, con frequenti arcaismi della lingua italiana (ebbimo, poscia, uso a, spoppato, e molti altri ancora) che rallentano notevolmente un ritmo che tuttavia resta alto. Anche se il colpevole, al lettore smaliziato, che avesse letto altri romanzi francesi, soprattutto uno in particolare, e quello di un grande scrittore di fine secolo, salta agli occhi ben prima che egli venga acciuffato, durante un tentati vo di effrazione nello studio del notaio del vecchio duca.

Tanti i leit motiv di questo romanzo, ereditati da altri autori, ma che verranno raccolti anche da altri dopo di lui: travestimenti e identità doppie; il tema della maledizione – qui, commessa grazie ad un pugnale maledetto – che colpisce gli appartenenti ad una famiglia (tema che verrà raccolto da Carr e da Derek Smith per esempio); il tema del ritorno dell’erede (presente in gran parte dei migliori romanzieri anglosassoni); i passaggi segreti e i vani nascosti (una caratteristica ad esempio di Leblanc); il tema dell’assassinio compiuto quasi come opera d’arte (ritornerà in Boileau), non da parte di un volgare delinquente ma di un sublime omicida; il fatto che il cadavere possa a sua volta uccidere oppure il suo fantasma apparire (Boileau da solo e con Narcejac, Duvic, ma anche Talbot) ; la sparizione di un dito (Steeman).

La soluzione della Camera Chiusa, nonostante avvenga grazie ad un passaggio segreto (escamotage che denuncia la vetustà del romanzo e che nel prosieguo degli anni verrà del tutto abbandonato, anche se qualcosa si ritrova ancora in Herbert Brean, amico di Carr, e prima ancora in Connington), è tuttavia spettacolare, perché viene confermato il fatto incredibile che l’omicida si è alzato dalla bara e che voleva uccidere proprio il prete, anche per rubargli l’anello di oro massiccio che portava al dito anulare, nonostante il duca fosse già morto..stecchito.

 Pietro De Palma

 

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Breve saggio pubblicato sul Blog Mondadori

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Da ieri sul Blog Mondadori è disponibile il mio nuovo contributo. Si tratta di un raffronto inedito tra due romanzi di due autori ancora poco conosciuti in Italia: Murder at the Basement di  Anthony Berkeley e Pick Your Victim, di Patricia McGerr. Il romanzo di Berkeley è stato pubblicato 9 anni fa su I Classici del Giallo Mondadori, mentre il … Continua a leggere

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