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R. e F. Lockridge: L’indizio lontanto (The Distant, Clue, 1963) – trad. Enrico Cicogna – I Gialli Garzanti N° 25 del 1965

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INDIZIOCosa accadde nel 1963?

Beh, innanzitutto nacqui io. Al lettore di romanzi polizieschi importerà assai poco, e assai meno importerà sapere che un mio tris-cugino, Carmine, procugino di mio padre, morì Monsignore nel maggio di quell’anno e che è stato proclamato Beato dalla Arcidiocesi di Bari (si sta aspettando l’imprimatur del Vaticano) qualche anno fa. Ma di più importante in quel lontano 1963 cosa ci fu? Beh, innanzitutto l’assassinio di John Kennedy a Dallas; e poi la morte del “Papa buono”, Giovanni XXIII. Al lettore medio di gialli, tutto ciò, benchè più importante della mia nascita e della morte del Beato di famiglia, importa relativamente. Importa un po’ più invece la morte di una certa Frances Louise Davis, perché tempo prima sposatasi con tale Richard Lockridge, aveva formato una delle coppie più famose (anche perché marito e moglie) di scrittori di polizieschi.

L’abbiamo detto tempo fa a riguardo di Kelley Roos, pseudonimo celante due autori, maschio e femmina: negli anni ’40, il bacino di utenza dei lettori di gialli chiedeva non tanto più gialli cervellotici, prerogativa tipica di autori maschili, ma romanzi in cui l’elemento rosa venisse rivalutato. Io credo anche in relazione al fatto che non solo il particolare momento bellico richiedeva letture più riposanti e meno impegnate ma anche lo esigeva il tipo di lettore, che si stava spostando in gran parte sull’elemento femminile, visto che i maschi partivano volontari per il fronte.

Così anche i Lockridge esordirono con la coppia famosa di brillanti investigatori “Mr. e Mrs North”. E devo dire che in quegli anni anche il cinema sfornava film che a loro volta indirizzavano il pubblico verso quei riferimenti culturali: ricordo “L’Uomo Ombra” (The Thin Man) tratto da un lavoro di Chandler, che nel 1934 impose la coppia di investigatori William Powell e Myrna Loy a Hollywood. E ricordo che sempre in quegli anni si assiste ad un ammorbidimento delle trame dei romanzi di Ellery Queen con l’introduzione del personaggio femminile della cronista Paula Paris (in The Four of Hearts, 1938) presente anche in qualche racconto ambientato negli anni di Hollywood; e della sua segretaria Nikki Porter, che appare nel 1943 nelle ultime pagine di There Was An Old Woman, e fugacemente poi in racconti, in qualche altro romanzo, nei radiodrammi e soprattutto nei films: a proposito di questi, è evidente che il successo travolgente di L’uomo Ombra di W. S. Van Dyke influenzò non solo per qualche anno l’industria della celluloide americana ma anche l’attività di scrittori versati al genere poliziesco. Tra questi appunto i Lockridge, che inaugurarono ben tre serie diverse, con 55 romanzi scritti assieme dal 1936: l’ultimo romanzo scritto assieme, Quest for the Bogeyman come il precedente The Devious Ones fu pubblicato nel 1964, un anno dopo la morte di Frances. Tuttavia, neanche due anni dopo la morte di Frances, Richard Lockridge pensò bene di risposarsi con tale Hildegarde Dolson, anche lei scrittrice e riprese a scrivere di buona lena: tuttavia la serie Mr e Mrs North che era stata creata assieme a Frances, non fu incrementata, mentre lo furono le altre tre serie (il Capitano Heimrich, Nathan Shapiro, and Paul Lane ).

Del 1963 è il romanzo L’Indizio lontano (The Distant Clue ,1963), il quattordicesimo dei ventitre romanzi che hanno come protagonista il Tenente Heimrich. La serie, cominciata nel 1947 col romanzo Think of Death, aveva avuto tuttavia un prologo anni prima: infatti il soggetto del Tenente Heimrich, impiegato al Bureau of Criminal Investigation di New York, era apparso in una delle prime storie dei North, Murder Out of Turn  del 1941; e successivamente era riapparso nel 1946 in un altro romanzo con Mr e Mrs North, Death of a Tall Man.

Nei romanzi più tardi della serie, già a partire dall’inizio degli anni sessanta, il tenente Heimrich diventa Capitano, e in questi romanzi compare anche il suo nome, Merton.

In The Distant Clue, proposto in Italia nel 1965 ne I Gialli Garzanti come “L’indizio lontano” , senza che vi sia un preambolo o una introduzione in cui si maturano gli elementi e le portate del dramma (e già questo ci farebbe capire che si tratta di un romanzo moderno e non già uno dei mitici anni ’30), ecco che vengono buttati in faccia al lettore i due elementi del dramma: il professor Wingate, ex docente universitario di Storia ed ora bibliotecario a tempo perso nella locale biblioteca della città di Van Brunt, contea Putnam di New York, e Homer Lenox, ex avvocato e discendente di una delle più antiche famiglie del posto, vengono trovati uccisi a casa di Lenox: il padrone di casa riverso sul parquet di legno con accanto una pistola e poi in linea retta, appoggiato al muro, il cadavere di Wingate, con un foro da proiettile in mezzo agli occhi.

La polizia, nella figura del Capitano Heimrich, è lì coi suoi uomini a raccogliere testimonianze: a voler chiudere il caso basterebbe la scena del delitto: due vecchi amici, uniti da una passione comune, cioè ricercare notizie sulle maggiori e più antiche famiglie del circondario, per un qualche oscuro motivo, sono arrivati ad un diverbio violento che è sfociato in un duplice omicidio. Un capitano superficiale avrebbe così chiuso il caso. Ma Heimrich non lo è. Il figlio di sua moglie Susan, il dodicenne Michael, che conosceva il professor Wingate, continua a dire che non può esser stato lui: era troppo una brava persona e non avrebbe mai premuto il grilletto. E tutte le altre testimonianze convergono su ciò. Stessa cosa per Lenox, tanto più che si sa che i due vecchi erano grandi amici. Heimrich comincia a sospettare che alla base del duplice omicidio ci sia la ricerca che  Lenox stava portando avanti con l’ausilio del suo amico e con l’assistenza di Enid Vance, fidanzata di suo figlio Scott, che gli ribatteva le note a macchina; solo che lo sospetta troppo tardi, quando già qualcuno, ignorando i sigilli della polizia, rovista furiosamente nello sudio di Wingate e poi nello spiazzo di casa Lenox, di notte, brucia parecchio materiale tra quello raccolto dal vecchio.

Depistaggio o in effetti traccia reale? Heimrich prende in seria considerazione la seconda ipotesi. Solo che parrebbe priva di un qualsiasi fondamento su cui insistere, visto che il materiale più compromettente è stato distrutto, se un agente di polizia non trovasse nel bagagliaio dell’auto di Wingate proprio i documenti più importanti: i Diari del dottor Cornelius Van Brunt (colui che aveva fondato la città). Che uniti alle pagine del manoscritto salvatosi dalla furia distruttrice (soprattutto quelle che Enid aveva a casa propria e che aveva usato per battere a macchine le note che sono state invece distrutte), forniscono i primi fondamenti su cui basare l’indagine.

Heimrich comincia ad indagare, interrogare tutti coloro che vicini per luogo e per parentela, potevano sapere qualcosa: interroga Enid (che qualche mala lingua collega ad una presunta tresca col vecchio Lenox) che invece è teneramente innamorata di Scott (figlio di Homer) che fa lo scrittore e che ora si trova ad ereditare un bel patrimonio. Possibile che i due possano aver ucciso il vecchio ed il suo amico per denaro? Ma perché anche Wingate? Scott non è il suo vero figlio, ma solo il figlio che la madre francese aveva avuto da altro: potrebbe anche aver ucciso il patrigmo ritenendolo responsabile della morte della madre in un incidente stradale, che potrebbe esser stato causato da Lenox per uccidere la moglie e Vance, il padre di Enid, che altre male lingue volevano essere amanti? Questa è un’ipotesi.

Ma l’altra porta inevitabilmente alla storia delle famiglie locali: possibile che qualche rampollo di famiglia abbia qualche segreto che i due inconsapevolmente abbiano tirato fuori? C’entra per caso con l’assassinio di Van Brunt perpetrato dalla moglie morta in carcere, con l’ausilio del figlio anche lui in galera? Oppure si tratta di altro? C’entrano magari le altre famiglie antiche del luogo (Mitchie, Vance, Drew, Van Druyten)?

Heimrich interroga tutti a partire dal vecchio Mitchie II, il cui figlio John Mitchie III è buon conoscente di Heimrich, ma il vecchio è lì in piscina, e tutti negano che qualcuno abbia visto il falò acceso di notte a casa Lenox per bruciare i documenti compromettenti. Le indagini rivolte ad altri attori del dramma non portano a risultati soddisfacenti. Ed ecco proprio allora che Heimrich brancola nel buio, un terzo avvenimento spiazza gli inquirenti: il vecchio Jasper Mears, giardiniere delle famiglie nobili del posto, viene ritrovato ucciso nella sua baracca, soffocato. Parrebbe un delitto scollegato, se Heinrich notando nello squallore della casupola, una cucina nuova di zecca, un televisore enorme ed un frigo ultranuovo, e poi ritrovando rotoli di banconote nascoste in barattoli, sospetta un ricatto: possibile che il vecchio sapesse qualcosa? La cosa viene accertata quando Heimrich si ricorda che il vecchio aveva espresso la volontà che lui andasse a trovarlo perché aveva da dirgli una cosa molto importante sui delitti: possibile che pur ricattando una detrminata persona, dopo gli omicidi, temendo per la propria vita, avesse voluto rivelare quanto sapeva e per questo fosse stato ucciso?

Heimrich si convince che questa è la verità. Il vecchio Jasper conosceva tutti gli eredi delle famiglie del luogo avendo lavorato come tuttofare presso parecchi di essi, e quindi anche i loro segreti.

L’attività volta ad interrogare Scott ed Enid da una parte, e altra gente dall’altra continua imperterrita, e non approderebbe a nulla se un bel giorno non capitasse tra le sue mani un rapporto di un’agenzia di investigazioni di Londra: Lenox si era rivolto ad essa per avere riscontri su tale Malcolm Hutton spendendo un centinaio di sterline. Chi è mai questo Hutton? Quello le cui impronte sono state ritrovate sulla scena dell’omicidio e classificate di persona sconosciuta?

Heimrich continua gli interrogamenti che prendono una direzione quando uno dei testimoni ammette di conoscere Hutton: Mitchie II, l’unico dei vecchi delle famiglie, afferma che Hutton era un suo amico, e che insieme erano stati vittima di un grave incidente in Europa: Hutton era morto e lui per mesi e mesi era stato in coma.

Se una pista che sembra chiudersi, un’altra sembra aprirsi : il figliastro di Heimrich, impegnato ad esercitarsi a baseball, e impegnato soprattutto ad evitare falli di piede, rivela come il professor Wingate una volta gli aveva chiesto se mai avesse visto una cosa strana nei piedi degli altri ragazzi del posto. Un feticista? Le indagini lo escludono. E allora?

Questo indizio lontano porterà Heimrich a formulare una teoria che inchioderà l’assassino alle sue responsabilità.

Romanzo che rivela nello stile asciutto, secco, venato di tristezza, un grande scrittore, sicuramente fu scritto quando Frances Louise Lockridge nata Davis non stava più bene: manca del tutto o quasi la parte femminile rosa, brillante, tipica di  Frances, e invece il romanzo si poggia tutto sull’attività del maschio.

Si tratta di un romanzo poliziesco ben modellato, che porta ad una serie di piste false e vere, di veri e falsi sospettati, come in ogni classico mystery che si rispetti: qui non vi è però il detective che investiga, imprestato anche ad un poliziotto di turno, ma che esercita comunque la figura di detective (il Lord di Daly King, Thatcher Colt di Abbot) ma il poliziotto che accumula prove, interroga i testimoni, li torchia, sguinzaglia i suoi uomini, si affida ad elementi del controspionaggio per accumulare altri indizi: insomma ci troviamo dinanzi ad un classico procedural, del tipo portato al massimo della gloria da Hillary Waugh, ma che qui non è affatto malvagio, anzi. L’indizio lontano è un piccolo gioiello: è un difetto fisico, ma che ha costretto una tale persona, ad uccidere. E la causa sono stati soldi, tanti soldi. E come l’indizio è lontano, anche l’assassino lo è, almeno parrebbe che lo fosse. Devo dire in tutta sincerità, avendo maturato una certa propensione investigativa, avendone letti molti di romanzi ( tanti, ma tanti!), avendo maturato una certa sensibilità a propender verso certi indizi invece che verso altri, sono riuscito molto presto ad indirizzarmi verso la giusta persona, avendo avuto la sensazione che quello, tra tutti, avrebbe potuto a che fare con l’omicidio dei due vecchi: una sorta di sensazione, acuita dal fatto che è come se il buon Lockridge si lasciasse sfuggire qualcosa: nella sua blindatura del romanzo, si fa sfuggire qualche apprezzamento, qualche frasetta, che un Carr o un Waugh certamente avrebbero eliminato, e che magari non viene tenuta nel giusto conto dal lettore occasionale o comunque poco esperto, ma che quello di lungo corso inquadra nella giusta prospettiva, avendo come me legittima suspicione.

A patto tuttavia che il romanziere non l’avesse posta in essere veramente questa strada. Cioè che il suo fine non fosse stato quello di indicare nelle ultime pagine l’assassino, avendo già rilevato il movente, ma che invece avesse rivelato in certo modo l’assassino tenendo nascosto il movente. Anche perché, e questo è il difetto di questo buon romanzo, sorretto da un’ossatura di tutto rispetto, e da una tensione costante, i personaggi veramente sospettabili sono pochi: sono i pochi rimasti delle famiglie: i Van Druyten, i Mitchie, I Drew, i Lenox. E poi andando a spulciare si riducono a due in realtà. E quindi gioco forza, si finisce per sospettare del giusto omicida. Tuttavia il motivo, il movente lo si ricava solo nelle ultime pagine: è come se lui avesse detto: Ok, il colpevole è questo, ma perché poi avrà ucciso? Questo è il gioiello, un indizio così lontano e così privo di importanza, ma che nella giusta ottica riesce ad inquadrare e spiegare un duplice, triplice omicidio, che è la vera chicca del romanzo.

Quindi ci troviamo dinanzi ad un un ottimo precedural che non è tanto un Whodunnit, non è per nulla un Howdunnit ed che invece è un rarissimo Whydunnit, un poco usato sottogenere di plot nei mystery, in cui il fine del romanzo è scoprire il vero motivo per cui una data persona è stata uccisa, che in mezzo ad altri moventi, indirizza le indagini vero la logica conclusione. Anche qui ci troviamo dinanzi non ad un omicida efferato, ma davanti a qualcuno che, spinto dalle necessità un giorno, quando è stato scoperto, ha dovuto per forza uccidere a meno di non perdere quello che aveva guadagnato. In fondo quindi è una vittima del destino, una beffa, nata da un’annotazione del dottor Cornelius Van Brunt, che facendo nascere un bambino, ne aveva anche sancito una deformità. Una doppia beffa direi, perché viene spiegata e quindi acquista il valore di prova, da altra annotazione dello stesso dottore, in un libriccino che l’omicidio non aveva ritenuto di bruciare o comunque di portare con sé , perché ignorava che potesse contenere l’indizio che lo avrebbe portato in galera (e forse anche sulla sedia elettrica). Ecco spiegato il tono disincantato del romanzo, il velo di tristezza, sicuramente anche derivato dalle condizioni non ottimali di Frances Lockridge che di lì a poco sarebbe morta.

L’alano Colonnello che accompagna nelle poche ma fondamentali inquadrature Michaels, il figliastro di Heimrich, potrebbe essere una reminiscenza dell’alano presente nel film della Disney 101 Dalmatians (in Italia, La Carica dei 101), apparso nel 1961.

Mi piace infine di poter puntare l’obiettivo su quello che è il vero deus ex-machina dell’intera vicenda, che è anche il testimone più attendibile in assoluto: un ragazzino, Michaels. Una maggiore attenzione nella letteratura poliziesca di quel periodo ai minori?

Pietro De Palma

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INTERVISTA con Marco POLILLO patron dell’Omonima Casa Editrice

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Oggi propongo un’intervista in esclusiva con Marco Polillo, patron dell’omonima Casa Editrice e già editor Mondadori.

Marco Polillo, già direttore generale  della Rizzoli prima e della Mondadori poi, dopo aver fondato nel 1995 l’omonima casa editrice, nel 2002 si lancia in una nuova iniziativa, fondando la collana de I Bassotti.

Buongiorno Dott. Polillo. Perché innanzitutto la Casa editrice? Come nacque l’idea e da chi?

L’idea nacque da me. A quell’epoca aveva già lavorato presso le più importanti case editrici italiane e ho pensato di mettere a frutto la mia esperienza, dato che erano ormai più di venti anni che mi occupavo di editoria . Il genere scelto, la narrativa anglo-americana, era quello che preferivo e a quel tempo c’era – secondo me – spazio per una nuova realtà editoriale.

Come Le è venuto il ghiribizzo un giorno ormai lontano di creare – all’interno di una casa editrice già avviata – una collana di romanzi mystery? Non temeva di diventare un concorrente di Mondadori, padrone del mercato, e di diventare scomodo? E perché cominciare la collana con un titolo di John Rhode, un autore di nicchia in Italia, e non puntare per es. invece su un inedito di Berkeley (autore più volte poi pubblicato nella Sua collana)?

Sin dall’inizio della mia esperienza con la Polillo Editore avevo pensato che, una volta che la casa editrice si fosse affermata, o quanto meno avesse raggiunto una certa popolarità sul mercato, avrei dato il via a una collana di gialli classici – un genere che ho sempre coltivato con grande piacere sin da quando ero ragazzo – per presentare al pubblico della libreria certi prodotti che rappresentavano dei veri e propri classici nel campo del mystery e che, per il curioso atteggiamento che c’era sempre stato in Italia nei confronti di questo tipo di narrativa (una vera e propria discriminazione intellettuale), venivano pubblicati soltanto in edicola quasi fossero dei libri di qualità inferiore. Trattando un canale (la libreria) che probabilmente conosceva pochissimi autori di questo genere di letteratura, ho privilegiato per il mio esordio un romanzo di un autore molto meno noto, ma a mio avviso più che buono, rispetto ad altri forse più conosciuti ma che non garantivano quell’impatto  che mi proponevo di avere. Di Berkeley ho fatto poco dopo (era il n. 5) “Il caso dei cioccolatini avvelenati”, ma se ancora oggi dovessi scegliere come iniziare, preferirei di sicuro “I delitti di Praed Street” di John Rhode ai lavori di Berkeley.

Quanto ha contribuito alla conoscenza della Sua casa editrice la collana de I Bassotti? E quanto,  il successo della collana, ha influito sul volume di vendita di volumi di altre collane della sua casa editrice?

La risposta alla prima domanda è: moltissimo. La mia casa editrice oggi è identificata con i Bassotti. Quanto al fatto che questa collana abbia aiutato le vendite dei titoli pubblicati  nelle altre collane, direi proprio di no.

Innanzitutto perché proprio questo nome e non un altro?

Cercavo un nome breve, facilmente ricordabile, che si prestasse a un marchio graficamente bello. I bassotti andava bene, oltre a tutto, ricordava un po’ le caratteristiche grafiche dei libri di questa collana (un po’ più bassi degli altri) e rispecchiava anche una tradizione da anni in editoria, e cioè quella di chiamare le collane con nomi di animali (Struzzi, Penguin, Elefanti…)

All’inizio la collana si è divisa tra una buona parte di riproposizioni di romanzi storici già proposti in altro tempo da Mondadori e una piccola parte di inediti. Poi col passare del tempo questo rapporto si è invertito: sono finiti i romanzi proposti da Mondadori che lei riteneva essere dei capisaldi oppure il successo della collana l’ha convinta a puntare su novità?

La scelta di partenza era un’altra. La collana, nata come un divertimento dell’editore e non con il desiderio di farne l’asse portante della casa editrice, prevedeva un numero chiuso di opere, 50, tutte di autori diversi, che rappresentassero il meglio del romanzo giallo dell’età d’oro. Sarebbero mancati alcuni  autori già oggi stabilmente collocati presso altre case editrici, ma pazienza. Con questa premessa era inevitabile che la percentuale di opere già edite fosse superiore a quella degli inediti. Con il successo ottenuto, abbiamo pensato di andare avanti, alternando ad autori nuovi altri che avevamo già pubblicato. A questo punto è stato naturale andare sempre più su scrittori non conosciuti in Italia le cui opere erano inedite.  Le confesso che m’interessa poco pubblicare le opere minori di autori famosi.

Fin dal principio la collana è stata affetta (e lo è tuttora) da una chiarissima anglofilia. La proposizione sistematica  di classici anglosassoni a scapito di quelli di altra lingua (penso ai romanzi francesi) è la conseguenza di un suo amore viscerale per la letteratura anglosassone o anche della poca conoscenza e quindi della paura di sbagliare nel proporre romanzi di narrativa poliziesca francese (sempre mystery)?

Non conosco la letteratura francese degli anni Venti/Quaranta, quindi era una scelta inevitabile.

E’ possibile che nel futuro possa rivedere la sua decisione di puntare solo su letteratura anglosassone e guardare anche a quella francese degli anni ’30?

Possibile ma non facile, anche perché dovrei demandare la scelta dei titoli a terzi ed è una cosa che per le case editrici piccole come la mia e fortemente caratterizzate dall’impronta dell’editore è commercialmente rischiosa: si potrebbe correre il pericolo di snaturarne l’identità. Sarebbe opportuno introdurre una collana ad hoc, ma purtroppo il modesto esito dei Mastini, che pure annoveravano titoli di grande interesse, almeno secondo me, mi ha frenato su nuove iniziative. Se poi il mercato dovesse rimettersi in moto, be’ se ne potrà sempre riparlare.”

Lei parla de I Mastini e questo provoca una mia domanda collegata. Prima che Lei desse il la al lancio della collana de I Bassotti, la Casa Editrice, pur non conosciuta come adesso, aveva pur sempre una propria identità, e annoverava alcune collane. Al di là del successo meritato della sua collana maggiormente conosciuta, e al di là della collana de I Mastini che nelle sue intenzioni avrebbe meritato maggior successo, quale altra collana della Sua casa editrice lei avrebbe voluto che fosse maggiormente conosciuta per contenuto editoriale?

Oltre ai Bassotti e ai Mastini la mia casa editrice non ha pubblicato molte altre collane. I Jeeves, le opere di Wodehouse dedicate al suo personaggio più famoso, il maggiordomo tuttofare Jeeves, è una di quelle che ha avuto maggior successo. Le altre sono Obladì Obladà, una collana di narrativa contemporanea anglo-americana di genere commerciale (thriller, gialli, romanzi femminili, ecc.) e i Polillini, vale a dire la ristampa in edizione economica di quegli stessi titoli. Queste due collane sono state purtroppo abbandonate anni fa. Quando la Polillo Editore aveva iniziato le pubblicazioni, nel 1996, il mercato della narrativa straniera di genere commerciale (la cosiddetta “commercial fiction”) era seguito da poche case editrici, Mondadori, Rizzoli, Longanesi e – con un taglio più popolare – Sperling & Kupfer. La mia idea era trovare una nicchia nella quale inserirmi con romanzi di buona qualità, che potessero rappresentare una scelta alternativa per chi aveva intenzione di scoprire qualcosa di diverso dai soliti autori di best seller. Purtroppo, da allora il mercato è profondamente cambiato. Altre notissime case editrici (Garzanti, Einaudi, Newton Compton, Piemme, Nord, Bompiani, ecc.) che in precedenza non si dedicavano alla commercial fiction, o lo facevano solo marginalmente, sono entrate in modo massiccio in questo campo con la conseguenza che è aumentata la competitività sia sul fronte dell’acquisto dei titoli da pubblicare, sia su quello degli spazi da occupare sul punto vendita. Il risultato è stato una continua discesa delle vendite e una sempre maggiore difficoltà a trovare buone opere da pubblicare, fino a quando la continuazione della collana non è stata più giustificata e ho deciso di chiuderla.

Chi come me è un appassionato, e quindi anche un affezionato lettore dei romanzi proposti dalla Sua collana, non può non aver notato che ci sono degli autori che ricorrono (Fletcher, Freeman, Berkeley, Carr, etc..)  ed altri pubblicati una sola volta ( Innes, Penny, Rice, Sprigg, etc..). Da cosa è dovuto ciò? Ad una sua preferenza verso taluni autori, a successi o mancati successi di vendita, o ad una effettiva disponibilità di titoli buoni da tradurre ?

Sono tanti i motivi. Oltre a quello che ho già indicato in precedenza, c’è il fatto della difficile reperibilità a prezzi accessibili dei testi originali; l’atteggiamento degli agenti letterari che non sempre ritengono di accettare le nostre offerte; le mie preferenze personali (alcuni autori a me non piacciono); a volte lo scarso successo delle vendite di precedenti opere del medesimo autore (Craig Rice è un caso emblematico: è un’autrice che a me è sempre piaciuta eppure vende poco). Infine certi testi sono così lunghi che con il mercato che c’è oggi in Italia non reggono il costo della traduzione e quindi giacciono lì, in attesa di tempi (e di tirature) migliori.

Come si svolge l’iter della pubblicazione di un qualsiasi romanzo nella collana de I Bassotti? Supponiamo che lei venga a sapere dell’esistenza di un determinato romanzo: qualcuno le dice di possedere un romanzo X che meriterebbe una pubblicazione. Lei che fa? Discute prima con chi Le propone il libro e poi legge il libro, oppure l’iter è l’opposto? E quanto conta nella scelta di un libro anziché un altro, il consiglio di sua moglie che è anche sua socia?

Il parere che conta è il mio. Ci sono alcuni fidatissimi (mia moglie è tra questi) che la pensano come me e quindi la scelta diventa molto facile. Segnalazioni ne arrivano molte e da varie parti, ma non sono molti quelli che possono portare un valore aggiunto: è una collana troppo specialistica e personalizzata.

Ho notato che vi sono dei traduttori ricorrenti (Pratesi, Castino Bado, Amato, etc..) e alcuni occasionali (Igor Longo per es.). In base a quale procedimento viene assegnato ad un determinato traduttore un libro? E’ il traduttore che si propone o è Lei che assegna il titolo? E in base a quale criterio?

Io sono sempre partito dall’idea che se un traduttore apprezza il libro sul quale deve lavorare la traduzione viene meglio. Quindi, al di là del fatto che io ho da anni un nucleo di traduttori affezionati sulla cui qualità e professionalità so di poter contare, affido i testi a seconda delle loro preferenze e delle caratteristiche delle opere. E’ raro che ci siano traduttori nuovi, anche perché in questo momento non mi servono. Il caso di Igor Longo è molto semplice. Il libro in questione era stato tradotto abbastanza di recente – e bene – per la  Mondadori ; quando ho deciso di pubblicarlo nei Bassotti, la scelta di utilizzare quella versione è stata automatica: sarebbe stato inutile farlo ritradurre.

Parecchi lettori pongono sempre la stessa domanda: perché I Bassotti non vengono pubblicati in digitale?

Prima o poi i Bassotti finiranno, credo, anche in e-book, ma le dirò francamente che io non amo questo genere di edizioni. Sono testi facilmente piratabili (e io il mestiere dell’editore lo faccio per passione, ma non al punto da regalare il lavoro che faccio), hanno in effetti costi minori  ma hanno anche prezzi molto più bassi  e possono vivere ed essere realizzati solo se c’è una edizione cartacea alle spalle. Dovrei qui entrare in una discussione tecnica che non è il caso di fare, ma purtroppo devo dire che l’e-book non è la soluzione né per gli editori né per i lettori, e infatti le ultime notizie sul mercato interno e internazionale ci dicono che il libro elettronico è in flessione ovunque, mentre  c’è una ripresa del libro di carta.

Un altro interrogativo ricorrente riguarda il costo del libro. Lei mi ha detto recentemente che il costo varia anche in rapporto al numero di pagine, e quindi per mantenerlo fisso presumo che si debbano cercare titoli che non sforino un certo numero di pagine (per non inficiare l’integralità della traduzione, che è uno dei vanti della collana). Lei mi diceva questo in relazione a titoli di Innes, o a certi titoli (uno in particolare di Dorothy Sayers) in cui il volume insolito di pagine, renderebbe molto problematica l’apparizione ne I Bassotti, a meno di non aumentare ulteriormente il prezzo del volume. Non si potrebbe, nel caso di certi autori, attuare una politica quale quella di etichette americane (del campo discografico) che pubblicano un certo disco solo dopo aver raggiunto un certo tipo di prenotazioni, una sorta di vendita sulla base di un numero certo di acquirenti? E per esempio, non si potrebbe, sulla falsa riga de I Classici Mondadori, creare un’ altra collana in cui relegare i volumi più vecchi della collana, ad un prezzo inferiore e con una copertina diversa tanto per inquadrare la diversità del prodotto? In questo modo si potrebbe acquisire liquidità da investire in altre pubblicazioni .

Le prenotazioni vengono sempre fatte anche in editoria, e infatti in qualche caso una pubblicazione già decisa e stata annullata proprio perché le prenotazioni si erano assestare su un numero troppo basso. Ma il punto vero è che i libri non vengono venduti al cliente finale (il lettore) ma a un intermediario (il libraio) che poi li vende. E i librai hanno sempre la possibilità di rendere all’editore i libri acquistati se questi non incontrano il favore del pubblico. Quindi le prenotazioni hanno una loro importanza, ma non garantiscono nulla: se io prenoto molto bene ma poi vendo molto male mi trovo in ogni casi nei guai. Quanto alle edizioni economiche, certo, è possibile, ma tenga conto che i diritti non vengono acquistati dall’editore senza limiti di tempo e con la possibilità di farne poi quello che vuole. I contratti sono molto dettagliati e limitativi, quindi costi per l’editore, oltre a quelli di stampa, distribuzione, ecc., ce ne sarebbero sempre. Inoltre, ma sempre parlando in termini generali, non creda che le edizioni economiche se la passino poi bene in questo periodo; anzi, in quel settore le vendite sono forse scese di più rispetto a quelle delle edizioni maggiori.

Quanto conta, nelle Sue pubblicazioni, il costo diritti editoriali?

A sufficienza, ma non è quello il vero problema della collana, come ho già indicato rispondendo a una precedente domanda.

Quali autori/titoli usciranno nel 2016? E quali altri, sulla base di un successo che noi auguriamo possa riprendere, potrebbe trattare in un prossimo futuro?

Le posso dire quelli che sono i prossimi titoli in uscita: “Un pomeriggio da ammazzare” di Shelley Smith, “Arsenico” di Richard Austin Freeman, “Quella cara vecchietta” di Belton Cobb, “Compleanno con delitto” di Lange Lewis, e poi un Anthony Wynne, una Ethel Lina White, R A J Walling, Anthony Weymouth, ma non mi chieda di più. Toglierei la sorpresa ai lettori e svelerei i miei programmi editoriali alla concorrenza.

Ringrazio il Dott. Polillo per la disponibilità mostrata e la sua gentilezza.

P.D.P.

 

 

 

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Anthony Gilbert : La porta proibita (Don’t Open The Door, 1945) – I Gialli del Secolo N° 101, Casini, 1954

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Si chiamava Lucy Beatrice Malleson, cugina del grande attore e drammaturgo britannico Miles Malleson, e di professione era scrittrice di polizieschi: sotto questo nome tuttavia nessuno la conosceva perché era famosa invece sotto quello di Anthony Gilbert. Sotto questo pseudonimo (altri furono J. Kilmeny Kaith e Anne Meredith) pubblicò ben 69 romanzi di cui 51 ebbero come protagonista l’avvocato detective Arthur Crook. E’ da dire però che la scrittrice si era cimentata, sotto lo stesso pseudonimo in altri romanzi, poco più che una decina, a partire dal 1927: infatti, il primo romanzo in assoluto, era stato The Tragedy At Freyne.

Sin dal primo romanzo Murder by Experts del 1936, questo nuovo detective fu immediatamente popolare.. Anche perché, diversamente dagli altri suoi colleghi, introdusse un modo di apparire sulla scena tutto suo: invece di  fare quella che è la parte consueta del detective anni ’30, cioè consegnare alla giustizia il colpevole dopo un acuto ragionamento, lui entra in scena quando il suo cliente è stato accusato di un delitto o comunque è coinvolto in un qualche guaio. Anche in questo romanzo che è del 1945, Don’t Open The Door , Arthur Crook entra in scena dopo almeno mezzo libro, e lo fa perché il suo cliente è stato additato come il rapitore della bella di turno. Ma…andiamo per ordine.la porta 001

Nora Deane è una bella ragazza, orfana, che ha vissuto con una zia in Scozia, finchè ella non è morta. Così sola e con pochi soldi, scende in Inghilterra per lavorare come infermiera, mettendo la sua esperienza al servizio di chi abbia bisogno di un’assistenza domestica. Così accade quando è inviata a casa di Alfred e Adele Newstead. Già la sera, con una nebbia così fitta da mettere in apprensione chi non conosca il posto, non promette nulla di buono; ma per di più a Nora capita anche di essere accolta, dopo un ritardo di oltre tre ore causa linea ferroviaria bloccata, da un Alfred Newstead estremamente sospettoso e sgradevole, che malcelatamente non gradisce una persona in casa. Grazie a Dio, almeno era stata accompagnata alla dimora da un bel giovane che aveva incontrato per strada, Sammy Parker, che le aveva proposto di pranzare assieme il giorno dopo..

Subito lei si accorge che c’è qualcosa che non va: la moglie, che a detta del marito soffre solo di una malattia nervosa, invece sta davvero male, e nonostante lui, dopo averle assegnato la stanza, brutta e trasandata da far paura, le intimi di non dare corda alla moglie, lei le si avvicina, tanto per capire dal tono di voce della donna, che Adele ha paura del marito; tanto da implorare la ragazza di prendere dalla scrivania un libriccino e di darlo al fratello della donna, Herbert. Fa appena in tempo ad intascare il notes, che il marito appare portandole una tazza di thé. Dopo aver bevuto la bevanda, improvvisamente capisce di essere stata drogata, e quando si sveglia, alle 6 passate del mattino, Adele è bell’e morta.

Il medico, chiamato dal marito, pur sospettandolo di uxoricidio per mezzo di una dose elefantiaca di sonnifero (da un tubo di compresse fornite dal medico mancano tre compresse in più rispetto a quelle prescritte) decide di non intervenire e di firmare purtuttavia il certificato di morte, anche perché la testimonianza della ragazza, pur sollevando dubbi ed incertezze sul reale comportamento del marito che si proclama innocente, non prova nulla in più di un semplice indizio. Ed egli, che in passato ha provocato l’arresto di una persona per uxoricidio, poi dichiarata innocente e purtuttavia suicidatasi, non vuole avere altri sulla coscienza.

Così Nora, ritorna a casa, per essere mandata in altra casa.

Intanto i funerali si sono svolti e Alfred è andato via, facendo perdere le tracce.

Nora contatta Herbert per consegnargli il libriccino e scopre che anche il fratello della morta sospetta il cognato di uxoricidio, tanto più che la moglie da tempo sospettava che il marito la tradisse con delle sgualdrine: una delle tante è Hattie Forbes, vicina di casa della coppia. Dopodiché anche l’avvocato sparisce.

Un giorno che Nora sta lavorando pressa la casa di una vecchia zitella, legge sul giornale che è stato trovato in una cava un corpo in decomposizione, che, per un orologio al polso, viene riconosciuto essere Alfred Newstead. Le indagini puntano allora verso Herbert. Può aver vendicato la sorella? Ma, allorquando la vecchia rivela tutto al nipote Roger Trentham giornalista, Nora diventa un pericolo per l’assassino, perché sul personaggio dell’infermiera e sulle sue presunte rivelazioni, crea degli scoop da “prima pagina”. E così accade che sulla base di due telegrammi fasulli, lei cade nelle braccia dell’assassino, che ha progettato, per la sua morte, un finto incidente d’auto.

Ecco che a questo punto entra in scena Arthur Croock, chiamato in causa da quel Sammy Parker innamoratosi istantaneamente della bella ragazza, il cui nome fasullo figura sui due telegrammi inviati alla ragazza. Tutti pensano che sia Sammy che l’abbia rapita ed invece è…

Sarà proprio Arthur coadiuvato dal giornalista a ritrovare la ragazza, ma quale sorpresa quando accanto a lei, chinato per curarla troveranno proprio Sammy. Che l’ha salvata, dopo che l’auto in cui era la ragazza, spinta giù dalla scogliera, dall’assassino, di sera, nella nebbia, si è fermata sul ciglio del burrone che è a picco sugli scogli, oscillando pericolosamente, e dopo che lì è rimasta Nora, drogata e mezza assiderata, per diverse ore.

Il ricovero della ragazza fornirà all’assassino l’ultima chance per eliminarla, non sapendo di essere non la ragazza ma lui stesso la mosca che cadrà nella ragnatela per lui predisposta.

Don’t Open The Door (pubblicato in USA nel 1946 coll’altro titolo Death Lifts the Latch)  è un bel thriller, che vive solo sulla suspence e non già sull’identità dell’assassino da scoprire, che è molto facile identificare. E non basta il tentativo della scrittrice di inventare una falsa morte ed uno scambio di identità (c’è un altro omicidio) per distogliere l’attenzione del lettore dall’assassino dichiarato o quasi: del resto, il romanzo non ha un parco di sospettabili vasto, cosa per esempio riscontrabile nei romanzi di Ngaio Marsh o di Georgette Heyer o di Agatha Christie, ma estremamente risicato: che si tratti del marito, fedifrago, donnaiolo impenitente, infido; o del fratello, avido di denaro; o della bella e facile Hattie, il passo è breve. Questo perché Anthony Gilbert non fa della psicologia la sua arma vincente ma la tensione, di cui è padrone: utilizza il vecchio trucco dell’ atmosfera (nebbia fitta, sera buia, posti deserti, casa lugubre rischiarata da candele, polvere dappertutto) e lo combina con una storia dai rilievi dark: una moglie depressa, che ha tentato già una volta il suicidio, nelle mani di un marito che sarebbe ben felice se morisse, e che si è affidata per la sua difesa ad un fratello a cui sta a cuore non la felicità della sorella ma i suoi soldi, e che sarebbe ben contento se riuscisse a dimostrare la colpevolezza del cognato; dei sonniferi utilizzati troppo facilmente; delle lettere segrete; la presenza di un’altra donna, che sarebbe ritornata per prendere il suo posto, dichiarata dalla malata a Nora; la morte in circostanze estremamente sospette della donna. E poi tutto quello che viene dopo, con l’infermiera, che nelle intenzioni dell’assassino avrebbe dovuto farsi gli affari propri e che invece, per un articolo giornalistico, viene a trovarsi al centro di un bersaglio ideale. E la corsa contro il tempo per salvarla. Il romanzo ha un grado di tensione abbastanza alto, non perchè si ignori l’identità dell’assassino che è palese, quanto perchè si deve trovare nel più breve tempo possibile l’eroina che sta per essere uccisa in quanto testimone oculare. Però, nel momento in cui l’eroina viene salvata, il romanzo perde mordente, perchè tutti hanno capito chi sia l’assassino.

Il romanzo che è del 1945, ambienta la storia a guerra finita, mentre non lo era ancora: in questo, storia com’è strutturata (il buio, la nebbia, la morte contrapposti alla liberazione della ragazza e all’amore) mi farebbe anche pensare ad un rimando alla guerra che si stava vivendo e che volgeva al termine, ad una rappresentazione di stati di animo contrapposti (paura, terrore – coraggio, serenità).

Inoltre paga secondo me un tributo a tutta una cinematografia che era viva in quegli anni: come non fare un pensiero a film come Suspicion, “Il Sospetto”, del 1941, tratto dal romanzo di Berkeley, Before The Fact, 1932, in cui Cary Grant è sospettato dalla moglie, Joan Fontaine, di volerla avvelenare per impadronirsi dei suoi soldi, che ebbe un clamoroso successo di pubblico? Celebre in quel film l’inquadratura di Cary Grant che sale le scale portando un bicchiere di latte che si sospetta avvelenato, in cui, per concentrare su di esso l’attenzione del pubblico, Hitchcock fece mettere una luce. Del resto anche nel romanzo, è come se l’inquadratura del lettore venisse messa a fuoco sul bicchiere e sui sonniferi posti vicino al capezzale della malata.

Interessante è anche notare come la scrittrice avesse inventato un proprio personaggio principale che non è, come era d’uso in quei tempi, un dandy (Philo Vance), un aristocratico (Lord Wimsey), un poliziotto acculturato (l’ispettore Sir John Appleby di Scotland Yard), il figlio di un ispettore di polizia di New York (Ellery Queen), un Alto Commissario di Polizia newyorkese (Thatcher Colt), ma un avvocatucolo, sempre in bilico tra onestà e disonestà, che utilizza metodi non ortodossi, un po’ come Perry Mason per inchiodare i colpevoli, che a noi assomiglia, ma parecchio, a John J. Malone, avvocato molto amante dell’alcool  e dei sigari e molto poco ricercato nel vestire! Del resto il primo romanzo di Craig Rice con Malone è del 1939, e quindi potrebbe anche essere che sia stato il riferimento ideale per la Malleson.

Infine una nota sull’edizione italiana: pur non essendovi alcun riferimento al traduttore/traduttrice che tradusse il testo, e pur sapendo che, come era prassi ne I Gialli del Secolo, i testi erano alquanto “tagliati”, bisogna dire che il montaggio delle varie parti fu tale che, anche rabberciato, il romanzo mantiene inalterata la tensione e si legge benissimo, in un italiano notevole (erano comunque sessant’anni fa). Il titolo, fa riferimento ad una frase tradotta a pag. 48: “….La porta non dev’essere mai aperta”, che s’intende riferita al fatto che chi si interessa ad un reato compiuto da altra persona, facendone menzione pubblica, finisce per pagarne le conseguenze (ovviamente questo è il pensiero dell’omicida che sta minacciando di morte Nora). Ma potrebbe avere anche altro significato: essere il riferimento alla porta della camera della moribonda che non doveva essere varcata quella notte, a prezzo di pagarne le conseguenze.

Pietro De Palma

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A febbraio, ne I Classici del Giallo Mondadori, Il Segreto del Milionario di Helen Reilly

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Dopo decenni di oblio, ecco che il mese prossimo I Classici del Giallo Mondadori presenteranno – sempre che si dia credito alle anticipazioni pubblicate in calce ai romanzi in edicola – una ristampa d’annata di Helen Reilly.

Di Reilly molto è stato pubblicato in Italia, anche se sfuggono parecchi inediti. Ma ormai si deve mettere una pietra sopra alla possibilità che i rimanenti vengano tradotti, almeno in tempi prossimi (se non lo sono stati, quando ce n’era la possibilità, vorrrei vedere ora!). Tuttavia già quelli che lo sono stati, meritano di essere conosciuti.

Il personaggio principale delle sue storie è l’Ispettore McKee, che esordisce in “McKee of Centre Street”   (1933). Da quel momento, la scrittrice ed il suo personaggio principe diventano popolari.

Nel 1936 esce “Dead man Control”,  che, nel 1941, nella collana de I Libri Gialli (le Palmine) viene pubblicato come “Il segreto del Milionario”, col numero 250.

Il titolo non dice proprio nulla, come al solito, mentre il titolo americano è indicativo: “il Controllo dell’uomo morto”. In parole povere…

In “Dead Man Control”, l’uomo morto è Fennimore Kingston, ricco autocrate che aveva tutto e che amava controllare tutto – compresi soprattutto coloro che lo attorniano e che da lui dipendono.  Il titolo fa riferimento a l fatto che anche dopo che è stato ucciso, Kingston sembra esercitare un controllo sulla cerchia dei suoi conoscenti, parenti e e affini.

Qual’è la storia?
E’ una classica Camera Chiusa che farà la felicità di molti. La storia si apre con l’omicidio di Kingston, che viene ritrovato morto nel suo studio: la porta chiusa dal di dentro e le finestre aperte, ma con al di fuori la neve che cade e…sua moglie svenuta accanto a lui. Viene ritrovata anche la pistola usata per l’omicidio, accanto alla sposa. Potrebbe sembrare in un primo tempo un furto concluososi tragicamente, ma poi qualcuno pensa che la neve caduta e l’assenza di orme su di essa, dinostrino il contrario, cioè che il delitto è stato concepito da qualcuno all’interno della casa. E siccome chi viene trovato accanto al cadavere è sua moglie con tanto di pistola, e la porta era chiusa dallinterno, allora…

 

Sarà l’Ispettore scozzese McKee ad andare controcorrente e dimostrare, dopo altri delitti, come un colpevole facile facile non è che per forza sia quello vero.

Pubblicato anteguerra, il romanzo tuttavia riuscì negli anni ’50, nei cosiddetti Capolavori del Giallo Mondadori, in un’edizione in paperback che, a fronte delle sforbiciate numerose del testo originale, tuttavia si presentava abbastanza maneggevole da leggere. Però di contro, presentava un testo che era invero un vero e proprio riassunto, anche se abbastanza rinfrescato rispetto al testo originario e soprattutto in un italiano scevro dalla fascista italianizzazione forzata dei nomi e cognomi stranieri.

 

Io non la acquisterò perché posseggo l’edizione originale del 1941. Ma presumo che molti la acquisteranno.

Non so ora quale sia l’edizione che sia stata usata per questa riedizione. Mi auguro che sia quella originaria. Anche se ho forti dubbi.

Spero di no, altrimenti sarebbe, ancora una volta, un’occasione persa (un riassunto non è mai l’originale).

 

P.D.P.

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UN ANNO MONDADORI, FRA LUCI ED OMBRE

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L’editoriale a firma Franco Forte, pubblicato il 13 gennaio sul Blog del Giallo Mondadori, ha dimostrato, per chi non se ne fosse ancora accorto, che, nel settore da edicola delle testate mondadoriane destinate al genere poliziesco, qualcosa è cambiato.

Innazitutto dimostrerebbe che la posizione di Editor, responsabile della “politica editoriale” delle pubblicazioni, si sia notevolmente rafforzata: che mi ricordi, infatti, Franco Forte non era mai sceso in campo, nonostante tenesse il timone da almeno quattro anni, a differenza delle tante volte in cui aveva invece “parlato” ai lettori Sergio Altieri. Il fatto che per alcuni anni materialmente non si fosse mai presentato, poteva significare che non era sicuro, che voleva essere cauto; il fatto che ora invece esca allo scoperto potrebbe significare il contrario: l’acquisizione di una posizione definita, che probabilmente si coniuga ad un certo successo (dice lui) e quindi un rafforzamento delle sue funzioni e delle sue scelte editoriali.

Uso il condizionale, perchè nel mondo editoriale di oggi, dominato ancora da una acuta crisi,  se un Editor è dato a 100 oggi non è detto che tale sia domani.

Da ciò deriva che probabilmente la soluzione dei due romanzi mensili rimarrà fisso per molto tempo, almeno fino a quando un nuovo boom delle vendite non convincerà qualcuno ad allargare l’offerta e magari variegarla: è quello che ci auguriamo tutti.  Ma fino ad allora…avremo un Classico, che presenterà delle ristampe, e un Giallo che presenterà degli inediti, e con la cui formula ci proporranno anche delle antologie di racconti, che in passato era uso fossero presentati dalle raccolte stagionali di “Ellery Queen presenta” e poi dai Super Gialli.

Già in passato i Classici presentavano solo ed esclusivamente ristampe: negli anni ’70, erano il modo per ripresentare delle traduzioni desuete, risalenti magari anche agli anni delle parate oceaniche e dei saluti romani, e tuttavia rinfrescate. Solo in un secondo tempo, negli anni ’90, ampliarono la loro proposta diventando una specie di ibrido: presentavano sempre ristampe, ma affiancandole a proposizione di inediti oppure  di vecchi titoli ma con traduzioni nuove e magari integrali. Così ne I Classici del Giallo Mondadori, se in origine il termine Classico aveva in sé il significato di “perfetto, eccellente, tale da poter servire come modello di un genere”, in seguito diventò sinonimo di “tradizionale”, contrapposto ad altri generi più moderni, rappresentati invece dalle proposte de I Gialli Mondadori. Fino ad arrivare ad un paradosso: dalla metà degli anni ’90, in una continua gara nel proporre nuovi titoli e nuovi autori, i Classici persero la loro connotazione di vetrina di ristampe e molto spesso presentarono inediti che facevano da contraltare a quelli dei Gialli. Così se in origine sul Giallo Mondadori, negli anni ’70 per esempio erano stati presentati romanzi inediti di grandi autori (Agatha Christie, Ngaio Marsh, Christianna Brand, Fredric Brown, etc…), in un secondo tempo si acquisì la tendenza a contrapporre l’inedito appartenente ad un tempo non contemporaneo ne I Classici, e l’inedito anche  di Giallo Classico cioè tradizionale o di altri generi ne Il Giallo Mondadori. Fino a quando non si generò una confusione: mi ricordo che per esempio gli Halter, in un primo tempo erano solo pubblicati ne Il Giallo –in quando di autore contemporaneo e classico – poi, invece, lo furono anche nella Collana dei Classici: probabilmente, nel momento in cui lo si inserì nel novero degli autori che rinverdivano i fasti del passato, e quindi fu considerato una sorta di manierista contemporaneo.

Ho parlato degli Halter perché questi saranno i romanzi che non vedremo per qualche tempo. Si sa che io sono un Halteriano di ferro, e quindi mi aspettavo una maggiore considerazione nei suoi confronti. Che del resto si è persa man mano, nel passaggio da Sandrone Dazieri, agli editor che lo hanno seguito. Dazieri fu l’Editor sotto il quale il romanziere francese esplose letteralmente (mi ricordo anche tre romanzi ad anno, un po’ quello che è accaduto in tempi recenti con la Bowen) mercè l’appassionata difesa di Igor Longo che, dal momento in cui la Basile non potè più per ragioni di salute curarne le traduzioni, si occupò sempre della traduzione di tutti i romanzi dello scrittore alsaziano. Va detto, ad onor del vero, che a proporre la traduzione dei romanzi di Halter fu proprio Igor Longo, che ne fu quindi lo scopritore per Mondadori (per quanto io sappia).

Tempo fa Paul, che ho intervistato circa un anno e mezzo fa, mi disse che i diritti di due suoi romanzi erano stati acquisiti da Mondadori, cioè  Meurtre dans un manoir anglais del 1998, e L’homme qui aimait les nuages, del 1999. Da allora non si è saputo più nulla, e se qualcuno nutriva la vaga supposizione che uno di questi due romanzi, finalmente sarebbe stato pubblicato nel corrente anno, ora ha potuto appurare che la sua vaga speranza è stata rimandata di non so quanto tempo: certamente di un altro anno, se non…

E’ anche vero però che quando fu scoperto, e nessuno lo conosceva in Italia, di romanzi da pubblicare ce n’erano tanti. E guarda caso si puntò, furbescamente, su quelli che avrebbero potuto far esplodere la serie, i migliori: uscirono, quando ancora Il Giallo adottava il formato paperback con due colonne per ogni pagina,  La quatrième porte, considerato il capolavoro di Halter, e La tête du tigre, entrambi pubblicati nel 1995. E poi a seguire gli altri: Le cercle invisible e  L’image trouble nel 1997, La mort vous invite e A 139 pas de la mort nel 1998, Le crime de Dédale  e  Le brouillard rouge nel 1999, e così via.  In teoria, del ciclo di Alan Twist, che è quello maggiormente conosciuto in Italia, compresi i due romanzi a me citati da Halter stesso, da pubblicare in Italia, ce ne sarebbero ancora 8; e 12 con o senza altro personaggio fisso. In tutto altri venti romanzi!

Il fatto che non li si pubblichino più significa due cose alternativamente:

o che Igor Longo abbia perso il peso che aveva un tempo in seno alla Redazione del Giallo Mondadori oppure che il romanziere francese non venda più.

Francamente la seconda ipotesi sarebbe un assurdo, se davvero fosse così , perché in altre parti del mondo, Paul  è letteralmente venerato: pochi giorni fa, il mio amico John Pugmire ha messo in vendita in USA il romanzo da lui tradotto, La Mort vous invite da noi pubblicato nel 1998 sotto il titolo “Le mani bruciate”, e da lui tradotto letteralmente come “Death Invites You”.

E il fatto che Halter, appena finisca di scrivere dei racconti, essi vengano immediatamente pubblicati su EQMM, dimostra la validità dell’autore. Quindi…mi verrebbe da dire che la prima ipotesi è quella più fondata: per qualche ragione, Igor Longo ha perso aderenze nella redazione. E in fin dei conti, non solo il sottoscritto, ma anche John, Roland Lacourbe, Philipp Fooz e tanti altri non lo sentono da parecchio tempo, compreso Mauro Boncompagni, più o meno dagli stessi tempi da cui non lo sento più io. Persino Giulio Leoni, che era anche suo amico, me ne chiese notizie.

Perdendo in sostanza un difensore, Halter ha perso in Italia chi ne perorasse la pubblicazione delle opere. Questo ritengo, salvo errori di cui chiederei ammenda. Ma al momento non c’è altro da pensare.

In sostanza, l’annuncio di Forte, comunica la pubblicazione nel corrente anno di alcune cose interessanti, alcune anche parecchio, e altre, consentitemi l’ardire, meno. Siamo d’accordo che Il Giallo Mondadori non è una istituzione di beneficenza, e che per pubblicare  nuove cose, deve prima fare cassa, per poi dare l’incarico ai traduttori di mettere mando al testo di nuovi romanzi! Ma è anche vero che, se non fai tu una politica editoriale sensata, non aspettarti che gli altri riconoscano solo i tuoi meriti. Cosa voglio dire? Che l’annuncio della pubblicazione di romanzi di Tessa Harris, Maureen Jennings, Anne Perry e Rhys Bowen non è che mi faccia gridare: “miracolo!”.  E lo stesso romanzo della Rendell è una mossa furba di Forte, ma non so quanto: pubblica come inedito, un romanzo che era stato pubblicato già da Fanucci, e dice pure che era stato pubblicato da altro editore! Ma che razza di inedito è? Non è che ha sbagliato a scrivere, e invece di infilare Rendell tra I Classici, l’ha messo ne Il Giallo? E invece ha infilato tra I Classici, che dovrebbero pubblicare solo ristampe – e  ne viene da lui stesso dato l’annuncio della pubblicazione – un inedito di Freeman: “Dr. Thorndyke Intervenes”, che poi è un romanzo del 1933?

La sensazione che io ho fortissima, e che condivide con me qualche amico, pure grande lettore e collezionista, è che oramai il grosso del pubblico del Giallo Mondadori sia femminile; e quindi Forte vi si adegua, puntando su gialli se non proprio rosa almeno meno efferati. Nonostante quelli di Tessa Harris non è che proprio siano per educande..

Invece quelli che devo riconoscere  si annunciano delle ottime uscite, sono: Hellbox di Bill Pronzini, un autore che è stato lungamente pubblicato da Mondadori che non ne ha mai smesso la pubblicazione dei lavori negli anni ( anche grazie all’estimazione di Mauro Boncompagni); “The Coffin Trail”di Martin Edwards, ottimo autore e anche ottimo critico britannico (ultimamente ha pubblicato The Golden Age of Murder); “Death on Tour” di Janice Hamrick, che ha vinto il Minotaur Books/Mystery Writers of America First Crime Novel Competition, una sorta di Premio Tedeschi statunitense, creato dal MWA e poi è stata finalista del Mary Higgins Clark Award: un bel romanzo mi hanno detto, anche parecchio brillante;

ed infine “Tied Up in Tinsel” di Ngaio Marsh, un romanzo del 1972, parecchio interessante.

Delle altre uscite, segnalo che tra le uscite viene menzionata una raccolta di Rino Cammilleri, ed una raccolta di apocrifi sherlockiani che uscirà a distanza esatta di tre anni da quella originale uscita per Delos (tra i racconti ve n’è uno mio, piuttosto lungo, con una Camera Chiusa).  Entrambe le raccolte sono state pubblicate da altre case editrici nel passato: la prima in Piemme, la seconda in Delos; tuttavia, siccome si tratta di autori italiani, qualora essi cedano i diritti alla Mondadori, fanno sì che essi appaiano “di nuovo per la prima volta”, almeno in Mondadori.

Bisogna dire però anche un’altra cosa: essendo state dimezzate le uscite da 4 a due, automaticamente le uscite che erano state previste nel corrente anno, verranno spalmate anche nel prossimo. Quindi se era stata prevista per esempio l’uscita di un Halter nel 2016, ora lo sarà successivamente. Tuttavia devo obiettare che come dirò a seguire, i romanzi inediti annunciati tendono a spostare la prospettiva non tanto su romanzi “classici” quanto su romanzi di Crime fiction contemporanea. E quando parlo di crime fiction contemporanea, non parlo di autori come Gischler, Lansdale, Elmore Leonard, Sallis, Crumley e compagnia bella, perché quello sarebbe solo arricchimento; parlo di altri, che inserendo in maniera sistematica e massiccia la cornice storica in un contesto in cui il romanzo poliziesco non è il fulcro, ma una delle molle per parlare di altro, imbastardiscono il genere. Non parlo ovviamente di Giulio Leoni che ha creato dei romanzi gialli nel tempo passato, utilizzando le proprie conoscenze professionali (era un docente di liceo) ma curando bene la storia gialla. Parlo di chi, a parere mio, non sapendo come tenere la tensione facendo un romanzo “solo” giallo, inseriscono note di ambientazione storica e descrizioni più o meno sistematiche, parlano di amore, o magari accennano a descrizioni anatomopatologiche. Uno di questi autori è per es. la tanto decantata Tessa Harris, che riprende le tendenze di giallo storico, vi aggiunge note di anatomopatologia tanto cara a Cornwell e Reichs, frulla bene il minestrone, e ottiene un prodotto diverso, ma che ha l’uno, l’altro e l’altro ancora. Io personalmente questo romanzi non li sopporto (non li sopportava un tempo neanche Igor Longo) proprio! E inserirli in una collana da sempre votata a chi ha fatto la storia del romanzo poliziesco, che sia Psicologico o Detection classica o ancor di più Camere Chiuse o Hardboiled, mi pare un controsenso, dettato più da logiche di mercato che da altro.

Ognuno ha il diritto di esprimere il proprio pensiero ed io lo esprimo.

Della tendenza di Forte a privilegiare la produzione contemporanea rispetto a quella passata,  mi parlò tempo fa Mauro. Ovviamente Forte capitola dinanzi ad i grandi; ma quando si tratta di altri autori meno conosciuti, non cede e fa il gioco di Marco Polillo. Chi ha letto la mia intervista recente a lui, può capire cosa voglia dire. Questo però ha i suoi “pro” e i suoi “contro”.

I suoi “pro” sono rappresentati dal fatto che privilegiando un tipo di letteratura contemporanea, la rapporta ad un bacino di utenza, soprattutto femminile, che si indirizza anche in base alle tendenze nuove, al genere “che tira” e non solo preferenzialmente giovane.

I “contro” sono rappresentati dal tipo di produzione poliziesca che, incontrando i gusti delle nuove generazioni, tende ad uniformarvisi. Questo potrebbe portare col tempo, alla perdita di una identità di collana, che è rappresentata dalla produzione di genere “classico” che sia di detection, psicologico o hardboiled, e all’appiattimento del gusto e della differenza rispetto a similari collane da libreria di altri editori, per cui alla fine non ci sarà alcuna differenza tra una collana da edicola mondadoriana ed una di altra casa editrice. Infine, spostandosi man mano su tale produzione contemporanea, si darà ulteriore linfa ai pochi rivali editoriali, che invece stanno puntando proprio sull’eccellenza della produzione “classica” per rosicchiare qualche altro punto di percentuale.

Cos’altro da dire?

Per quanto riguarda gli Speciali del Giallo, curati da Mauro Boncompagni, ad Aprile esce uno con “L’alta cucina del delitto” che contiene i romanzi “La ricetta del diavolo” di Ellery Queen, “Ne uccide più la gola” di Douglas Clark e il racconto “Morte in ascensore” di Cornel Woolrich: il primo è un apocrifo queeniano (vero autore era Flora Fletcher), il secondo è un romanzo di Douglas Clark, un autore poco conosciuto, che riversava nei suoi romanzi le sue conoscenze farmaceutiche, tra cui questo; del Woolrich è pure inutile parlare. Buona uscita.

A luglio ne esce un altro che propone hardboiled famosi di Chase e Goodis, e un racconto noir di Iles/Berkeley (già uscito in un “Ellery Queen presenta” Inverno ’71).

Infine a dicembre, una grande uscita: escono due bei romanzi! Io ne ho uno (Gorgo Fatale, di Fredric Brown) ma mi manca l’altro (Giovedì mi ucciderai – e non come è scritto nell’editoriale di Forte “ne ucciderai” – di Gregory MacDonald (Fletch, vincitore nel 1974 del MWA). Completa  il tutto un altro racconto di Woolrich.

Infine i Classici del Giallo.

Gran bei titoli, non c’è che dire. Li ho tutti però, tranne quello previsto a dicembre 2016 (ma tutti a dicembre escono?) di Charlotte Armstrong, L’Insospettabile, uscito non in  Mondadori ma nella Serie Gialla delle 3 scimmiette Garzanti.

Bravo, Mauro : ti sei disimpegnato a dovere!

Pietro De Palma

 

 

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“Gialli Anglosassoni”, i Romanzi che hanno ispirato il Giallo Moderno.

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Come già accaduto nel 2013, vengono riproposti, in una collana a medio prezzo targata Corriere della Sera, venti volumi della mitica collezione della  Casa Editrice Polillo, I Bassotti.

Della possibilità ho parlato tempo fa con lo stesso Marco Polillo, quando ho realizzato, grazie alla sua disponibilità, un’intervista rivelatrice, pubblicata per il momento solo sul mio blog italiano La Morte Sa Leggere: in un passo, io auspicavo una serie a medio prezzo in cui trovassero spazio i volumi non più molto venduti perché lontani nel tempo, che avesse lo scopo di portare liquidità al comparto sì da convertirla in nuovi progetti editoriali. Però, ovviamente, e Polillo lo capì ma non rispose, il riferimento di base era quello della prima collana del Corriere della Sera, che qualche anno fa aveva portato liquidità nelle casse della casa editrice fondata da Polillo, proprio in ragione dei titoli molto allettanti e del prezzo altamente competitivo:

Un altro interrogativo ricorrente riguarda il costo del libro. Lei mi ha detto recentemente che il costo varia anche in rapporto al numero di pagine, e quindi per mantenerlo fisso presumo che si debbano cercare titoli che non sforino un certo numero di pagine (per non inficiare l’integralità della traduzione, che è uno dei vanti della collana). Lei mi diceva questo in relazione a titoli di Innes, o a certi titoli (uno in particolare di Dorothy Sayers) in cui il volume insolito di pagine, renderebbe molto problematica l’apparizione ne I Bassotti, a meno di non aumentare ulteriormente il prezzo del volume. Non si potrebbe, nel caso di certi autori, attuare una politica quale quella di etichette americane (del campo discografico) che pubblicano un certo disco solo dopo aver raggiunto un certo tipo di prenotazioni, una sorta di vendita sulla base di un numero certo di acquirenti? E per esempio, non si potrebbe, sulla falsa riga de I Classici Mondadori, creare un’ altra collana in cui relegare i volumi più vecchi della collana, ad un prezzo inferiore e con una copertina diversa tanto per inquadrare la diversità del prodotto? In questo modo si potrebbe acquisire liquidità da investire in altre pubblicazioni .

Le prenotazioni vengono sempre fatte anche in editoria, e infatti in qualche caso una pubblicazione già decisa e stata annullata proprio perché le prenotazioni si erano assestare su un numero troppo basso. Ma il punto vero è che i libri non vengono venduti al cliente finale (il lettore) ma a un intermediario (il libraio) che poi li vende. E i librai hanno sempre la possibilità di rendere all’editore i libri acquistati se questi non incontrano il favore del pubblico. Quindi le prenotazioni hanno una loro importanza, ma non garantiscono nulla: se io prenoto molto bene ma poi vendo molto male mi trovo in ogni casi nei guai. Quanto alle edizioni economiche, certo, è possibile, ma tenga conto che i diritti non vengono acquistati dall’editore senza limiti di tempo e con la possibilità di farne poi quello che vuole. I contratti sono molto dettagliati e limitativi, quindi costi per l’editore, oltre a quelli di stampa, distribuzione, ecc., ce ne sarebbero sempre. Inoltre, ma sempre parlando in termini generali, non creda che le edizioni economiche se la passino poi bene in questo periodo; anzi, in quel settore le vendite sono forse scese di più rispetto a quelle delle edizioni maggiori.

La risposta di Polillo ha parimenti sgombrato il campo da molte false verità, ed ha rivelato qualcosa che normalmente non si dice: che cioè i libri sono venduti ai librai che a loro volta li vendono a noi, che la prenotazione esiste e in qualche caso dei volumi di cui era già decisa la pubblicazione non sono stati più pubblicati (il riferimento d’obbligo penso fosse a Le Tre bare di Carr che era dato in pubblicazione molto tempo fa ne I Bassotti ma di cui poi non si seppe più nulla), e infine che le pubblicazioni editoriali economiche stanno vivendo un momento di crisi forse maggiore di quelle non economiche (non so se si riferisse ai Gialli Mondadori o ai SuperPocket Rizzoli, ma certo è che la rivelazione getta ombre sulle dichiarazioni ottimistiche per esempio rese da Forte recentemente in merito ai Gialli Mondadori.

Però io sapevo benissimo già da allora, che qualcosa si sarebbe mosso nell’ ambito editoriale legato ai Giornali; e quindi si poteva ragionevolmente presumere che l’esperienza maturatasi anni fa nell’ambito del Corriere della Sera, potesse essere replicata.

Se però andiamo a vedere in dettaglio le due serie, quella del 2013 e quella del 2016, possiamo riscontrare delle differenze.

La serie del 2013 constava di n.20 volumi:

- “La casa dei sette cadaveri” di Jefferson Farjeon
- “L’alibi di Scotland Yard” di Don Betteridge
- “Il caso dei cioccolatini avvelenati” di Anthony Berkeley
- “La scala a chiocciola” di Mary Roberts Rinehart
- “Occhiali neri” di John Dickson Carr
- “Niente orchidee per Miss Blandish” di James Hadley Chase
- “I fatali 5 minuti” di R. A. J. Walling
- “Il caso con nove soluzioni” di J. J. Connington
- “Una buona tazza di tè” di Christopher Bush
- “Signori della Corte…” di Edgar Lustgarten
- “Delitto ai grandi magazzini” di Cortland Fitzsimmons
- “Laura Vertigine” di Vera Caspary
- “Charlie Chan e la casa senza chiavi ” di Earl Derr Biggers
- “Morte in Provenza” di George Bellairs
- “Delitto a Harvard” di Timothy Fuller
- “I delitti di Hammersmith” di David Frome
- “Assassinio all’università” di Thomas Kyd
- “La morte di mia zia” di C. H. B. Kitchin
- “La sera della prima” di F. G. Parke
 - “Morte al telefono” di Elizabeth Day

e anche la serie di cui è appena iniziata la proposizione in edicola consta di n.20 volumi:

1. L’enigma dell’alfiere (The Bishop Murder case, 1928) di S.S.Van Dine [21 gennaio 2016] .

2.La signora scompare (The Lady Vanishes, 1936) di Ethel Lina White [28 gennaio 2016]                                                                                                    

3.L’uomo nella cuccetta n. 10 [Cornelia Van Gorder 1] (The Man in Lower Ten, 1906) di Mary Roberts Rinehart [4 febbraio 2016]

4. Assassinio nella brughiera (The Yorkshire Moorland Mystery, 1930) di J.S. Fletcher (Joseph Smith Fletcher) [11 febbraio 2016]

5. L’assassinio invisibile (Sealed-Room Murder, 1937) di Rupert Penny [18 febbraio 2016]

6. L’uomo con la mia faccia (The Man With My Face, 1948) di Samuel W. Taylor [25 febbraio 2016]

7. Svanito nel nulla (Into Thin Air, 1928) di Horatio Winslow e Leslie Quirk [3 marzo 2016]

8. La stessa sera alla stessa ora (The Chief Witness, 1940) di Herbert Adams [10 marzo 2016]

9. La casa degli strani ospiti (The House of Strange Guests, 1932) di Nicholas Brady [17 marzo 2016]

10. Mr. Pinkerton ha un indizio [Evan Pinkerton 8] (MrPinkerton has the Clue, 1936) di David Frome [24 marzo 2016]

11. Maschera bianca (White Face, 1931) di Edgar Wallace [31 marzo 2016]

12. Il delitto della portantina (Murder at the Pageant, 1930) di Victor L. Whitechurch [7 aprile 2016]

13. La formula del delitto (Murder by Formula, 1931) di J.H. Wallis [14 aprile 2016]

14. Il dardo piumato [Barone von Kaz 2] (The Feather Cloak Murders, 1936) di Darwin L. e Hildegarde T. Teilhet [21 aprile 2016]

15. Charlie Chan e il cammello nero [Charlie Chan 4] (The Black Camel, 1929) di Earl Derr Biggers [28 aprile 2016]

16. Morte in sala d’attesa (The Divorce Court Murder, 1934) di Milton Propper [5 maggio 2016]

17. Ipotesi per un delitto [Ispettore Charlton] (Let X be the Murderer, 1947) di Clifford Witting [12 maggio 2016]

18. Omicidio a capodanno [Ludovic Travers 5] (Dancing Death, 1931) di Christopher Bush [19 maggio 2016]

19. Non si uccide prima di Natale (Do Not Murder Before Christmas, 1949) di Jack Iams [26 maggio 2016]

20. Il mistero del villaggio [Francis McNab 3] (Murder on the Marsh, 1930) di John Ferguson [2 giugno 2016]

Innanzitutto la nuova serie comincia col botto. Infatti  L’Enigma dell’Alfiere di S.S. Van Dine a mio parere è il capolavoro assoluto dello scrittore e critico statunitense, ed uno dei romanzi più spacca-cervelli di tutta la storia del romanzo poliziesco, mentre, a parità di apripista, La Casa dei Sette Cadaveri di Farjeon che aprì la prima serie, era chiaramente un romanzo molto meno allettante.

Quindi questa serie si apre nel migliore dei modi. Va detto, per di più che, come si evince dai titoli riportati, anche tra gli altri romanzi vi sono dei titoli interessanti. Segnalo per esempio quelli di Rupert Penny e Horatio Winslow & Leslie Quirck perché eccellenti esempi di Camere Chiuse, anzi…dei veri classici! E più in generale i romanzi di Ferguson, Bush, Taylor (uscito nei Mondadori dei primi anni ’50 e mai più ristampato), Brady, Frome, Adams, Witting; meno allettanti secondo me quelli di Wallace, Rinehart,  Fletcher, White, ma pur sempre dei classici. Anche in questa serie, c’è un romanzo che a me non è piaciuto proprio, cioè Il Dardo Piumato di Darwin L. e Hildegarde T. Teilhet, di cui mi parlò molto male al tempo Luca Conti (“non comprarlo: era vecchio già quando fu scritto”), che un amico mi prestò, che ho letto, ricavando lo stesso giudizio di Luca. L’unica cosa simpatica di questo romanzo è che il suo protagonista sembrerebbe essere è un personaggio alla Fantozzi o alla Fracchia, avendo un nominativo piuttosto evocativo: Barone Von Kaz (!!!!!!!!!!!!).

Chiudo con una considerazione di fondo, alla luce dell’intervista con Polillo, che raccomando di leggere ( http://lamortesaleggere.myblog.it/2016/01/01/intervista-marco-polillo-patron-dellomonima-casa-editrice/  ).

E’ evidente che Marco Polillo ci tenga alla sua collana particolarmente, se ha deciso, alla luce della pur timida ripresa economica, di ritentare la sorte, ritornando in libreria, dopo che aveva sospeso le vendite un anno fa. E quindi anche, tutto ciò che ha a che fare con la stessa collana , gli sta a cuore. Quel che ho ricavato da quell’intervista è che Polillo è un uomo che fa le cose per passione: ogni libro che lui pubblica, non è un titolo scelto a caso, ma uno in cui lui crede, al di là di quella che possa essere effettivamente la recensione critica, positiva o negativa. Quindi anche una contrattazione di questo tipo, una concessione dei diritti di pubblicazione, seppure per un tempo limitato, ad altra casa editrice, dev’essere stata una scelta altamente ponderata, a cui ci si è piegati solo per far fronte ad una maggiore liquidità. Ora, da ogni parte si analizzi la questione, è evidente che in una collana di titoli, ci sono alcuni che l’editore originale molla con piacere ed altri che molla a malincuore: io se fossi Polillo non avrei mai ceduto tutoli dome il Parke, Ferguson, Bush, Penny, Winslow & Quirck, Betteridge, Witting, Walling, etc.. perché se non pietre miliari (anche beninteso), anche rarissimi romanzi; avrei ceduto altri, come i Biggers (già ristampati da altre case editrici), i Rinehart, White, Fletcher.

Da ciò il lettore deduce quello che voglio dire: immagino che ci siano titoli che l’editore ben vorrebbe mollare, perché ha visto che le vendite relative sono state non come lui avrebbe auspicato, e titoli che lui non vorrebbe mollare, ma che gli vengono richiesti. Quindi è evidente che se una collana siffatta non è al 100% eccellente, lo sarà al 70-80%.

Pietro De Palma

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E.L. Withers: Diabolico Intrigo (Diminishing Returns, 1960) – trad. Giuseppe Aloardi – I Romanzi del Corriere, 1961

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Nel 1961, ultimo anno di pubblicazione de I Romanzi del Corriere (evoluzione de Il Romanzo Mensile prima e de Il Romanzo per tutti dopo), venne pubblicato come terzultima uscita, Diabolico Intrigo, di E.L.Withers.

Chi era E.L. Withers innanzitutto?

Fu lo pseudonimo di George William Potter Jr., nato nel 1930 a St. Louis, Missouri. Laureatosi in Musica, fu amministratore delegato in alcune società, oltre che disegnatore acuto ed esperto d’arte. Dal 1960 al 1964 scrisse sei Mystery, di cui Diabolico Intrigo è la traduzione italiana del terzo Diminishing Returns, 1960. Gli altri furono nell’ordine: The House on the Beach, 1957; The Salazar Grant, 1959;; Heir Apparent, 1961; The Birthday, 1962; Royal Blood, 1964. Potter è morto sei anni fa a Kansas City. Lo pseudonimo che usò utilizzava nome e cognome della moglie.

Il romanzo potrebbe benissimo essere ripubblicato, magari per Mondadori, perché è un romanzo parecchio godibile e per nulla scontato.

Come tanti altri romanzi, basa la propria azione sull’odio che una persona riesce ad attrarre verso di sé da quanti lo attorniano in virtù della sua tirannia, della sua antipatia, del suo desiderio di comandare e disporre della vita degli altri: così John Byers che è il marito di Marie-Hélène e il padre di Janet, esce una sera con la moglie, la figlia, il fidanzato della figlia Larry Graham, e una coppia di amici, Ed e Kitty Stewart, per una serata di allegria, che si trasforma in tragedia quando, dopo la serata, malgrado la moglie di Ed si senta stonata e vorrebbe solo ritornare a casa, John  riesce tanto a fare e disfare, che mette nelle condizioni il fidanzato della figlia ad aprire le porte anche agli altri cinque, della casa dei Van Hornes, degli amici di famiglia che sono fuori città per un viaggio. Si vorrebbe bere un drink: cercano il whisky ma non lo trovano. E così, a malincuore, viene usata una bottiglia di gin, per dei cocktail, cui mettono mano praticamente tutti in cucina. Fatto sta che pochi minuti dopo aver ingerito gli intrugli, John viene scosso da conati di vomito e muore poco dopo mentre la moglie viene ricoverata in gravi condizioni e gli altri sono scossi da violenti crampi addominali. In sostanza, John è stato avvelenato con una elevata dose di arsenico, presente anche in altri bicchieri.

La cosa strana è che proprio John ha indotto Larry ad aprire la casa dei Van Hornes, dove è stato ucciso. E questa metodica, puntuale, comparirà anche negli altri omicidi. Ma prima che ciò si verifichi, il Tenente Tom Michaels, trovandosi in un ginepraio, decide di ricorrere all’acume di un grande avvocato ritiratosi dalla professione legale, il Signor Wetherby, che lo ha aiutato altre volte, disimpegnandosi a dovere. Oramai Wetherby, che ha superato la settantina, vive un’esistenza di riposo e proprio i casi che gli propone Michaels gli servono per non arrugginire del tutto.

Michaels non capisce chi possa essere stato dei cinque ad uccidere John: eppure tutti avevano validi motivi per farlo! Ed avrebbe potuto ucciderlo se avesse saputo per esempio della relazione tra John e la moglie prima del matrimonio e come in fondo sua moglie ne fosse innamorata; la moglie Kitty lo odiava perché continuava a farle una corte serrata solo per sedurla ma non perché la volesse sottrarre ad Ed; la figlia Janet era da lui tiranneggiata, come lo era la moglie Marie-Hélène; ed infine il fidanzato di Janet era sempre umiliato da lui. Quindi di motivi ce n’erano a iosa. Purtroppo però, dagli interrogatori non era riuscito a desumere chi potesse essere stato, perché nella cucina dove erano stati preparati i cocktail tutti, chi più chi meno, avevano trafficato coi liquori. E quindi..

Larry convince gli altri quattro ad andare a fare una nuotata, in un pomeriggio afoso: e mentre stanno là, Janet e Marie-Hélène sulla barca e Ed e Larry sono in acqua, si scatena un temporale e dei fulmini arrivano a poco distanza dalla barca. E in quel mente accade l’impossibile: un fulmine centra un albero su una delle rive, che cade sull’acqua travolgendo Larry, che scompare tra i flutti dopo che aveva poco tempo prima rivelato a Janet che pensava di capire chi potesse essere stato ad uccidere John. Che ha lasciato soldi alla moglie, alla figlia e al socio.

I tre sono terrorizzati e bagnati fradici per cui si riparano nella villa di Ed e Kitty.

Scocciato dal fatto che nessuno si scopra, Michaels decide di portare tutti al posto di Polizia: Kitty non vuole andarvi nelle macchine della polizia, quasi fossero dei criminali, e in una notte di pioggia, propone al tenente di andarvi in auto: loro davanti ed il tenente in altra auto dietro. Ma qual è il colpo di scena, quando davanti ai suoi occhi, la macchina dei sospettabili slitta sull’asfalto andando a urtare una colonna dell’ingresso nel parco della loro villa, e quando Michaels li soccorre, si accorge che Kitty è morta per la frattura delle vertebre del collo.

Ora ci sono tre morti. E anche se, come nel caso di Larry, ci potrebbe essere l’ombra dell’incidente, Tom sa che è stato un altro omicidio: vicino a Kitty, Ed guidava, ma proprio Ed è sotto shock, mentre i due passeggeri seduti sui sedili posteriori cioè Marie-Hélène e Janet, sono rotolate per terra, dicono. Anche qui non riesce a capire chi possa essere stato anche se Ed è il più sospettabile.

Tom a questo punto decide di far stare i sospettabili insieme anche se Wetherby lo ha supplicato di tenerli lontani, e così Marie-Hélène chiede che possano andare a casa sua. E qui, mentre Ed è al piano di sotto insieme al tenente e a Janet, al piano di sopra si sviluppa un incendio, laddove si trova Marie-Hélène. E proprio lei non riesce a venirne fuori nonostante Ed e Janet si siano prodigati per spegnere le fiamme: uno scheletro carbonizzato viene trovato in quello che era il bagno quando i presenti riescono ad avere ragione delle fiamme assieme ai pompieri.

Anche qui il sospetto dell’omicidio è presente, ma potrebbe ancora essersi trattato di un incidente.

Mancano due all’appello, e quindi Tom sa che deve trattarsi o di Ed o di Janet. E Wetherby gli chiede di poterli alloggiare a casa sua, dove ha la situazione dei luoghi sotto controllo. Ma ancora una volta la morte arriva: mentre Wetherby è nell’altra stanza, e nella sala che da sul balcone sono soli Janet ed Ed, mentre Janet ha in mano il vassoio dei cocktails, Ed si butta dal balcone al diciassettesimo piano, venendo trovato diciassette piani sotto ridotto ad una frittata.

Verrebbe da dire che sia stata Janet, ma il fatto che sul vassoio non si trovi neanche una goccia di liquore sta a significare che Janet è rimasta col vassoio in mano senza far cadere nulla, e quindi non può averlo posato, aver spinto Ed fuori dal balcone ed esser ritornata a prendere il vassoio in un tempo brevissimo senza aver fatto cadere neanche una goccia dei cocktails.

Insomma parrebbe che Ed si sia suicidato, sempre che Janet non sia l’assassina e non sia riuscita a gabbare Wetherby.

Ma a questo punto accade l’impossibile. Mentre Janet è affacciata a vedere, vede qualcuno su un balcone vicino e gli pare di vedere Larry. Ma non era morto? Lui scompare e lei a quel punto gli corre dietro.

Wetherby e Tom riescono a capire dove sia andata lei inseguendo Larry, sempre che sia lui.

Finale scoppiettante per nulla scontato, in cui Wetherby riuscirà a fermare l’assassino prima che uccida ancora, anche se non voleva uccidere più.

Bellissimo romanzo, ha una struttura interessantissima: innanzitutto, come anticipato, quasi tutte le morti si verificano allorchè la vittima decide il luogo dove poi morirà; inoltre la storia ha una struttura fatta di continui flashback e di una tensione palpabile: infatti le morti si rincorrono a poca distanza di tempo le une dalle altre. E proprio per alzare la tensione, Potter fa seguire all’una l’altra, come un rosario di morte. E poi quando essa capita ad uno dei rimanenti, ecco che il successivo capitolo riprende il discorso da prima che accadesse il delitto o la morte accidentale, spiegando i passi e le ipotesi di Wetherby e Michaels, creando un raro romanzo che è sia thriller che mystery, che ha movenze accelerate quando la morte arriva, e lente quando il detective vero e quello improvvisato tentano di decriptare il piano dell’omicida.

La chiave ancora una volta è chiedersi la formula latina. Cui Prodest? Quando si è capito o almeno ipotizzato, tutto dovrebbe diventare più semplice, a meno di non essere imbrogliati come in un gioco di prestigio.

Il ritorno di un soggetto ritenuto morto, è una prassi da tanti altri applicata (da Agatha Christie a Josephine Tey, a tanti altri), ma qui non è solo applicata, ma variata genialmente.

L’unico difetto del romanzo è una pecca dovuta alla poca familiarità dello scrittore con l’arsenico: sarebbe bastato che avesse fatto usare altro veleno e la cosa sarebbe sembrata maggiormente plausibile. Perché l’arsenico non può uccidere in un colpo come il cianuro: con la dose più massiccia, uccide almeno in tre giorni.

Evidentemente non aveva mai letto Agatha Christie o Anthony Berkeley.

Pietro De Palma

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Lettera a Franco Forte su Paul Halter e Paul Doherty, e risposta

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(Lettera inviata il 19 gennaio u.s.)

Esimio Editor,
Lei sa benissimo che prima di collaborare (come faccio da molti anni) col Blog del Giallo Mondadori, ero già collaboratore di Luigi (Pachì) presso Sherlock Magazine.Tra l’altro un mio racconto lungo, un apocrifo sherlockiano, fa parte di quell’antologia S.H. in Italia che uscì come strenna natalizia due anni fa in Delos e verrà ripubblicata a dicembre prossimo da Mondadori.
Mi rivolgo a Lei, sulla base di quanto da Lei affermato nell’editoriale pubblicato sul Blog il 13 gennaio scorso.
Desidero infatti sapere se e quando verranno pubblicati altri romanzi di Paul Halter e Paul Doherty, che fino a qualche anno fa erano molto pubblicati e ora lo sono molto meno, a fronte del fatto che ad oggi di inediti complessivi rimangono circa venti di Halter e molti di più di Doherty. Inoltre rappresento qui la delusione di molti aficionados che da qualche giorno mi stanno telefonando, mandando messaggi whattsappp, scrivendo, chiedendomi ragguagli sul perchè Paul Halter improvvisamente, dopo essere stato scrittore di punta quasi, sia stato accantonato. Tanto più perchè io stesso avevo dato notizia, sulla base di quanto Paul stesso mi aveva detto a latere di una intervista che gli avevo fatto e che fu anche pubblicata in Italiano sul Blog Mondadori, che sarebbero stati pubblicati successivamente rispetto a quel tempo (ma son passati già due anni e mezzo, e per un altro non ve n’è traccia) due romanzi suoi, di cui a lui risultava che la Mondadori avesse acquisito i diritti, cioè Meurtre dans un manoir anglais del 1998, e L’homme qui aimait les nuages, del 1999.

Stessa cosa chiedo in merito alla pubblicazione di romanzi di Doherty pubblicato con i suoi pseudonimi (Harding e Grace): se è vero che la serie pubblicata con pseudonimo Grace è ferma all’ultimo romanzo pubblicato da Mondadori, quella di Fratello Athelstan che è molto famosa è cresciuta di cinque romanzi e quella di Corbett di cui la Mondadori ha pubblicato un romanzo 5 anni fa, conta 17 romanzi ad oggi, di cui i primi 4 pubblicati da Hobby & Work e gli altri inediti, quindi un potenziale pubblicabile notevole, senza parlare di tutte le altre serie. Doherty per di più coniuga delitti impossibili e giallo storico, anzi dei giallisti storici lui è il più famoso in assoluto….

Grazie dell’attenzione.

Pietro De Palma – Bari

P.S.
Immagino benissimo Dott. Forte quello che Lei potrebbe dirmi: la riduzione del 50% delle uscite mensili ha determinato il fatto che le uscite previste già nel 2016 vengano spalmate anche per tutto il 2017: allora l’Halter potrebbe essere pubblicato in quell’anno! Desidero solo sapere se questo avverrà almeno con i due romanzi di cui lui aveva annunciato la pubblicazione da parte Vostra, oppure no. Nel qual caso annuncerò ai gruppi anche di Anobii di comprarli in francese o in Inglese quando saranno tradotti da John (Pugmire).

Risposta di Franco Forte in data 22 gennaio

Si è già risposto da solo: Halter è solo “scivolato” in avanti e tornerà a
uscire regolarmente appena la situazione si sarà “normalizzata”. Come lui,
tanti, tantissimi altri autori, che tanti, tantissimi lettori come lei,
invocano a gran voce. Come sempre, accontentare tutti è impossibile, e
dunque si procede cercando almeno di restare in equilibrio sul filo.
Saluti.

Franco Forte

Che dire?

Chi come me ha letto tutti i romanzi di Paul, deve o aspettare oppure procurarseli in francese oppure aspettare che John Pugmire un altro mio amico, li traduca in inglese .

Chi invece non li ha letti tutti, avrà modo di mettersi a caccia e cercare di procurarsi i restanti. Del resto aspetteremo sicuramente un altro anno, se non di più.

 Pietro De Palma

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John Dickson Carr: Mani invisibili (King Arthur’s Chair, 1957) -Gli Speciali del Giallo Mondadori, n.52, 2007

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Questo articolo essendo stato approntato su un racconto, ne rivela il meccanismo investigativo e deduttivo: perciò chi non avesse ancora letto il racconto, eviti di leggere i righi seguenti…per il momento

Pubblicato per la prima volta nell’Agosto del 1957, nella rivista Lilliput, a firma Carter Dickson (pur avendo come personaggio principale Gideon Fell), il racconto King Arthur’s Chair, ebbe anche un altro titolo : Death by Invisible Hands, utilizzato per l’edizione americana. Apparve infatti sull’ Ellery Queen Mystery Magazine dell’Aprile 1958, e la stessa illustrazione per la copertina vi fu improntata.

E’ uno straordinario racconto “dark”, in cui il tema del doppio fa capolino ovunque, pieno di simboli e significati metaforici, connessi con alcuni dei “sette peccati capitali”, un racconto che amo particolarmente. Oltretutto, il lavoro è una delle tante variazioni di Carr sulla Camera Chiusa, ed in particolare sulla variazione della spiaggia: un delitto viene commesso su una spiaggia, senza che vi siano le impronte dell’assassino, ma solo quelle della vittima. Carr scrisse altre opere utilizzando questa sottospecie di ambientazione: ricordiamo per esempio una delle sue opere maggiori, e ancor oggi poco conosciuta che è The Witch of the Low Tide, “Un Colpo di pistola”, romanzo di poco successivo (1961) al periodo del racconto.

Qui il problema è particolarmente complesso, ma la soluzione che viene proposta è straordinaria: direi che è uno dei migliori racconti di Carr, proprio per la soluzione ineccepibile, ma anche per la struttura del racconto, quantomai interessante.

Innanzitutto la storia.

Dan Fraser, è innamorato di Brenda Ray. Lei gli ha dato appuntamento alla sua villa sul mare, dove abita assieme alla cugina povera, Joyce Ray. E’ però un tempo pessimo per vedersi. E’ una sera calda, quella in cui lui la rivedrà. Calda e afosa. Le nubi gravano e ogni tanto un fulmine squarcia l’oscurità, illuminando la notte ed il mare. Dan deve affrontare una discesa per nulla agevole con la sua auto, prima di arrivare alla casa. Tuttavia, stranamente la trova al buio.

E’ una casa ricca di decorazioni, com’è nella natura di Brenda, che lei chiama “la casa del re”. Ma, diversamente da come Dan si aspetterebbe, è immersa nel buio: il buio della notte ed il buio causato dalle luci che le finestre dovrebbero irradiare tutt’attorno, che invece non vede. Lasciata l’auto, si accorge che le tende sono tirate del tutto. L’atmosfera, gravida di elettricità (i fulmini) e oscuri presentimenti, convince Dan che c’è qualcosa che non va. La villa sembra disabitata. Sembra, perché quando lui si affretta in direzione della porta d’entrata, si accorge che è chiusa, ma non a chiave, e quando la apre, si vede inondato dalla luce, che si spande dall’interno.

Neanche il tempo per riflettere ed una porta si apre: una figura femminile si staglia. Non è Brenda, ma sua cugina Joyce. I loro sguardi si incrociano. E’ come se dialogassero, come se confessassero l’un l’altro i propri desideri più segreti, è come se parlassero una lingua che mai fino a quel momento avevano scandito. Fatto sta che capiscono, in un solo istante che si sono sempre amati. O meglio, Dan capisce che l’ha sempre amata, e che quella per Brenda era solo un’infatuazione, Joyce, l’ha sempre saputo. Dan si aspetterebbe di trovare Brenda. Vorrebbe a questo punto incontrarla, ma non per passare con lei una notte infuocata, quanto, per una sorta di correttezza morale, confessarle che ha capito di non amarla e che invece ama la cugina povera. Ma Brenda non c’è. Perché è morta. L’hanno trovata la mattina. Ora la casa è illuminata, perché tutti sono andati via da poco: il cadavere, il medico legale, la polizia, l’ispettore Tregellis, il grande detective amico della Polizia, Gideon Fell.

La situazione è cambiata: ora Joyce non è più povera, ma ricca. E soprattutto ora Dan è libero di amarla; e non devono neanche rendere conto a Brenda, lui e Joyce. Tuttavia Dan pensa che Brenda sia morta, affogata, dopo una nuotata.

No – disse Joyce. – E’ stata strangolata.

Strangolata?” (John Dickson Carr : King Arthur’s Chair (1956) – “Mani Invisibili” – Trad. Mauro Boncompagni – Gli Speciali del Giallo, N. 52 del 2007, Mondadori, pag. 429).

Strangolata, significa assassinata, non più solamente morta. Se qualche minuto prima la situazione per Dan e Brenda pareva essersi miracolosamente risolta, ora essa ritorna intricata, molto più di quanto si potrebbe pensare. Assassinata significa uccisa da un assassino. E la polizia su chi concentrerà la propria attenzione? Su chi quella mattina avrebbe potuto avere l’occasione (e allora avrebbe vagliato gli alibi) ma anche le ragioni di farlo (il movente). E doveva essere un movente valido per uccidere.

Nella villa oltre che Joyce, e naturalmente Brenda, sono presenti altri due soggetti, amici delle due cugine: Toby Curtis e Edmund Ireton. Ma chi quella mattina avrebbe avuto l’occasione e un motivo più che valido per uccidere, sarebbe stata proprio Joyce: l’invidia del patrimonio, e la gelosia nei confronti della sorella, per Dan.. Due moventi più che validi per assassinare. Ecco perché Joyce cerca di far comprendere a Dan che la dichiarazione d’amore avrebbe dovuto fargliela tempo prima, ma non in quel momento. Perché fornirebbe alla polizia immediatamente la certezza che la cugina povera, cioè lei, abbia avuto a che fare nell’eliminazione fisica della cugina ricca.

– Qualsiasi cosa dovessi dirmi,o pensassi di dovermi dire…

– Su.. di noi ?

– Su tutto! Ti rendi conto che devi dimenticarla e non accennarne mai più? Mai più!” (op. cit. pag. 431).

Però, c’è un problema cui la polizia sta dedicando la sua attenzione, pare. Che concerne il modus agendi dell’assassino. E’ noto che Brenda, quando si recava a nuotare, portava una sciarpa annodata al collo ed un copricostume, sopra il costume da bagno; poi il copricostume e la sciarpa li abbandonava su The King Arthur’s Chair, sul “Trono di Re Artù”, uno scoglio a forma di sedia che era vicino al mare: si sedeva, fumava e poi andava a fare il bagno. Tuttavia non si riesce a capire come l’assassino abbia potuto strangolare Brenda: se l’assassino l’avesse strangolata alle sue spalle, lei poi sarebbe caduta faccia in avanti. Ma così non è: Brenda è stata trovata nella sabbia. E del resto nessuno può averla affrontata, dalla parte del mare, emergendo dall’acqua, perché sulla sabbia del bagnasciuga, si sarebbero dovute ritrovare delle orme, che invece non ci sono. E che Brenda sia stata strangolata, lo prova la sciarpa che aveva intorno al collo oltre al copricostume: mentre il primo è stato abbandonato, la seconda è penetrata così a fondo nella pelle, che quelli della polizia non sono riusciti a rimuoverla.

Oltre a questo, c’è il problema della individuazione del possibile colpevole: nessuno avrebbe potuto ucciderla. Ireton, era appena arrivato; Curtis stava facendo del tiro a segno con un fucile cal. 22 sul retro della casa; e la stessa Joyce, per sua stessa ammissione, era in casa. Tutti e tre sono usciti e l’hanno vista: e nello spazio di sei metri sulla sabbia, non c’erano orme.

Detto così, il problema è insolubile. La polizia brancola nel buio, anzi è meglio dire, brancolerebbe se…non ci fosse Gideon Fell, casualmente in vacanza da quelle parti, in Cornovaglia, e arrivato accompagnato dalla polizia.

Gideon Fell ragiona e suppone quello che sarebbe potuto accadere. Innanzitutto elimina il problema delle orme: se non ci sono, significa che non ci sono mai state. Quindi l’assassino o l’assassina (nel caso sia stata Joyce, o una delle due cameriere, che però non avrebbero avuto alcun motivo ad uccidere chi forniva loro un lavoro) non ha mai percorso il tratto di sabbia. E allora? Come ha potuto materialmente strangolarla? Volando?

No. Non si è mai mosso materialmente dalla casa.

Questa è la soluzione sorprendente di Carr: l’omicida non ha lasciato orme, perché non ha ucciso la vittima strangolandola, ma usando qualcosa che simulasse lo strangolamento, e fosse anche estremamente rapido.

Partendo da questo presupposto, Fell ricostruisce, interrogando i presenti, le loro mosse.

E individua l’omicida. Inchiodandolo alle proprie responsabilità.

Ma prima che ciò possa accadere, a dare la misura del dramma è un altro personaggio, quasi un altro detective. Mentre Fell è il detective che vede la natura materiale del peccato, Ireton qui è il detective che ne mette in rilievo la natura spirituale. Ireton è la coscienza, la voce di Carr.

– Il salmista ci dice – attaccò seriamente – che tutto è vanità. Qualcuno di voi ha mai notato..e che Dio mi perdoni se lo dico..che il tratto più sorprendente di Brenda era la sua vanità?…

Una vanità spaventosa. Se qualcuno avesse tentato di grattare quella vanità abbastanza in profondo, la nostra cara Brenda avrebbe commesso un omicidio.

Non è che sta considerando la situazione a rovescio? – chiese Dan. – Brenda non ha commesso nessun omicidio. Anzi, è stata Brenda…

Ah! – esclamò il signor Ireton. – E in questo ci potrebbe essere una lezione, non crede?

Senta, non vorrà mica dire che si è strangolata da sola con la sua stessa sciarpa, eh?

No, ma mi ascolti bene. La nostra Brenda, indubbiamente, aveva molte passioni e molte fantasie. Ma c’era solo un uomo che lei amava e voleva sposare. E non era il signor Dan Fraser.

Allora chi era? – chiese Toby.

Lei.

Lo stupore di Toby era troppo genuino per essere stato simulato…

Che il cielo mi aiuti! – disse – ma io non lo sapevo! Non mi sarei mai immaginato…” (op. cit. pag. 432). Più in là in un dialogo innocente, parlando di una persona, individua l’arma dell’omicidio, senza che se ne sia ancora fatta menzione (op. cit. pag. 434). Ma lo fa senza coscienza, quasi che parlasse non per sua volontà, ma che fosse espressione della volontà divina. E’ come la Sibilla che parla non per volontà propria ma del dio che la possiede, descrivendo esattamente quello che è avvenuto.

Sarebbe potuta essere una commedia degli equivoci, se non fosse finita in dramma: lei ama lui, lui ama lei ma non sa di essere amato, anzi pensa che lei ami un altro, che è innamorato di lei a parole, ma in realtà ama un’altra. E poi c’è un assassino che strangola non avvicinandosi, ma usando uno strumento fantomatico. Insomma, un gran casino. Ma se vediamo bene, casino proprio non è, appare semmai.

Il racconto, a parere mio, più che un “giallo” è un “nero”, un racconto che se non sapessimo essere della seconda metà degli anni ’50, si sarebbe tentati dal ritenerlo un’opera scritta nei primi anni ’30, magari sotto l’influsso di Bencolin. E’ un manifesto etico, pieno di significati simbolici, quasi una condanna dell’eccessivo fasto, del il trionfo dell’apparenza, del narcisismo: in altre parole una condanna della Vanità.

Questa sorta di manifesto metaforico, io direi si strutturi su almeno “quattro piani mistificatori”: la mistificazione è presente in varie espressioni, che vanno dalla personalità dell’assassino e dell’assassinata, a quelle degli altri attori del dramma, alle stesse manifestazioni poste in essere, tra cui il piano omicida.

Il primo potrebbe essere la mistificazione dei sentimenti: Brenda ama Toby, così come Toby ama Brenda. Ma entrambi sono permalosi e vanitosi: nessuno dei due vuole abbassare la testa per confessare di essere innamorato dell’altro, e quindi simulano indifferenza, quando non arrivano a punzecchiarsi vicendevolmente. E così facendo entrambi ignorano di essere amati, l’uno dall’altro. E’ un amore che non si dona, ma che si nutre di se stesso e quindi destinato a contorcersi. Per es. Toby non sa di essere amato, ma a sua volta la ama, disperatamente struggendosi per l’amore che ella dimostra per Dan. A sua volta, Dan, credendo di aver fatto colpo su una donna bellissima, si convince di esserne innamorato, mentre è solo veramente innamorato di Joyce, il cui amore lui trasferisce su Brenda. E nel mentre, Joyce lo ama.

Il secondo piano mistificatorio è attinente alla psicologia dell’omicida: egli spiega agli astanti, sostituendosi al detective di turno, come l’assassino non possa essersi avvicinato alla vittima: né dal mare, “perché il punto più elevato dell’alta marea, dove l’acqua avrebbe potuto cancellare le orme, si trova a più di sei metri davanti alla sedia”; né alle spalle, perché “dal lastricato della terrazza alla parte posteriore della sedia ci sono almeno sei metri”; né spiccando un salto, perché “un campione olimpico in buona forma forse ci sarebbe riuscito, se avesse avuto un punto per prendere la rincorsa ed un punto per atterrare. Ma le cose non stavano così. Non c’era nessun segno sulla sabbia” (op. cit. pagg. 434.435). E così facendo dimostra come l’assassinio non possa essere spiegato: senza arma, e senza la possibilità di dimostrare l’assassinio, il caso non può che essere archiviato. Ma a questo punto appare il deus ex machina, che fino a quel momento non è stato presente, Gideon Fell, che risolve l’enigma.

Il terzo piano, riguarda lo strumento utilizzato come arma per uccidere.

Di per sé non è un’arma: lo diventa solo se viene utilizzata in un certo modo. Ed è stato proprio il modo di usare lo strumento a causare la situazione impossibile.

Del resto quest’arma produce un suono caratteristico che può essere facilmente confuso con un altro. E la mistificazione riguarda appunto l’uso di questi due strumenti in maniera tale che l’uso di uno mistifichi l’uso dell’altro.

Il quarto ed ultimo piano, concerne la mistificazione dei sospetti che possono essere solo Joyce Ray, poi Edmund Ireton, infine Toby Curtis.

Joyce è la prima ad essere sospettata per la ricchezza acquisita in seguito alla morte della cugina. Poi c’è Edmund Ireton ( che a suo dire vuole proteggere Joyce): egli ha consigliato Dan di non far parola a nessuno del sentimento reciproco che hanno scoperto di sentire vicendevolmente, pena la possibile accusa di omicidio rivolta a Joyce. Tuttavia l’amico Toby Curtis (strano che si chiami come Tony Curtis che megli anni ’50 fu famosissimo come attore!) gli rinfaccia di aver usato un modo di fare, diretto a far accusare direttamente Joyce invece di proteggerla: perchè invece di ammonire in separata sede Dan a non dire in giro che era innamorato di lei e lei di lui, gliel’ha gridato in maniera tale che tutti nella casa ne fossero, volenti o nolenti, a conoscenza? In realtà non vi è un sospetto, ma due. Anzi tre, perché Fell comincerà a parlare del fucile. Già perché è il fucile cal. 22 l’arma usata per mistificare il suono dello strumento usato invece per uccidere Brenda. Chi possedeva il fucile e si era esercitato per la mattinata? Toby. Quindi anche lui è sospettato. Anche se qualcun altro potrebbe averlo usato in sua assenza.

Il racconto può avere però anche un’altra lettura: accanto ai quattro piani su cui si struttura la storia, io in questo racconto, vedo molte manifestazioni del doppio: alcune possono essere casuali, altre no, e comunque i doppi connessi alla personalità dell’omicida, della vittima, dell’arma, e di alcune situazioni del racconto, fanno riferimento ad un oggetto presente a profusione nella casa. E l’individuazione della natura doppia di tanti oggetti, situazioni, soggetti, usati simbolicamente, è da mettere a parer mio in riferimento alla “morale” del racconto. Mi spiego.

Innanzitutto doppia è l’atmosfera che accoglie Dan : il buio che avvolge la casa sulla spiaggia, il lampo che squarcia l’oscurità e illumina fugacemente la scena del delitto, mentre dentro tutto è illuminato, può essere una metafora: il buio dell’indagine viene squarciato da qualche supposizione che qua e là comincia a diradare le tenebre, fino ad arrivare alla luce della soluzione. Ma è anche il buio, le tenebre (il male) contrapposto alla luce (il bene). Fuori della casa il male ha portato ad un omicidio, ma sarà nella casa che Fell svelerà il movente e come sia stata uccisa Brenda. E da chi.

Doppia è la natura dei sentimenti delle persone che vivono in quella casa: carnefice e vittima, si contrappongono e si confondono, tanto che alla fine l’assassino non si dimostrerà che la vittima di Brenda, quando non di se stesso. Ma doppie sono anche le personalità di chi si muove: Ireton è colpevole o innocente? Amico o nemico? Toby è innocente o colpevole? Giudice o reo? Dan è davvero estraneo alla vicenda o vi è coinvolto? Joyce è davvero innocente o è un’assassina astuta?

Doppia è la possibilità di come l’omicidio sia stato perpetrato: l’assassino era davanti oppure dietro la vittima?

Doppia è la natura dell’amato e dell’amante, di chi ama e di chi viene amato.

Ma doppio è anche il significato dell’uso di un’arma, che non è solo quello che appare ma anche altro: un fucile, cal. 22, con cui Toby faceva il tirassegno. Il fucile ha una natura doppia: spara ma anche mistifica il rumore che produce, cosicché si pensi che anche quando si sente un certo rumore esso venga associato allo sparo mentre non lo è.

Due sono le cameriere presenti in casa.

Due sono le cugine: una povera, l’altra ricca.

La presenza di due cugine, una povera, una ricca, tra l’altro mi da modo di evidenziare una curiosità: nel 1940, di Norah Lofts (pseudonimo, Peter Curtis) fu pubblicato il primo di quattro romanzi, Dead March in Three Keys (che con il titolo “Marcia Mortale in Tre Tempi”, fu pubblicato nel 1950, in Italia, dalla Casa Editrice Aldo Martello, nella serie “I Gialli del Veliero”). Si tratta di un bel romanzo, che potrebbe essere proposto ancor oggi, un thriller, in cui il lettore vede pianificato un omicidio per interesse. Gli attori di questo dramma sono tre: due cugine, Antonia ed Eloisa, la prima povera ma molto estroversa con gli uomini, la seconda ricchissima ma estremamente chiusa; e Riccardo, l’amante di Antonia, povero anche lui, che per calcolo sposa Eloisa, tradendola di continuo con Antonia, finchè…

A me interessa sottolineare solo come Carr potesse aver letto il romanzo, che ottenne un robusto successo nei primi anni ‘40, e avesse potuto trarre l’idea di due cugine di censo completamente diverso, che contendono l’amore ad un uomo, che anche qui è veramente innamorato della povera e solo apparentemente della ricca. Però qui la situazione è opposta: quella estroversa è quella ricca, e timida è invece la povera, che però avrebbe comunque le ragioni per uccidere, ma che invece, in ragione proprio della propria umiltà, non sembrerebbe vi pensi affatto.

Due ancora sono i carnefici e le vittime di questo racconto: sempre loro, Brenda e l’omicida. Nel mentre Brenda ne è la vittima, dell’assassino è anche il carnefice, perché è lei che lo ha spinto ad ucciderla.

E cosa è ancora doppia? La vanità : la vanità di Brenda e la vanità di Toby. Ma anche la La Vanità che non ha consentito loro di essere felici. Del resto si potrebbe pensare sin dall’inizio che gli unici soggetti vanitosi in questo piccolo dramma siano Brenda e Toby. In realtà, anche Ireton potrebbe essere vanitoso. E’ rappresentato vestito in maniera ricercata, da snob. Con sul viso l’espressione bonaria di un satiro, quando non beffarda. Dice di essere stato uno zio putativo di entrambe le cugine: ma che era in realtà? Era solo un amico discreto o amava qualcuna delle due?

E sicuramente lo è Dan. Ma la vanità di Dan non è quella di Brenda: Dan crede di essere affascinante, non perché egli ci creda in fondo, ma perché la stessa Brenda gliel’ha fatto credere, irretendolo. La vanità di Brenda è diversa: ella crede davvero di essere affascinante e superiore agli altri. E’ la Femme Fatal, e come tutte le femmine fatali ha un destino amaro. Nel MedioEvo la sua vanità, che è anche superbia, sarebbe stata condannata senza appello, e lei probabilmente sarebbe stata punita duramente. Perché la Vanità (assieme alla Superbia) era connessa col Male. Vanitas Vanitatum. Uno dei sette peccati capitali.

E’ la vanità il movente dell’assassinio, uno strano movente, in verità. Non c’è odio, avarizia o cupidigia, ma vanità. Che è prodotta dall’eccessivo narcisismo, dall’eccessivo innamoramento di se stesso, della protezione della propria più intima natura, che non dev’essere per nulla svelata, perché da ciò vi sarebbe un indebolimento della propria personalità. Per una volta tanto, vediamo come l’assassinio non sia il prodotto dell’odio, ma dell’amore, anche se non rivolto ad altri ma a se stessi. Anche l’amore qui è doppio: amore di se stesso, ma anche amore dell’altro. Se non ci fosse stato l’amore verso un altro, non si avrebbe avuto paura di essere deriso e messo a nudo. Narcisismo, e Vanità. L’opposto dell’umiltà, che sembrerebbe essere il connotato di Joyce, invece.

L’assassino è quindi un debole, che, deriso per la propria debolezza, cioè dell’amore che prova, uccide. Se fosse stato forte, non avrebbe avuto paura della propria debolezza. Lui però non lo è. Deve simulare all’esterno di non essere debole, ma lo è, e proprio questa sua doppiezza nell’animo è la causa del suo reato, del peccato mortale.

L’apparenza che è commessa alla vanità, al bello, a ciò che si vede, è già messa in evidenza

all’inizio del racconto quando si dice che la casa sul mare veniva chiamata “la casa del re”, per via di tutte le decorazioni che Brenda aveva voluto che l’abbellissero, esternamente e internamente.

Ma l’apparenza e la vanità sono rappresentate da un oggetto, che si trova all’interno della casa, di cui, come abbiamo detto prima, vi è profusione, e che ha un forte valore simbolico: lo specchio.

Brenda era vanitosa, ed in quanto innamorata di se stessa, aveva bisogno dello specchio. Degli specchi. Che erano numerosi in casa.

Ed è in ragione dello specchio che il racconto, talora, è così costruito sui doppi.

Il doppio è da mettere in diretta relazione con lo specchio: lo specchio infatti riflette una visione, creando il suo doppio. I due doppi, solo apparentemente sembrerebbero essere uguali, mentre sono antitetici, vicendevolmente. Il doppio è l’opposto, l’anima nascosta, la parte nascosta di noi. Anticamente si pensava che gli specchi, duplicando la realtà, avrebbero potuto imprigionare l’anima nell’immagine riflessa dallo specchio. Ecco perché alcuni coprivano gli specchi alla morte di qualcuno per permettergli di raggiungere l’oltretomba.

Ma lo specchio genera un’immagine di sé, permette di vedere la propria bellezza. Che può essere positiva o negativa. Quando è negativa, è legata al narcisismo e all’attaccamento dei beni terreni. Come tale, questa visione della vita, e quindi di se stessi, rimanda al Male, e ai due peccati capitali cui si ricollega: Vanità e Superbia. Tanto che nella Firenze del 1497, con il Rogo delle Vanità, durante il Martedì Grasso, i seguaci di Girolamo Savonarola bruciarono gli specchi.

Ecco allora già due simboli chiave del racconto: lo specchio ed il doppio che viene generato da esso e in esso.

Ma c’è un altro simbolo: è l’arma usata per uccidere.

“ – Il vero strumento? E quale sarebbe questo rumore?

Lo schiocco di una frusta di pelle di serpente – rispose il dottor Fell”( op. cit. pag. 441).

Non è il fucile, che è servito solo a distogliere l’attenzione, illudendo i presenti che il rumore sentito fosse uno sparo, mentre invece era il rumore di una frusta. Ma è una frusta di pelle di serpente. Una frusta da mandriano. Che usata abilmente è stata avvolta al collo di Brenda, mentre era ancora seduta sul Trono di Re Artù con il collo avvolto da una sciarpa. Del resto la sciarpa era essenziale alla messinscena: se non ci fosse stata, si sarebbe visto sul collo il segno della frusta. Appoggiata alla curva della roccia dietro il sedile, la frusta, tirata verso l’omicida, l’aveva soffocata in pochi secondi. Poi, dovendo svolgerla dal collo, l’omicida aveva dovuto dare uno scatto verso l’alto, che aveva sollevato Brenda e l’aveva lasciato cadere nella sabbia, creando la situazione impossibile.

Il terzo simbolo non è però la frusta in sé, ma il materiale di cui è fatta: la pelle di serpente.

Non è stato il serpente, il male, Satana sotto mentite spoglie, a suggerire alla donna che era nuda? Eva molto spesso è ritratta col pomo, ma anche con lo specchio: superbia e vanità, sono spesso associati. Come in questo caso, perché vittima e carnefice sono espressione di debolezza: superbi e vanitosi.

Nell’ultima scena, tutti e tre i simboli sono presenti.

Fell inchioda l’assassino, che è ritratto mentre si specchia, e man mano che indietreggia si trova con le spalle vicino ad un altro specchio. E gli specchi sono dovunque:

L’Ispettore Tregellis era riflesso dappertutto negli specchi, con la lunga frusta arrotolata sopra il braccio” (op. cit. pag 444);

lo specchio è come se ci rimandasse la faccia non evidente dell’assassino, quella che Fell mette in luce, la sua anima votata al male, il suo doppio:

Guardatelo, tutti quanti! – disse il dottor Fell. – Persino quando viene accusato di omicidio, non riesce a togliere lo sguardo da uno specchio” (op. cit. pag. 443);

a conclusione dell’arringa di Fell, arriva l’Ispettore Tregellis che brandisce la frusta.

Ma più che una frusta sembrava che stesse portando una corda..la corda del capestro” (op. cit. pag. 444).

La frusta che è formata da pelle di serpente.

In sostanza l’assassino è inchiodato alle sue responsabilità, ed è come se il serpente, il male del peccato originale, che aveva instillato nell’uomo la superbia e la vanità, ora reclamasse il suo prezzo: la morte e la dannazione, per chi lo ha scelto consapevolmente, mediante l’impiccagione.

Ma la vera condanna dell’assassino non si avrebbe senza un colpo di scena. La ricostruzione di Fell è perfetta, ma così raccontata in un’aula di un tribunale non avrebbe nessuna ragion di essere accettata, perché vi sono indizi, c’è l’arma dell’omicidio, c’è la presunzione che essa possa esser stata usata dall’assassino medesimo (che è un ricco possidente in Sudafrica, dove si usa il tipo di frusta rinvenuto), ma parrebbe che non ci fosse alcun testimone presente. Ed invece..

Invece la Provvidenza divina, il fato, la Giustizia divina, chiamatela come volete, che non può permettere che un assassino, che ha ucciso con l’aggravante diremmo noi “dei futili motivi”, cioè per cattiveria, vada impunito, si materializza ancora una volta in un racconto di Carr.

E’ rappresentato da una delle due cameriere, Sonia, infatuata dall’omicida. E’ come se qualcosa di sovrumano, che sfugge all’umano raziocinio, alla pianificazione di un delitto perfetto, si inserisse, una piuma che fa inceppare un ingranaggio ritenuto inceppabile, messo in moto inconsapevolmente ed inconsciamente da quello stesso vizio, la vanità, che è stata alla base dell’omicidio. Il desiderio di essere belli a tutti i costi, produce infatuazione in quelle donne che sono soggette a questo tipo di fascino esteriore. Una di queste è Sonia.

“…Vi avevo anche avvisato di aver interrogato le cameriere, Sonia e Dolly, le quali oggi avevano fornito solo risposte incoerenti. Mio caro signore, lei sottovaluta il suo fascino personale.

Sembra che Sonia..abbia sviluppato una certa simpatia per lei. Quando stamattina ha sentito quell’ultimo “colpo” isolato, ha guardato di nuovo fuori dalla finestra. Ma lei non c’era…E questo l’ha colpita talmente che è corsa fuori sulla terrazza anteriore e si è accorta che lei era lì. L’ha vista, insomma.” (op. cit. pag.443).

E’ come se Carr emettesse un giudizio di massima, ancora una volta: il male non paga mai.

Pietro De Palma

 

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Paul Halter : La Nuit du loup (edizione francese), The Night of the Wolf (edizione statunitense su traduzione di John Pugmire) – Raccolta di racconti

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Nel 2000, all’alba del nuovo millennio, Paul Halter volle riunire una serie di racconti che aveva scritto negli anni precedenti  in una raccolta, che intitolò La Nuit du Loup. Successivamente, nel 2006 uscì anche una edizione in inglese – affidata a quel John Pugmire che due anni prima ne aveva tradotto i lavori – che tuttavia si notò per essere diversa da quella originale. Infatti, mentre la raccolta La Nuit du Loup presentava 9 racconti, quella in inglese THE NIGHT OF THE WOLF ne conteneva 10.

Andando a vedere bene, tuttavia, si nota non solo la presenza ovvia di un racconto in più, ma anche l’aggiunta e la sostituzione di altri. Infatti, il racconto Un Rendez-vous aussi saugrenucausa l’intraducibilità in inglese della forma usata di francese che non si adattava ad essere altrimenti tradotta senza perdere i connotati su cui si basava essa stessa, fu sostituito nell’edizione in lingua inglese, dal racconto L’Abominable bonhomme de neige(The Abominable Snowman), mentre ad esso ne fu aggiunto addirittura un altro, Le Spectre doré (The Golden Ghost).

Non si deve pensare però che i racconti fossero stati tenuti in un cassetto e poi pubblicati per la prima volta in occasione della pubblicazione dell’antologia; parecchi di essi erano stati tradotti in altre lingue: 2 (The Tunnel of Death e The Night of the Wolf) erano apparsi tra il 2005 e il 2006 su EQMM, con traduzione di John Pugmire, mentre con quella di Peter Schulhman era apparsa nel 2004 sempre su EQMM, The Appel of Lorelei; 5 poi, erano stati tradotti da Tiziano Agnelli e pubblicati in Italia su “Il Foglio Giallo”, la pubblicazione de Il Club del Giallo, un’associazione che una ventina d’anni fa ancora riuniva parecchi appassionati e al quale apparteneva anche Paul Halter nella veste di socio onorario (che si è estinta dieci anni fa) : Ripperomanie e L’appel de la Lorelei nel 1999, La nuit du loup, Les Morts dansent la nuit e La Hache nel 2000.

Perché furono stati scelti proprio questi racconti per queste traduzioni italiane?

Lo spiega Paul in due brevi righi, interrogato da me qualche giorno fa, che gli chiedevo, impressionato dalla qualità e dalla complessità de La Nuit du loup, se esso fosse per caso il racconto da lui preferito tra tutti quelli dell’antologia: «Cher Paul, depuis quelques années, je dois votre collection La nuit du loup, mais je ne l’avais jamais lu seulement l’histoire qui a donné son nom à la collection (comme je l’avais lu quelques-uns des autres). Je suis restée muette. Nous sommes face à un chef-d’œuvre, avec trois fins différentes, chacune plus étonnant que les autres. Je me suis senti la même forme d’aliénation je me suis senti à lire La quatrième porte. Vous avez appelé la collection La nuit du loup,  idéalement lacer l’histoire éponyme, je pense. Je dois penser que vous considéré comme le meilleur des neuf ? »

«Oui, Pietro, vous avez raison !Enfin oui et non…J’ai bien aimé cette histoire de loup, avec une chute un peu fantastique… La meilleure? Je ne sais pas… Peut-être ex-æquo avec La HACHE, LA LORELEI et LES MORTS DANSENT LA NUIT. Mais d’aussi loin que je m’en souvienne, j’ai dû emprunter son nom pour le recueil de nouvelles, sans doute par ce que c’est celui qui me plaisait le plus. »

Insomma, per chi non conosce il francese, Paul dice sostanzialmente che i racconti che tra i tanti ricorda con più piacere erano La HACHE, LA LORELEI et LES MORTS DANSENT LA NUIT, ma che ho ragione a pensare che in sostanza, essendo stata intitolata l’antologia con lo stesso titolo di un racconto, quello fosse senza dubbio il suo preferito.

Questo giudizio, che è quello dell’autore, toglie di mezzo tutti i giudizi arbitrari, apparsi su vari siti, secondo cui, uno più che un altro o un altro ancora, erano i migliori. Io personalmente oltre La nuit du loup che è un capolavoro assoluto, pari a qualche racconto del Carr più ispirato (The Door to Doom, per esempio) penso che un altro molto buono sia Les morts dansent la nuit, che ricorda per l’atmosfera (una cripta contenente le tombe di famiglia) The Burning Court di Carr o anche La chambre du fou dello stesso Halter , ma è un giudizio del tutto soggettivo.

Ecco a seguire il contenuto della prima edizione:

L’Escalier assassin

Les Morts dansent la nuit

Un Rendez-vous aussi saugrenu

L’Appel de la Lorelei

La Marchande de fleurs

Ripperomanie

La Hache

Meurtre à Cognac

La Nuit du loup

Ed ecco quello dell’edizione inglese, in cui venne modificato l’indice originario:

The Abominable Snowman

The Dead Dance at Night

The Call of the Lorelei

The Golden Ghost

The Tunnel of Death

The Cleaver

The Flower Girl

Rippermania

Murder in Cognac

The Night of the Wolf

Di che genere sono i racconti presentati?

Ovviamente Camere Chiuse e Delitti Impossibili, anche se vi è anche qualcuno che sfugge a questa classificazione presentandosi come un racconto più libero.

Se andiamo ad analizzarli velocemente, cumulando tutti i racconti, sia dell’edizione francese che di quella inglese, possiamo tentare una classificazione veloce:

 Camera Chiusa Classica

 La Marchande de fleurs (apparizione dei doni di Natale in una stanza sigillata)

Murder in Cognac: (avvelenamento all’ultimo piano, chiuso all’interno, di una torre)

Les Morts dansent la nuit (Camera Chiusa classica: cripta sigillata da cui provengono orribili risate)

Variazione di Camera Chiusa sulla neve

La Nuit du loup

L’Appel de la Lorelei

L’Abominable bonhomme de neige

Le Spectre doré

Delitto Impossibile

L’Escalier assassinn (un delitto maturato su una scala mobile, a metà circa della stessa, tenuto conto che né da destra né da sinistra c’era qualcuno che potesse uccidere)

Esempi vari di deduzione poliziesca

Ripperomanie

Un Rendez-vous aussi saugrenu

La Hache

Non basterebbe certamente un articolo per descrivere e analizzare tutti i racconti, per cui dirò solo che i protagonisti sono diversi: Owen Burns, che si trova in storie affondate nel passato, è un personaggio modellato su Oscar Wilde, che ancora in Italia non è conosciuto, perché nessuno dei 5 romanzi in cui opera è stato pubblicato. A quel tempo tuttavia, solo due lo erano stati, tuttavia già bastanti ad assicurargli la fama : Le roi du désordre (1994) e Les sept merveilles du crime(1997);  Alan Twist invece vive avventure risalenti agli anni ’30-‘40. Si noti tuttavia che sia Burns che Twist in queste storie non sono accompagnati dalle rispettive spalle: Stock e Hurst.

Nonostante la presenza dei due personaggi, nessuno di loro compare nel racconto migliore in assoluto, che non esito a definire un autentico capolavoro. Se esiste il racconto perfetto in Halter, senza dubbio, a parer mio, esso è La nuit du loup

Tengo a precisare che per sviscerare i suoi contenuti , darò la soluzione del racconto per cui chi non l’abbia ancora letto è pregato di non andare oltre.

La storia comincia con un padre che sta rimproverando ai propri pargoli di non saper ancora andare a caccia da soli. E mentre i compagni sono intenti a dividersi un cervo, i pargoli pregano il padre di raccontare una storia. E così il vecchio, pure a malincuore, narra la storia di Pierre Lupo, un suo amico e della sua morte in circostanze impossibili.

Pierre Lupo era un tale che abitava in una casa di legno, provvista di laboratorio, al centro di una radura nel bosco. Nel vicino paese di Malmont, che in Lorena è ai piedi della catena montuosa dei Vosgi, stretto attorno ad una chiesa, sotto una coltre di neve che sembrava proteggerlo dall’esterno, si parlava sottovoce scongiurando che il lupo mannaro, che aveva ucciso vent’anni prima, non ritornasse ancora a mietere vittime.

Lupo era inviso alla comunità cittadina in quanto in tanti anni uno dei suoi sport preferiti era stato stabilire relazioni extramatrimoniali con molte donne del paese, cosicchè era divenuto inviso ai più e viveva ramingo in una casa nel bosco nel mezzo di una radura, assieme ad una cane; i suoi unici amici erano il Commissario Mercier e il vedovo dottor Loieseau.

Una notte accade che alla porta del Commissario Jean Roux bussi un tale: un piccolo uomo, talmente vecchio che l’età non era definibile, vestito con vestiti di buona fattura, ma coperto di neve che gli chieda di potersi riparare dalla tormenta di neve, in quella notte. Sulle prime il Commissario non sa decidersi: tuttavia anche se non si spiega perché mai in una notte nevosa come quella un tale sia ancora in giro, le sue condizioni lo rassicurano. E così, dopo averlo rifocillato e riscaldato, mentre quello fissa accanto al fuoco e con nelle mani un grog denso, un grosso cane lupo che dorme su una stuoia, gli racconta la vicenda impossibile a spiegarsi dell’assassinio di Pierre Loup: due giorni prima, il suo ex superiore il Commissario Mercier aveva sentito dei latrati nella notte; qualche ora dopo, il dottor Loiseau, lo aveva svegliato perchè preoccupato che dalla zona dove abitava Pierre Loup fossero prevenuti grida e schiamazzi nella notte. Così alla luce dei una lanterna si erano addentrati nel bosco, nonostante Loiseau camminasse zoppo (con il bastone) perché il suo cane lo aveva morso ad una caviglia, e qui, in una radura tutta ammantata di neve, avevano trovato la porta della casupola del vecchio Pierre, completamente spalancata: dal sentiero dove stavano loro, fino alla casa, erano visibili impronte di animale, probabilmente un lupo. Solo quelle. Nella casa trovarono il cadavere orribilmente sfigurato di Pierre, come se degli artigli e delle zanne lo avessero sbranato, per di più con un pugnale infisso nella schiena.

Il Commissario Roux indica a Dieudonne proprio in cane lupo addormentato e lo indica come possibile responsabile nel caso il padrone fosse stato solo sbranato, ma..egli è stato anche accoltellato e quindi, anche se fosse stato il cane a sbranarlo, poi chi l’avesse pugnalato avrebbe dovuto lasciare delle orme, che invece non sono state rinvenute.

Nella neve nulla che non le loro impronte fino alla casa, le impronte di un grosso cane o lupo, e ovviamente i fori prodotti dal bastone di cui si serviva il dotto Loiseau. Nient’altro.

Il sopralluogo da parte della polizia, chiamata da Mercier e comandata da Roux, non aveva sortito alcuna novità, se non ovviamente che la vittima pur essendo stata sopraffatta da un animale, era stato pugnalato. E quindi a meno di non trovarsi con qualcosa che potesse impugnare un coltello e che avesse le zampe da animale, non si riusciva ad attribuire ad altri la paternità dell’efferatezza. Ma dovunque si andasse non si riusciva a cavarne un ragno dal buco: chi aveva ucciso Roux e perché? Era un lupo mannaro o no?

Il vecchio ospitato da Mercier, di nome Noel Dieudonne, dopo aver sentito la storia, afferma che  di credere “che ci sia una spiegazione per tutto”. Roux è incredulo: lui stesso era stato svegliato da Loiseau, e con lui aveva trovato la vittima vegliata da Mercier, che gli aveva confermato la storia di Loiseau: lo aveva svegliato neanche un’ora prima chiedendo se avesse sentito urla provenire dall’abitazione di Loup. E insieme avevano trovato la vittima in uno stato raccapricciante, nello stesso in cui era stata trovata la moglie di Loiseeau vent’anni prima. Viene a sapere anche che qualche giorno prima, si erano diffuse notizie sulla possibile presenza di un lupo mannaro; e siccome prima dell’omicidio della moglie del dottore, il piccolo Henri, che nel frattempo  era diventato sì giovane aitante e forte ma anche avente il cervello di un bambino, era stato morso si diceva “da un lupo mannaro”, ora qualcuno aveva attribuito a lui quelle urla, schiamazzi e ringhi nel bosco. In particolare ad una cena a cui aveva partecipato Henri assieme a Pierre,  Mercier e Loiseau, questi due ultimi avevano avanzato ipotesi che il giovane diventasse nelle notti di luna piena “un lupo mannaro”. Loup si era risentito di questo, ma qualche giorno dopo proprio da zanne e artigli era stato quasi sbranato.

Le successive indagini avevano stabilito che Loup, donnaiolo impenitente, aveva fatto vittime femminili nella comunità, e che probabilmente anche Henri era un suo figlio, visto il lascito che Loup gli aveva destinato alla sua morte. Dei tre, sarebbe l’unico a beneficiare della morte di Loup. Tuttavia Didionne la pensa diversamente: chiede tuttavia se vi siano altri indizi, particolari di nessuna importanza che non erano stati narrati. E così viene a sapere che nel laboratorio di falegnameria di Loup, erano stati trovati in mezzo alle ragnatele e alla polvere, dei truccioli di legno fresco, segno che qualcosa era stato lavorato. Cosa?

Dieudonne raccogli gli indizi e annuncia di aver capito chi possa essere l’omicida: può essere che il Commissario Rouz che si sta scervellando da due giorni non abbia capito chi possa essere l’omicida, e Dieudonne l’abbia compreso?

E così rivela che tra i tre possibili sospettabili (Mercier, Loiseau, Henri) il solo possibile colpevole non poteva che essere Loiseau: ma come ha fatto, per di più zoppo a non lasciare impronte? E perché l’avrebbe ucciso? Perché nella notte della cena, Loup si era esposto troppo, indignato perché si fosse sospettato del suo figlio “scemo” di essere un lupo mannaro, ed aveva promesso ai due che lui avrebbe fratto giustizia e rivelato anche chi aveva ucciso vent’anni prima: il dottore, per poter sposare una giovane donna ed eliminare la vecchia).

Ecco la soluzione prospettata da Dieudionne: siccome nella notte dell’assassinio aveva nevicato per poi smettere, il dottore era arrivato alla casa di Loup in serata e lì lo aveva ucciso con una coltellata, per poi selvaggiamente ferire volto e braccia della vittima con una sorta di rastrello con cui aveva già vent’anni prima aveva simulato lo sbranamento della moglie da un cane o lupo mannaro supposto tale. Quindi nel laboratorio falegnameria annesso alla casa, ha il tempo per confezionare dei cortissimi trampoli che fissa alla suola delle scarpe e che realizza in modo che riproducano la parte finale del suo bastone. Così camminando presumibilmente un passo dopo l’altro, come se camminasse su una corda, si allontana dalla casa lasciando sulla neve solo impronte che sembreranno quelle di un bastone, quando ritornato più tardi sulla scena del delitto, infilerà il bastone proprio nei fori lasciati nella neve precedentemente. Per poi simulare le orme di un grosso cane, lascerà libero il suo cane di correre e latrare a perdifiato nella notte: saranno i suoi i latrati e i ringhi che si sentiranno nella notte. Poi va a svegliare il suo amico il commissario Mercier e insime andranno a casa di Loup e lui, avviandosi verso la casa, facendo vedere all’incredulo commissario le orme lasciate del suo cane che lui attribuirà ad un lupo mannaro, farà in modo come aveva previsto, che la punta del suo bastone cerchi i buchi fatti dai trampoli modellati sullo stesso. Dieudionne, inevitabilmente elabora lo stesso ragionamento che fa ogni lettore che legga la storia: di chi si parla, quali sono i soggetti del dramma? Solo tre persone erano così intime di Loup, che si era preclusa l’amicizia del paese in virtù della sua irrispettosa frequenza delle mogli altrui: i suoi amici: il Commissario Mercier, il dottor Loiseau, e il figlio scemo Henri per cui Loup nutre un profondo amore e anche la volontà di difenderlo da chi tenti di aggredirlo.

Il Commissario Roux non crede ai propri occhi: in poco tempo quel tale piovuto dal cielo gli ha risolto quel problema che non l’aveva lasciato dormire per due giorni.

Così finisce la storia, del padre che narra ai figli, mentre il resto dei compagni sta ancora mangiando la carne del cervo.

Solo che a questo punto il padre rivela ai suoi figli che la storia era troppo assurda, troppo costruita per essere quella vera: in realtà ce n’era una molto più semplice, che cioè il lupo amico di Loup gli si fosse rivoltato contro quando alla luce della luna piena si era trasformato davvero  in un lupo mannaro. Cioè, qui abbiamo il secondo sovvertimento, dopo la spiegazione che ne è stato il primo: non è l’uomo che diventa lupo, ma è il lupo che diventa uomo. Una realtà troppo orribile a detta di colui che narra la storia: cosa c’è di così orribile? Il fatto che un lupo, che è un animale che caccia per nutrirsi, si possa trasformare in un essere umano. E a questo punto avviene il terzo shock per il lettore: chi ha raccontato la storia, era anch’esso un lupo, che narrava ai lupacchiotti la storia di un amico dei lupi chiamato Lupo,  che aveva chiamato il suo lupo col suo nome.

Ecco che acquista spiegazione il dialogo che poco prima ha concluso il racconto e la spiegazione del problema: “Wolf,” murmured Roux, “like his deceased master. I never understood why he called him by his own name”.“There’s always an explanation for everything, my dear sir…”. Cioè se Roux esclama : “ Wolf, come il suo defunto padrone. Non ho mai capito perché lo avesse chiamato col suo nome”, gli risponde Dieudonne a tono: “C’è sempre una spiegazione per tutto”.

In sostanza il racconto dispiega la propria azione su più piani:  in sostanza se La quatrieme porte, è una storia nella storia (noi leggiamo una storia e poi a metà del libro ci accorgiamo che a sua volta era una storia che qualcuno stava scrivendo), differentemente da essa che ha solo due piani su cui si muove, La nuit du loup, ne ha molteplici.

Innanzitutto noi leggiamo di un gruppo di soggetti che hanno cacciato un cervo e ora si apprestano a riposarsi dopo il pasto: nulla ci può far pensare che non si tratti di uomini. Solo che Halter semina indizi, modi di usare dei termini che in linguaggio lato valgono per gli uomini, ma che in origine indicano proprio gli animali. Sottolineo nel dialogo questi termini rivelatori:

“Daddy, Daddy, tell us a story.”

The chieftain looked at the little group that was devouring with gusto the deer that had been killed a few hours before. He pricked up his ears and glanced in exasperation at his son.

“Yes, Daddy, please,” insisted another of his children.

“Another one?” he growled. “You’d do better to occupy yourselves with more important things! You’re old enough to hunt now. The winter’s been hard and spring is still a long way off. How many times do I have to tell you that to live you have to eat, and to eat you have—”

“Yes, we know, but please, Daddy, please tell—”

“Now you’re bothering me! I don’t know what else to tell!”

His companion trotted through the snow to rub herself against him: “You can tell them the story of Wolf.” (traduzione di dal francese di John Pugmire).

Divorando, rizzò le orecchie, per vivere bisogna mangiare, trotterellò nella neve, sono tutte espressioni cui lì per lì il lettore non da peso, ma di cui poi si ricorda e rivaluta all’atto della rivelazione della fine del racconto, quando capisce che a raccontare era un lupo. Che parlava di un suo amico che era stato ucciso, Lupo, che aveva a sua volta chiamato il suo cane come lui. Fin qui arriva il racconto. Ma Dieudonne invita ad andare in fondo alle cose: perché Loup avrebbe chiamato il suo cane come lui? Perché entrambi condividevano la stessa natura? Loup da uomo si trasformava in lupo, e il lupo a sua volta si trasformava in uomo?

In sostanza quindi il lettore si improvvisa detective quando trova gli indizi che Halter ha disseminato nel brano perchè il lettore possa arrivare a capire (ma non vi riesce) che era una storia nella storia, in cui chi la leggeva era diverso da chi si credeva che fosse.

Anche La Quatriéme porte è una storia nella storia; anche La Tavola fiamminga di Perez Reverte è una storia nella storia.

Ma poi vi sono altri piani su cui la storia si muove.

Chi è Dieudonne? E’ il deus ex machina della storia, e si chiama proprio “Dio che da”: cosa? La soluzione. Ma che invita a guardare dentro le cose, perché tutto può essere guardato non per forza da una sola prospettiva.

Poniamo che Loup e il suo loup condividessero la stessa natura:  poichè Loup si era fatta la triste storia di essere un dongiovanni impenitente, nulla autorizza a non pensare che davvero la moglie di Loiseau potesse esser stata uccisa da un lupo mannaro, cioè da Loup trasformatosi in bestia, allorchè con lui si era incontrata per avere un rapporto carnale.

In sostanza è come se gli stessi fatti autorizzassero una soluzione diversa nel momento in cui venisse contemplata una compromissione fantastica: un po’ come la doppia soluzione di The Burning Court. Se dovessimo credere alla soluzione razionale, il colpevole non può che essere Loiseau; se invece prestassimo fede al racconto fantastico, anche la soluzione lo diventa.

E perché non pensare che se Loup è davvero un lupo mannaro, non lo possa essere davvero il figlio, che era stato indicato tale da Mercier e da Loiseau?

Dieudonne avrebbe  potuto anche voler proteggere il figlio “minorato” di Loup: un figlio grande grosso, dotato di una forza bestiale, ma col cervello di un bambino. Mettiamo che il figlio avesse scoperto chi aveva ucciso la madre tanti anni prima e avesse concepito un piano per vendicare la madre, uccidendo chi l’aveva uccisa realmente (il padre, Loup) e facendo incolpare chi l’aveva tradita (Loiseau): anche così avrebbe un senso la cosa. A dirla in poche parole: se la storia viene elaborata in un universo reale può avere un solo sviluppo, per impossibile che possa sembrare in un primo tempo; se invece viene elaborata in un universo fantastico, le soluzioni possono essere molteplici.

Ecco perché parlo di un vero e proprio capolavoro.

Noto inoltre che per la somiglianza reale con la soluzione di un romanzo posteriore, Halter deve aver pensato di utilizzarla, magari variandola in qualcosa : infatti, come non ricordare la soluzione di A 139 pas de la mort ? Anche lì abbiamo una variazione di Camera Chiusa: in una casa in abbandono, viene rinvenuto un cadavere, seduto su una poltrona, in avanzato stato di decomposizione, provieniente da una tomba violata, e tutt’intorno il pavimento uniformemente coperto di polvere, in cui si noterebbero le impronte se ci fossero, e  nessuna orma che possa avvalorare l’ipotesi che qualcuno abbia scaricato su quella poltrona il corpo e, come vi sia entrato, sia poi uscito da quella casa. Eppure lì abbiamo una soluzione che direttamente si ricollega a quella de La nuit du loup: infatti i 2 travicelli di legno di un metro alle cui estremità sono infissi quattro grossi chiodi, corti di lunghezza, sfruttano la stessa soluzione usata qui: dei trampoli bassissimi ma tali nella loro doppiezza ( che nel racconto hanno lo scopo di confondere le orme ed attribuirle alla punta del bastone del dottore, e nello stesso tempo sorreggere il peso dell’uomo senza che vi sia la possibilità di cadere a destra o a sinistra).

Insomma tutto e il contrario di tutto nell’universo targato Paul Halter.

Pietro De Palma

 P.S.

Chi voglia procurarsi l’edizione inglese, dato che quella francese è più difficile da reperire,  non ha che da rivolgersi a John Pugmire:

http://www.mylri.com/buy-books-and-e-books/

The post Paul Halter : La Nuit du loup (edizione francese), The Night of the Wolf (edizione statunitense su traduzione di John Pugmire) – Raccolta di racconti appeared first on La morte sa leggere.

Storia di Mary, di Stanislas, di John, di Edward.. e di Isaac

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Dal Blog Mondadori

l-ennemi-sans-visage-de-andre-steeman-1036777858_LTra i tanti romanzi polizieschi degli anni Trenta del Novecento, se ne ricorda qualcuno che tratta di automi. Il primo è L’Ennemi sans Visage (noto anche come anche M. Wens et l’automate) di Stanislas André Steeman. Il motivo di questa tendenza, e da cosa tali romanzi abbiano preso le mosse, è presto detto. Non si può parlare di automi nei romanzi polizieschi senza citare il libro che  ha dato origine a tutto quanto: Frankenstein, pubblicato nel 1818 da Mary Shelley. Frankenstein fu un grande romanzo gotico, un gotico per certi versi molto più moderno di opere simili, come Vathek di Beckford o The Monk di Lewis. Mary Wollstonecraft Godwin, figlia del politico e filosofo William Godwin, era nata nel 1797. Il padre le aveva conferito un’educazione sorprendentemente ricca di spunti culturali, e per molti anni il salotto di Godwin ospitò alcuni degli ingegni più grandi dell’epoca: tra questi il grande poeta Percy Bysshe Shelley. A diciassette anni Mary, educata alle idee molto avanzate del padre (che professava tra l’altro l’adesione all’amore libero) fuggì in Francia assieme a Shelley (a quei tempi sposato e di cui era innamorata) e alla sorellastra Claire Clermont; in seguito, dopo il suicidio della moglie di lui, Harriet, si sposò con Percy, nel 1816. L’anno successivo la coppia fu invitata a Ginevra da Claire, che era diventata l’amante di George Byron, e fu proprio qui che Mary ebbe l’ispirazione per Frankenstein: in quelle giornate piovose si parlava di Darwin, dell’energia elettrica e della possibilità di esplorare la vita dopo la morte. Indubbiamente l’ispirazione trasse materia proprio dai colloqui tra John Polidori (l’autore di The Vampire), Percy B. Shelley e George Byron – cui lei stessa aveva assistito – ma anche molto probabilmente dalla leggenda del Golem, creatura senza anima e coscienza, al servizio degli uomini: infatti, ancor prima che uscisse Frankenstein, uno dei fratelli Grimm, Jacob, in un articolo scritto nel 1808 e pubblicato sullo Zeitung für Einsiedler del poeta e scrittore romantico Achim von Arnim, aveva reso popolare, diffondendolo, il suo mito. La leggenda narrava di un rabbino polacco, Elija Ba’al Schem di Chelm, che nella Polonia medievale aveva creato un Golem servendosene come di un angelo protettore del ghetto ebraico, infondendogli vita grazie alla parola «Dio» che recava scritta sulla fronte e alla quale era stata aggiunta la parola «Verità». Così, con la frase «Dio è Verità» sulla fronte, il Golem prendeva vita; quando invece lo si voleva distruggere, bastava togliere una lettera dalla parola «verità,» l’Aleph, per trasformarla in un’altra che significava «morte»: «Dio è morte». In seguito questa leggenda era stata riportata a Praga, laddove si dice che un altro rabbino, Jehuda Löw ben Bezalel di Praga, avesse plasmato un Golem di cui però aveva perso il controllo; dopo le distruzioni da questi apportate, il Rabbino – tornato a dominare il Golem – lo avrebbe nascosto nella soffitta della sinagoga Staronova, ancor oggi esistente a Praga. Il mito del Golem, in realtà, risale a molto tempo addietro, per certi versi addirittura alla nascita dell’uomo: infatti, in ebraico, Golem significa «materia grezza» o anche «embrione,» e tale sarebbe stato Adamo prima che Dio infondesse in lui il soffio della vita: una forma di fango. Allorché Mary Shelley, assimilando tutti i colloqui cui assisteva e partecipava a Ginevra, decise di scrivere Frankenstein o il Prometeo Moderno, la leggenda del Golem si era ormai da una decina d’anni diffusa in tutta Europa. La storia della Creatura, assemblata da Victor Von Frankenstein, si nutre di tutto ciò: galvanismo, darwinismo, leggende ebraiche. Non solo: infatti, la stessa estensione del titolo Frankenstein: or, the modern Prometheus, , fa sì che si capisca come derivi qualcosa dal poema del marito Prometheus Unbound, «Prometeo Liberato,» e come sia sicuramente influenzato dall’amore della morte, del disfacimento dei cadaveri e dell’immagine dei cimiteri che si trova nelle opere di molti poeti, da Foscolo a Keats per giungere a Byron. Per di più la figura di Victor Von Frankenstein, lo scienziato che da vita alla sua creatura, è da mettere in relazione con la figura del famoso chimico Humphry Davy, amico di William Godwin, che inventò l’elettrolisi gettando così le basi dell’elettrochimica.  Il romanzo della Shelley, pur accolto con tiepidi consensi, diventò un best seller dell’epoca, e ancor più quando si scoprì che l’autore era una donna; e permeò tutta la cultura popolare europea tanto da influenzare non poco anche la novella cinematografia degli inizi del ‘900: dopo un cortometraggio muto del 1910 di J. Searle Dawley, nel 1931 fu approntata la famosissima versione di James Whale con Boris Karloff nei panni della Creatura. Secondo noi, questa ed altre versioni cinematografiche possono aver influenzato le opere che poco dopo uscirono: infatti troppo relativo è il limite temporale tra l’anno di uscita di questo film, il 1931, e il 1934, anno in cui viene pubblicata l’opera di Stanislas André Steeman, L’Ennemi sans Visage. E l’influenza è da tenere in debita considerazione: in Frankenstein lo scienziato Victor Von Frankenstein, convogliando opportunamente l’energia dei fulmini per poterla poi utilizzare, vuole infondere la vita ad un corpo, assemblato con parti di cadaveri ancora freschi e con il cervello preso dalla testa di un criminale giustiziato poco prima: ci riuscirà ma poi, sconvolto, fuggirà via, lasciando la creatura sola in un mondo che non conosce. Nel romanzo poliziesco di Steeman, pur mancando la piega amara della creatura che cerca il creatore e non lo trova, c’è uno scienziato, il dottor Arthus; e c’è un automa, che a differenza dell’orribile Creatura di Frankenstein  è insolitamente bello e flessuoso. Ma anche questo automa deve subire un’operazione, dopo la quale la Creatura di Frankenstein vive e così, in apparenza, anche l’Automa di Steeman; mentre nel romanzo della Shelley Victor von Frankenstein diventa pazzo, qui il dottor Arthus viene ucciso, ma in entrambi i casi il mostro scompare e rivolge la propria ira contro la famiglia del suo creatore: in Frankenstein viene ucciso il fratello di Victor, qui il figlio di Arthus.

Ad aver influenzato Steeman per questo romanzo, che è un giallo con una grande tensione evocativa, ottimamente scritto e con una grande camera chiusa, e che quindi poi prende una piega inaspettata, può esser stata la visione di qualche film del periodo. Innanzitutto Behind the Mask (1932) propone ancora cadaveri, operazioni, ed un misterioso personaggio, Mister X, di cui nessuno conosce l’identità perché porta una maschera; e anche in L’Ennemi sans Visage il misterioso personaggio che viene identificato con la creatura fuggita da una stanza chiusa si aggira per la casa con una maschera di cera sulla faccia. Ancor prima di Behind the Mask un altro film ottenne uno straordinario successo, Mystery of the Wax Museum di Michael Curtiz. E’ un periodo, questo, dominato dai film dell’orrore; e anche i Gialli, altro filone di grande presa in quegli anni, se ne impadroniscono. Più in particolare abbiamo delle opere che si rifanno al “filone della cera”: Ethel Lina White consegna Wax (1935), tradotto in Italia come Delitto al museo delle cere, e John Dickson Carr scrive The Waxworks Murder (1932), tradotto in Italia come “L’ultima carta“.

Inoltre la creatura è interamente vestita di nero come una creatura della notte, e di notte si aggira: anche di questo particolare troviamo riferimenti in film del periodo: dal Nosferatu di W. Murnau al Vampyr di Carl Theodor Dreyer. E per finire, come The Phantom of Opera (romanzo scritto da Gaston Leroux, già popolarissimo in Francia) nel film di Rupert Julian del 1925, con Lon Chaney, che appare nel teatro improvvisamente, sfruttando dei passaggi segreti e dei camminamenti nascosti, così il personaggio del romanzo di Steeman utilizza un camminamento cui si accede da alcune porticine nelle varie stanze della casa. Ma il riferimento che mi sembra più interessante è a un film di qualche anno addietro, Metropolis di Fritz Lang, in cui a un certo punto, perché gli operai non si ribellino e non mettano in crisi il funzionamento della città (Metropolis), viene ideato un trucco: un automa, tramite un sofisticato processo che si sviluppa grazie alle onde elettromagnetiche, ottiene per trasferimento da Maria, donna che ha un certo ascendente sulle masse, un aspetto seducente, che usa esibendosi in uno strip-tease in un bordello. Il trasferimento di identità dall’essere umano al robot è troppo preciso perché non lo si possa mettere in relazione col trasferimento di coscienza che Arthus intende ottenere operando al cervello Clarence Jund, criminale che non ha più nulla da perdere: se vivrà rischia di condurre una esistenza vegetativa da cui potrebbe in un secondo tempo, forse, riaversi, ma, se non aderisce all’offerta, sa già che la sua destinazione è la sedia elettrica. E proprio nella sua natura criminale risiede un altro legame con Frankenstein: anche in quel caso la creatura ottiene il cervello e la coscienza di un criminale. Tutte coincidenze? Forse no.vlcsnap-2016-03-20-00h23m07s164

Al di là di questo, tuttavia, il romanzo (già edito nelle «Palmine» anteguerra da Mondadori) meriterebbe di essere riproposto,  oltre che per la sua camera chiusa, anche per una tensione che percorre tutta l’opera e sfocia in una soluzione a sorpresa, dopo indizi, falsi indizi, depistaggi e quant’altro, e dopo un altro omicidio: il movente che salterà fuori è vecchio quanto il mondo. Anche in questo romanzo si muove una singolare figura di poliziotto, l’Inspecteur Wensche, Wenceslas Vorobeïtchik, conosciuto sotto il nominativo di Monsieur Wens : apparirà anche nel 1939 in quello che è considerato uno dei capolavori di Steeman, L’assassin habite au 21, che lo fece conoscere al grande pubblico europeo, anche in virtù di una fortunata collaborazione col cineasta francese Henry Clouzot che firmò la sua trasposizione in film, e quella di altri due romanzi di Steeman: furono 3 films  tutti molto fortunati: Les Dernier des Six (da Six hommes morts), L’Assassin habite au 21 (dal romanzo omonimo), Quai des Orfevres (da Légitime défense). Un anno prima, nel 1938, usciva quello che, assieme a He Who Whispers del 1946 e a Below Suspicion del 1949, era ritenuto dallo stesso John Dickson Carr come il suo migliore romanzo: The Crooked Hinge, in italiano “L’automa“. Un altro romanzo giallo che concerne automi, neanche tanto tempo dopo quello di Steeman. Questa volta l’origine e la filiazione del romanzo sembrerebbero diverse: l’automa «Il Turco,» creato dal barone Wolfgang von Kempelen e presentato alla Corte dell’Imperatrice Maria Teresa d’Austria nel 1770. Nel romanzo di Carr l’automa non ha la profondità psicologica del Frankenstein della Shelley, in cui la Creatura eredita quegli ideali illuministi in virtù dei quali si era parlato del mito del Buon Selvaggio: ogni selvaggio è per sua natura buono, e se diventa pericoloso è perché è venuto in contatto con la società degli uomini civilizzati; così la Creatura, quando si anima, è un essere senza macchia e se uccide è solo perché, venendo in contatto con gli uomini, reagisce negativamente. Nel romanzo di Carr, l’automa, «La Strega», è un grosso macchinario, pieno di ingranaggi e dallo spazio sufficiente farvi entrare un uomo di bassa statura, così come «il Turco» di Von Kempelen, altro macchinario che all’esterno aveva una scacchiera ed un automa delle fattezze di un turco: esso apparentemente sembrava in grado di valutare le mosse (Napoleone, che volle sfidarlo, perse in 24 mosse!), ma in realtà si trattava di un volgare imbroglio: da un’apertura posta nel lato nascosto vi penetrava una persona di piccola statura, un nano o un ragazzo poco importa, ma che opportunamente riusciva a mascherarsi agli occhi di chi veniva invitato ad accertarsi che non vi fosse alcun raggiro, grazie alla struttura interna del macchinario che non occupava tutto lo spazio ma solo una piccola parte: grazie ad alcuni magneti sopra di lui posti, che corrispondevano ai pezzi sulla scacchiera esterna, valutava le mosse da fare e comandando degli ingranaggi, faceva in modo che l’automa spostasse i pezzi; e questo alla luce di un moccolo di candela, il cui fumo usciva dal turbante del Turco, non tuttavia notato, in quanto il Barone opportunamente sosteneva la necessità che per vedere meglio fosse necessario porre 2 candelabri, con altre candele vicino: il fumo della candela veniva così celato dal fumo dei 2 candelabri. Dopo la morte di Kempelen la macchina diventò proprietà di Johann Maelzel, che la fece conoscere in tutta Europa e in America; nel 1836, proprio negli Stati Uniti, Edgar Allan Poe scrisse un articolo in cui spiegava l’imbroglio dell’automa. Tra l’altro egli diceva: “Ora, supponiamo che, quando il mobile viene spinto per la prima volta davanti al pubblico, al suo interno si trovi già una persona, collocata dietro la massa degli ingranaggi..con le gambe completamente stese dentro lo scomparto principale. Quando Maelzel apre lo sportello 1, l’uomo all’interno non corre alcun pericolo di essere scoperto dato che anche l’occhio più acuto non riesce a penetrarne l’oscurità interna. Ma le cose cambiano quando viene aperta la porta posteriore del primo scomparto; l’interno viene illuminato e, se ci fosse dentro qualcuno, sarebbe scoperto. Ma non si vede nessuno. L’inserimento della chiave nella toppa era un segnale per cui la persona nascosta si pigia il più possibile in avanti, ad angolo acuto – infilandosi del tutto o quasi nello scomparto principale. Ma la posizione è scomodissima e non può restarci a lungo.Di conseguenza..Maelzel richiude la porta sul retro. Dopo di che, non c’è motivo per cui l’uomo non riprenda la posizione primitiva, poiché lo scomparto è tornato in ombra e l’interno è del tutto invisibile… Il presentatore può quindi tranquillamente mostrare lo scompartoprincipale. E così fa, aprendo gli sportelli sia anteriori che posteriori – e non si vede nessuno. A questo punto, gli spettatori sono convinti che tutto l’interno del mobile è davanti ai loro occhi – ogni sua parte, simultaneamente. Ma naturalmente non è così… L’uomo all’interno adesso può muoversi liberamente. Entra nel corpo del turco quel tanto che basta per avere gli occhi a livello della scacchiera. ..Infilando il braccio destro nella figura, aziona il minuscolo ingranaggio che guida il braccio sinistro e la mano della figura.. [brani tratti da “Il Giocatore di Scacchi di Maelzel”]:

http://www.federscacchi.it/doc/art/d20050115041248_racconto8.pdf ].

Nel romanzo di Carr, l’automa ha un peso determinante, nella storia intrisa di riferimenti alla stregoneria, alla tragedia del Titanic, e alla presenza di un presunto impostore che voglia ereditare. Il modo come Carr descriva il tutto e la facilità con cui metta in relazione le diverse anime della trama ha dell’immaginifico; e ancor più come riesca, quasi ricorrendo ad un gioco illusionistico, a far variare a piacimento l’altezza dell’omicida, senza perciò utilizzare altri strumenti che non se stesso. Tuttavia, prima, ho usato una forma al condizionale, quando ho detto che l’origine di Carr “sembrerebbe” essere diversa: perché? Non l’ho spiegato, ma lo spiego ora. Io penso che Steeman fosse conosciuto da Carr : infatti, sembrerebbe che The Crooked Hinge, fosse uscito di punto in bianco, nell’esperienza narrativa carriana, senza alcun punto di contatto con le esperienze a lui precedenti, se non si trovasse un passo rivelatore proprio in L’Ennemi sans Visage (trad.  “L’Esperimento del Dottor Arthus”): “–Li chiamo « miei figli »  – riprese il dottore,  – benché molti di essi siano nati dall’immaginazione altrui. Ho consacrato quasi dieci anni alla costruzione di questi balocchi e sono anche riuscito, a forza di pazienti ricerche, a ricostruire i più celebri del XVIII e XIX secolo. Ecco, vedete, nella lotta voi avete premuto quel bottone d’ebanite e avete liberato gli automi dalla loro prigione mettendoli in movimento…– Questa suonatrice di ghironda– riprese il dottore – è una riproduzione fedele di quella di Vaucanson conservata a Parigi, al Conservatorio delle Arti e Mestieri. Ed ecco l’automa scrittore, di Federico di Knauss, che fece un tempo correre tutta Vienna; ecco il dentista di Pomerania, di Jacobus Marco, e le Baccanti, del cavaliere de la Vaux… Guardate, ecco anche il maestro di ballo offerto da Calonne[1] a Luigi XVI.Ramshaw e Jund non credevano ai loro occhi : come per un effetto magico si trovavano a un tratto trasportati nel passato.Il dottore indicava loro col suo indice magro, a una a una, le figure immobili, dalle espressioni immutabili, citando i nomi dei meravigliosi artigiani che avevano plasmato gli originali che avevano servito loro da modello: i fratelli Droz[2], l’abate Mical, Kausman, Roberto Houdin[3].–  Quanto a quest’ultimo – continuò il dottore, – è lui, senza dubbio, che, con l’anitra di Vaucanson[4], mi ha cagionato i maggiori guai… Davanti a voi sta il famoso giocatore di scacchi, di Maelzel, di cui parla Edgard Poe… Per quanto io creda piuttosto ch’egli fosse, come il metronomo, non l’opera di Maelzel ma quella di suo fratello, Giovanni Nepomuk, nato a Ratìsbona nel 1722 e morto in America circa sessantacinque anni” (Stanislas André Steeman, op. cit., Cap. IV “Il ribelle”, pagg. 55-56). Quello che si legge è abbastanza chiaro: prima che nel 1938 John Dickson Carr pubblicasse The Crooked Hinge, già da quattro anni Steeman ne L’Ennemi sans Visage aveva introdotto dettagliatamente l’argomento degli automi. Se non una filiazione, almeno però un tratto di unione mi sembra di poter affermare tranquillamente, esiste, tra Carr e Steeman.  Ma gli esempi di grandi romanzi gialli in cui trovino spazio gli automi non si fermano qui. Facciamo un salto di trentasette anni e arriviamo al 1975: Edward Dentiger Hoch (scrittore molto versato nel racconto giallo classico e con all’attivo quasi mille racconti, tra cui moltissime camere chiuse), che aveva scritto precedentemente altri quattro romanzi, due mystery (The Shattered Raven, 1969; The Blue Movie Murders, 1972, a nome di Ellery Queen) e due di fantascienza mascherati (The Transvection Machine, 1971; The Fellowship of the HAND, 1972), scrive The Frankenstein Factory, che sembrerebbe derivare direttamente dal capolavoro della Shelley. Infatti, il romanzo tratta di un’isola in cui sono conservate molte capsule di ibernazione, dove molti personaggi hanno disposto che vengano conservati i propri corpi in attesa che scoperte nel campo della medicina rendano possibile trattarli con tecniche operatorie e con farmaci ancora sconosciuti. Il dottor Frankenstein della situazione, che qui si chiama Lawrence Hobbes, tenta un’operazione senza precedenti: in una creatura, un soggetto di circa trent’anni morto per un tumore al cervello, si tenta di impiantare il cervello, il cuore, i reni e il fegato di altri esseri. L’operazione è per certi versi segreta, anche perché lo scienziato “usa” alcuni corpi solo per prelevarvi organi, corpi che quindi saranno inutilizzabili o quasi..dopo. Se l’operazione sembra andare per il verso giusto, in men che non si dica, tra i presenti su quell’isola comincia una mattanza che avrà un finale inaspettato. Il romanzo è un tipico esempio di romanzo di fantascienza mascherato e che derivi molto dal Frankenstein della Shelley è assodato giacchè lo ricorda non solo il titolo, ma anche un riferimento contenuto nelle prime pagine del romanzo:“Cos’è questa storia del­la Fabbrica di Frankenstein?- Sentite, non è stato lui ad avere per primo l’idea. Louis Washkansky, un droghiere del Sudafrica, il primo uomo a cui sia stato trapiantato il cuore, ha detto in televisione: “Adesso sono come Frankenstein. Ho il cuore di qualcun altro”. Certo, si sbagliava. Il mostro non si chiamava Frankenstein, e poi lui è vissuto solo diciotto gior­ni, molto meno del mostro.- Però… -Oh, ammettiamolo. Noi siamo l’equivalente moderno del dottor Frankenstein. Se questa operazione riesce, avre­mo creato un individuo nuovo. Nel suo corpo metteremo un cervello e altri organi prove­nienti da più persone diverse. Esattamente come faceva il dottor Frankenstein nel romanzo di Mary Shelley”( Edward D. Hoch, The Frankenstein Factory, “La fabbrica di Frankenstein”, traduz. Vittorio Curtoni, Mondadori, Urania, pag.15).

Poi, però, la trama muta, diventando un romanzo giallo, con la creatura che scompare e nello stesso tempo con una serie di morti che falcidierà tutta la comunità di scienziati lì riunita. A investigare sarà lo stesso detective di The Transvection Machine, “La Macchina televettrice” e The Fellowship of the HAND, “Golpe Cibernetico”, Earl Jazine, in un’isola trasformata in una trappola senza uscita: il romanzo, è un tipico pastiche christiano, somigliando sfacciatamente a And Then There Were None, “E poi non rimase nessuno”. Una somiglianza non solo sfacciata, ma anche ricordata nel romanzo:“Questa situazione mi ha ricordato un romanzo della scrittrice inglese Agatha Christie, un’opera di settant’anni fa. Parlava di dieci persone costrette a restare su un’isola che vengono uccise una per una, esattamente come qui…Alla fine si scopre che una delle presunte vittime è ancora viva”(Edward D. Hoch, op. cit., pag.122) Inutile dire che anche qui il colpevole, come nel romanzo della Christie, è uno dei presenti, ma, se nell’opera originale della Christie era uno ritenuto precedentemente morto, qui non è così: il romanzo di Hoch ha cioè una identità ed una variazione interessanti. Vi è chi viene ritenuto morto in virtù di sangue trovato nel suo letto ma non lo è, ma che muore davvero, poi: l’indizio del sangue è così straordinario che mi ha fatto pensare all’indizio della boccetta senza indicazione contenente tintura di jodio in The Egyptian Cross Mystery o a quello dei cerini in Halfway House, ambedue di Ellery Queen, per la sua importanza: un indizio cardine, anche se buttato lì e spiegato prima in maniera volutamente non esatta. Poi c’è anche qui una “creatura”, che ha il cervello di un assassino, seppure per amore: aveva un tumore al cervello, si è suicidato, ma prima di farlo ha ucciso la moglie che aveva anche lei un tumore. E una serie di omicidi senza senso. Solo nel finale, Earl Jazine spiegherà le dinamiche folli, e anche nella soluzione Agatha Christie entra di prepotenza, perché si viene a sapere che proprio al suo romanzo l’assassino si era ispirato. Anzi, in qualche modo, lui era predestinato a farlo, in virtù di un certo collegamento col romanzo christiano.Tuttavia osserviamo che anche del romanzo di Steeman, L’Ennemi sans Visage, ha dei caratteri, segno che anche Hoch avrebbe potuto conoscere Steeman : anche qui la creatura ha un corpo perfetto, anche qui scompare, anche qui gli è attribuita l’atmosfera di sangue, anche qui alla fine risulterà non c’entrarvi assolutamente nulla.  Ci rimane solo un altro tipo di automa da considerare, anche se questo esula dal rapporto di filiazione che abbiamo considerato partire dal Golem e poi da Frankenstein per arrivare prima a Steeman, poi a Carr e infine a Hoch: l’automa più progredito, l’androide, metà uomo e metà macchina. Sarà esso il protagonista di due grandi romanzi gialli di Asimov: The Caves of Steel, 1954; e The Naked Sun, 1957, in coppia con un altrettanto memorabile umano. Infatti l’androide, R. Daneel Olivaw (dove la R. sta per Robot), Robot umanoide, affianca il poliziotto di una New York del futuro (siamo nel quinto millennio dopo Cristo), Elijah “Lije” Baley, inizialmente avverso ai robot.

Dei due romanzi, The Caves of Steel , “Abissi d’Acciaio” è forse più suggestivo ed è anche notevole, giallisticamente parlando (è uno dei 99 romanzi che Roland Lecourbe e altri specialisti hanno inserito in una lista delle migliori Camere Chiuse di cui parlo nel mio precedente saggio dedicato a The Third Bullet di J.D.Carr).In esso, la coppia di investigatori, l’umano e l’androide, indaga sulla morte di Roj Nemmenuh Sarton, ambasciatore degli Spaziali (lontani discendenti degli umani, che hanno colonizzato mondi lontani dalla terra e che hanno un rapporto molto più libero coi robot) ucciso con un colpo di disintegratore. Il romanzo, che decretò il successo di Asimov presso l’Editore Doubleday,lo fu talmente, che segnò l’inizio del “Ciclo dei Robot”. Abbiamo voluto finire questo breve excursus proprio parlando dei primi due capitoli del Ciclo dei Robot, proprio perché, come giustamente dice Giuseppe Lippi nell’introduzione, in sostanza Robot è uguale a Golem. E come il rabbino animava il golem con la parola aemeth, così il golem-robot di Asimov risponde alle 3 leggi della golemica-robotica. Il successo del romanzo è nella coppia, l’umano e l’androide, che diventano amici: l’umano, Baley, diffidente verso i robot, si deve ricredere conoscendo non superficialmente il suo compagno positronico; e se perviene alla verità, è solo perché l’altro dice delle cose, che opportunamente analizzate, indirizzano Baley verso la scoperta della verità. E’ come quando Sherlock Holmes risolveva i casi più difficili, quasi sempre con l’aiuto non voluto di Watson. Lippi nell’introduzione, pone giustamente l’accenno sul significato dei nomi: ai 2 compagni Asimov mette nomi ebraici, Daniele e Elia, 2 grandi profeti. In questo modo è come se fissasse i ruoli: l’uomo dell’azione, come il grande Profeta Elia che fu rapito sul carro di fuoco,.è Elijah, mentre chi perviene ai significati reconditi è R. Daneel, come Daniele aveva interpretato giustamente i sogni del Re Nabucodonosor II. Il finale è memorabile: “E il robot disse: « Sto cercando di assimilare, ami­co Julius, alcune idee che Elijah mi ha trasmesso in questi giorni. E forse ci riuscirò, perché all’improv­viso mi pare di capire che l’estirpazione di ciò che non deve essere, ossia ciò che voi uomini chiamate il male, è meno giusta e desiderabile della sua trasfor­mazione in ciò che voi chiamate il bene. »Esitò, poi, come sorpreso delle sue stesse parole, disse: « Vai e non peccare più ».Baley sorrise, prese R.Daneel per il gomito e uscirono insieme, braccio sotto braccio” (Isaac Asimov, op. cit. pag. 259). Un romanzo fantascientifico, che è un giallo, ma è anche profonda riflessione e filosofia neanche tanto spiccia: un romanzo straordinario. E sulla stessa linea si pone la sua continuazione, The Naked Sun, “Il Sole Nudo”, un altro romanzo, in cui si fa fantascienza ma anche mystery: Olivaw e Baley devono risolvere un delitto, il primo dopo duecento anni di pace, sul pianeta Solaria; e si tratta per di più di un delitto avvenuto in circostanze che hanno dell’impossibile: “…« No, » rispose infine « non posso dire che l’identità dell’assassino sia completamente sconosciuta. Infatti c’è solo una persona ad aver avuto la possibilità di commettere il fatto. »« È sicuro di non voler dire che è probabile che solo una persona possa aver commesso il fatto? » Baley non prestava fede alle dichiarazioni assolute e non aveva nessuna simpatia per quei deduttori da tavolino che scoprivano certezze invece che probabilità nelle elabo­razioni logiche.Ma Gruer scosse la sua testa calva. « No. Solo una persona può averlo fatto. Per chiunque altro è impossi­bile. Completamente impossibile. »« Completamente? »« Glielo assicuro. »« Allora non avete problemi. »« Al contrario. Li abbiamo, i problemi. Neanche quel­la persona può averlo fatto. »« Allora non è stato nessuno » disse calmo Baley. « Eppure il fatto è avvenuto. Rikaine Delmarre è morto »” (Isaac Asimov, The Naked Sun, “Il Sole Nudo”, traduzione integrale e introduzione Giuseppe Lippi, Oscar Mondadori, Best Sellers, N°499, pag.47-48). Rispetto al precedente romanzo, Asimov introduce anche una storia d’amore: in Caves of Steel vi è la storia dell’amicizia straordinaria tra un umano ed un androide in un’atmosfera mystery, qui vi è dell’altro. Comunque, il grande afflato letterario di Asimov si nota in più punti e anche qui il finale è magnifico. E come solo il grande giallista di classe riesce a mantenere la tensione fino all’ultimo e a rivelare la verità nell’ultimo rigo dell’ultima pagina, così Asimov rivela il mistero del titolo, un mistero nel mistero, che fino ad allora era rimasto insoluto, a conferma delle sue grandi capacità anche di giallista (per esempio i romanzi The Death Dealers, Murder at the ABA o  i celebri racconti dei Black Widowers, anche se c’è anche dell’altro[5]) “Se n’era andato a risolvere un delitto e gli era successo qualcosa…Baley aveva lasciato la Città e non poteva più rien­trarci. La Città non era più sua: gli Abissi d’acciaio erano alieni. Doveva essere così. E sarebbe stato così anche per gli altri e la Terra sarebbe rinata e avrebbe raggiunto lo spazio.Il cuore gli batteva pazzamente e il rumore della vita intorno a lui si attutì in un mormorio inaudibile.Ricordò il sogno che aveva fatto su Solaria e final­mente lo capì. Alzò il capo e potè vedere attraverso tutto l’acciaio, il cemento e l’umanità sopra di lui. Poteva vedere il faro posto nello spazio per attirare all’esterno gli uomini. Poteva vederlo brillare. Il sole nudo!” (Isaac Asimov, op. cit. pag.242).  


[1] Si tratta di Charles Alexandre de Colonne, che fu un grande economista francese, Controllore generale delle finanze di Francia, sotto Luigi XVI.

[2] Probabilmente si riferisce a Pierre Jaquet-Droz e al figlio Henri-Louis costruirono tra il 1770 e il 1773, tre meravigliosi automi ancor oggi funzionanti: uno scrivano, un disegnatore ed un musicista

[3] E’ il famoso Jean Eugène Robert-Houdin, da non confondersi Harry Houdini : fu un grande illusionista francese dell’Ottocento, che costruiva automi per i propri spettacoli illusionistici

[4] Si riferisce a Le Canard digérateur, L’anatra digeritrice (1739), automa di Jacques de Vaucanson, costruito in maniera tale che sembrava che defecasse ciò che ingoiava, simulando la digestione

[5] Le opere giallistiche di Asimov sono :  i romanzi The Death Dealers , “Un soffio di morte”, Il Giallo Mondadori N°1060; Murder at the ABA, “Rompicapo in quattro giornate”, Mondadori, Oscar Best Sellers, 2007; i racconti: Asimov’s Mysteries, “La chiave e altri misteri”, Fanucci, 1975 ;  The Union Club Mysteries, “Gli Enigmi dell’Union Club”, Mondadori, Oscar, 1985; Purr-Fect- Crime (volume contenenti 15 storie brevi di altrettanto famosi giallisti, curato fra gli altri proprio da Asimov), “Il delitto è servito”, Rizzoli, Bur. 1989; Sherlock Holmes through time and space , “Sherlock Holmes nel tempo e nello spazio”, Mondadori, 1990: altra raccolta di racconti dedicati a S.Holmes curati fra l’altro da Asimov; le raccolte: The Key Word and Other Mysteries, The Disappearing Man and Other Mysteries, The Best Mysteries of Isaac Asimov.

La raccolta di racconti imperniati su Sherlock Holmes, si spiega col fatto che Asimov fu un grande apapsionato di Sherlock Holmes, tanto da essere iscritto all’associazione de Gli Irregolari di Baker Street.

Pietro De Palma    

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Patricia McGerr Vs Anthony Berkeley: Storia di un modello non riconosciuto

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La categoria dei romanzieri dedicati al genere poliziesco, potrebbe essere divisa sostanzialmente in due grandi gruppi: gli innovatori e i manieristi. I primi sono coloro che hanno inventato soluzioni di certo tipo che poi hanno fatto storia, gli altri quelli che hanno ripetuto, magari variando, quelle soluzioni inventate dai primi. Carr, per quanto grande egli sia, e secondo me è il più grande, non ha inventato nulla di nuovo ma ha applicato infinite volte gli stessi cliche: per cui è un manierista; Agatha Christie, Philip MacDonald, S.-A. Steeman degli innovatori. Ma non sono solo questi. Ce ne sono anche degli altri.
La prima è Patricia McGerr. Parecchi tra quelli che mi leggono, sono sicuro che non sanno lontanamente chi ella possa essere stata: trattasi di scrittrice americana, del tempo di Ellery Queen, assai meno conosciuta dei due cugini. La storia della critica poliziesca le ascrive un guizzo di genio che avrebbe applicato in un suo romanzo: una procedura deduttiva non nuova ma assai originale. Prima che ci pensasse lei, il genere più utilizzato era il “Whodunnit”: cioè la scoperta del colpevole: data una certa ridda di sospetti e dato un omicidio, bisogna scoprire l’assassino. In altre parole, il Cluedo in carta stampata.
Una prima variazione a tale procedimento, era stata la cosiddetta “inverted story”: conosciuto già l’assassino, il romanzo verteva su come si era arrivati a sospettare di lui, insomma una ricostruzione dei fatti che avevano portato alla cattura del responsabile. E poi c’era ovviamente una seconda variazione: conosciuta la vittima e noto qualcuno che la volesse uccidere, il plot era concentrato sul fatto che la macchinazione andasse a buon fine o no, e che ovviamente il colpevole venisse preso oppure sfuggisse alla cattura. Nessuno aveva però pensato ad una terza variazione. A questo vi pensò Patricia McGerr, almeno per quello che comunemente si legge: a lei viene ascritto un altro modo, con cui si dice abbia innovato il genere. In altre parole, avrebbe spostato l’indagine, che è concentrata normalmente sull’identificazione del colpevole, sul suo opposto, ossia sulla vittima.
Patricia (“Pat”) McGerr (1917-1985) è stata uno scrittrice poliziesca statunitense. Vinse un Ellery Queen Magazine / MWA, per una sua storia e il Grand Prix de Littérature policière nel 1952 per il suo romanzo dell’anno prima, Follow, As the Night . Era nata in Nebraska dove si era laureata, e poi aveva preso un master in giornalismo alla Columbia University.
La sua fama è legata principalmente al suo primo successo, Pick Your Victim (1946), in cui si narra la storia di un gruppo di marines americani, di stanza sulle isole Aleutine, nel corso della seconda guerra mondiale, che, per ingannare il tempo, e superare la noia, legge tutto quello che capita a tiro. Ben presto i giornali, i libri, dopo aver fatto il giro di tutti i soldati, si deteriorano. E quindi, per avere qualcos’altro da leggere, sfruttano ogni situazione persino la più originale per poter ingannare il tempo.
La situazione cambia in meglio, quando, uno di loro, Pete, riceve dalla famiglia un pacco di viveri: la madre, per evitare che i barattoli non si rompessero, li ha avvolti in carta di giornale, E proprio su questi ritagli si appunta l’attenzione dei soldati, particolarmente su uno di essi che narra dell’omicidio da parte di un conoscente del possessore del pacco di viveri, di altra persona: Paul Stetson, l’assassino, è il padrone incontrastato di STUDS, un’associazione nata con lo scopo di porre lenimento con consigli e indicazioni alle mansioni di quelle donne che vivono particolarmente sfavorevoli condizioni lavorative, una specie di protettorato, quasi un sindacato, che si occupi di loro, e proteggendole, protegga anche il loro ambiente di lavoro, l’attività domestica, a cui tutte le donne, secondo i fini di chi ha fondalo la società, sono deputate : cuoche, cameriere, guardarobiere, le donne meno difese fra tutte, perché svolgenti mansioni umili nell’ambito domestico. Ora, nell’articolo si narra proprio della condanna di Paul reo di aver ucciso uno dei dirigenti della sua società; solo che è ignoto il nome della vittima, perché, laddove ci sarebbe dovuto essere il suo nome, vi è uno strappo, mancando un pezzo di giornale. Nonostante i soldati mettano assieme i vari pezzi, a voler formare la pagina, in realtà il buco rimane lì.

IMG_7612.JPGI soldati allora scommettono fra loro: puntando una certa somma qualcuno, e raccontando il narratore della sua vicenda lavorativa in STUDS, non omettendo nulla e quindi fornendo una certa mole di indizi che dovrà essere convenientemente dai suoi commilitoni, vincerà chi, sulla base del racconto, sarà riuscito a formulare il nome dell’assassino, posto che il narratore non potrà partecipare alla scommessa e allo stesso modo sarà il solo ad aver per primo la risposta, visto che l’ha chiesto ad una sua collega, Sheila, tramite lettera.
L’escamotage del romanzo della McGerr è chiaro: i soldati per ingannare il tempo, scommettono, come scommetterebbero su qualsiasi cosa: questa volta, la posta è riuscire a mettere il nome mancante a causa di quel buco:
Washington, 6 settembre – Paul
W. Stetson, Direttore Generale
della Society to Uplift Do
Stic Service, la
Sato alla pol
Strangolato
Negli uf
Day.
Anche la vittima
Gente della organizz
Nazionale. La sco
Del corpo, con una sciarpa
Di lana marrone annodata
La gola, fu fatta da Tom Ad
Impiegato della SUDS, alle pri
Ore ieri mattina. Egli chia
La polizia che arrivò im
[Paula McGerr, Scegliete la vostra vittima (Pick Your Victim,1944) – trad. Glauco De Rossi – Il Romanzo per Tutti, Anno XI N.13, 1955]
Per farlo, il narratore, Pete, conosce tutti i dieci dirigenti dell’azienda (Presidente: Hunter Willoughby, Vice-presidenti: Frank Johnson (capo dell’Ufficio Legale), Chester Whipple (capo della Pubblicità), Anna Coleman (incaricata dell’istruzione), Carl Doherty (incaricato dell’Albo dei Soci), Ray Saunders (dell’Uffico del Presidente), Loretta Knox ( incaricata della Costa Occidentale), Harold L. Sullivan (incaricato delle ricerche), Segretaria: Bertha Harding, Tesoriere: George Biggers. Fornirà di ognuno di essi un profilo, sulla base delle proprie esperienze lavorative e della sua conoscenza diretta delle possibili vittime. Quindi in sostanza, non sarà “una scommessa al buio” come avrebbe voluto fare altro commilitone, lasciando decidere alla fortuna il nome del vincitore, ma sarà una sorta di “Giochiamo all’assassino”, un Cluedo invertito, laddove normalmente si parte dalla vittima e grazie ad una serie di indizi, si cerca di dare un volto al colpevole. Qui invece è l’opposto: il colpevole è noto, ma non si sa chi, tra i dieci dirigenti, sia stata la vittima. E questa la si potrà evincere solo sulla base del racconto fatto dal narratore, lavorante nell’Uffico Stampa di quell’azienda.
Il racconto che Pete fa ai commilitoni, comincia con il suo inserimento nell’organizzazione della Società SCUDS, ad opera di Chet Whipple, il primo dei dieci dirigenti che lui ha conosciuto, perché è per opera sua che lui è stato assunto:
“Chet Whipple fu il primo dirigente della SUDS che conobbi, Solo che allora non era ancora un dirigente e l’organizzazione non si chiamava SUDS. Eravamo nell’estate del 1939 e si chiamava ancora Homemakers Information Bureau, il che mi dette l’idea di un gruppo di gente suonata.” (op. cit. pag. 6). Di lui tratteggia i dati indicativi della personalità, la sua presunzione, l’adulazione del capo e il disprezzo per i suoi colleghi, unito ad una buona parte di pettegolezzi sull’operato di essi, che lui, “marito integerrimo”, gira alla moglie, per poi tirarsi indietro quando accusato.
“…nessuno può impedirti di fabbricare le tue bugie e di raccontarle a casa per eccitare tua moglie..di diffonderle nell’ufficio..continua così. Divertiti. Ma un giorno qualcuno ti caccerà i denti in gola. Se non avrò la fortuna di poterlo fare io stesso spero di trovarmi presente quando accadrà” ( op. cit. pag.18).
Quindi Pete già indica una possibile vittima, perché c’è qualcuno che potrebbe aver avuto motivi di risentimento, per le calunnie profferite da Chet e dalla moglie nei confronti non solo di Mary Dalton, l’accompagnatrice di Biggers, ma anche di altre persone..
E così ogni capitolo. Così qualche pagina avanti si viene a sapere che nella società c’erano due donne tra i dieci dirigenti.
“Le donne sono un veleno in una impresa commerciale. Con una sola donzella, se fate attenzione, potete cavarvela. Mettetene due insieme e vi troverete tra due gatti selvatici” (op.cit.pag.20). George Biggers, parla a Pete e gli tratteggia le due donne dell’azienda Anne Coleman e Bertha Harding, una contro l’altra (si vedrà che è la seconda contro la prima). In realtà Bertha “è dura come un chiodo, diretta nell’azione, incisiva nel discorso”. Si veste con tailleur, scarpe basse, capelli acconciati in pose molto severe e così si manifesta agli altri. Tuttavia, seppure molto apprezzata per le sue doti manageriali, in realtà nessuna la guarda per altro. E di questo si avvantaggia la Coleman che invece ha “i capelli d’oro rosso che cadevano in morbide onde, gli abiti attillati, i braccialetti tintinnanti e scarpine col tacco a spillo..sembrava più a suo agio con un uomo, e alla SUDS questo aveva molta importanza” (op. cit. pag.20). In breve Anne Coleman diventa l’amante di Paul Stetson, il Capo della Società, che è in rotta con la moglie. Un giorno il narratore e la sua amica Sheila insospettendosi perché la Coleman che sarebbe dovuta essere presente ad una manifestazione per sua stessa dichiarazione e non vi è invece andata, si recano a casa sua, e la trovano in fin di vita, perché ha tentato di uccidersi coi barbiturici, e tutto in seguito ad una lettera velenosa che ha ricevuto, in cui a firma della moglie di Stetson, Claire, le viene restituita la chiave del suo appartamento utilizzata dall’amante, perché i due hanno deciso di fare pace. In realtà, come scopre Sheila, i due non hanno fatto pace.
“La lettera deve averla scritta qualcuno che odia la Coleman – qualcuno che sperava reagisse proprio come ha fatto, avvelenandosi…la signorina Harding è quella che avrebbe beneficiato dalla sparizione della Coleman..”(op. cit. pag. 26). Ma la Harding non è sola. E’ legata a Ray Saunders, un altro dei vice-presidenti. E’ lui che può averle passato la chiave dell’appartamento che era nell’automobile del Capo che “..Saunders ha usato per la fine della settimana”. Insomma tutti contro tutti, un nido di vipere.
E così abbiamo altri potenziali vittime: Paul Stetson avrebbe potuto strangolare sua moglie, per poter vivere con l’amante; l’amante, per ritornare a vivere con la moglie; la Harding, per aver tentato di far suicidare la Coleman; Saunders perché cospirante contro di lui e la sua amante. Avrebbe potuto strangolare Chet Whipple per la campagna di calunnie montata da lui nei confronti di altri (magari anche della Coleman). Anche se in questo caso sarebbe stato molto più semplice licenziarlo.
Il risentimento nei confronti della Harding diventa tangibile qualche pagina dopo, quando durante una partita a poker, la Harding parla troppo e rinfaccia al suo Capo uno sbaglio colossale nel giocare, umiliandolo dinanzi a tutti: “..o non avete visto bene le vostre carte oppure il caldo della stanza vi ha dato alla testa” (op.cit. pag. 32).
Poi vi è una spinta che Stetson rifila a Whipple sulla scalinata del Campidoglio dopo la bocciatura di una legge in cui Steson sperava, che a sentire Whipple e la sua campagna di stampa, avrebbe dovuto esser stata approvata, costituendo così un fondo di stato di cento milioni di dollari per l’istituzione di una accademia per le mansioni domestiche delle donne.
Ancora, vi è nelle pagine seguenti il tentativo di Stetson di approfittare di Mary Dalton, l’ira di Biggers e le amare considerazioni sulla ricattabilità di un personaggio pubblico, quando non si prendono opportune misure di riservatezza.
Insomma..ogni capitolo riserva nuove prospettive per individuare nuove potenziali vittime di Stetson. Dei commilitoni di Pete, è Joe che capisce tutto e indica la vittima, alla fine di un certo ragionamento, la cui giustezza viene confermata allorquando, qualche giorno dopo, arriva la missiva di Sheila a Pete contenente un ritaglio di giornale, gemello di quello deteriorato arrivato ai militari, in cui viene menzionato il nome della vittima dello strangolamento.
Questo romanzo, non fu comunque l’unico tentativo di Patricia McGerr di cambiare i connotati del Whodunnit classico: infatti, ripetè in altro romanzo, la stessa idea base utilizzata in Pick Your Victim, in Follow As the Night (1950) pubblicato già un anno prima con altro titolo, Save the Witness, che sarà tradotto in un film cinematografico da Henri Decoin, Bonnes a tuer (=Buone da uccidere): Larry Rock ha deciso di uccidere una delle quattro donne che ha amato. Ma quale, tra la moglie, la ex-moglie, l’attuale sua accompagnatrice oppure l’amante? Nel 1947, invece, pubblicò l’altro suo romanzo che le dette fama, The Seven Deadly Sisters (1947) in cui al lettore spetta l’individuazione non solo della vittima ma anche dell’assassino: la statunitense Sally Bowen, si trasferisce in Inghilterra e lì una lettera la informa che una sua zia ha ucciso il marito. Ma quale? Nella lettera non si fa il nome dell’assassina, né della vittima. E’ un problema individuarli, perché Sally ha sette zie tutte sposate.
Si sa che Patricia McGerr piaceva al Presidente Truman. Almeno piacevano certi suoi libri, di forte ispirazione religiosa: Martha, Martha ( Marta, la sorella di Lazzaro, l’amico di Gesù da lui resuscitato) o The Missing Years. La McGerr era una fervente cattolica, tradizionalista, e nei suoi romanzi si colgono certi accenni, sul ruolo tradizionale della donna per esempio nella società e nella famiglia americana. Infatti, almeno questi due libri, sono stati trovati nello studio di Harry S. Trouman, a casa sua.
A questo punto, sarebbe chiaro che Patricia McGerr, sebbene non popolarissima e considerata quasi solo dagli addetti del settore, sia stata una innovatrice del Whodunnit, ascrivendo a lei l’invenzione dello spostamento dell’indagine non tanto sul colpevole, nota la vittima, ma sulla vittima, noto il colpevole, basandosi su un resoconto di fatti attinenti. Almeno così parlano un po’ tutte le fonti.
Anche Gadetection, al momento il sito più specialistico sulla Crime Fiction, ne parla in questi termini:
“A stunning tour de force, from a then-debutant author. Reversing whodunit’s priorities in a revolutionary fashion, Mc Gerr reveals the guilty party from the start and turns on an unusual, compelling problem. Who has died? The answer is as surprising as expected, and wholly fair-play. As usual with McGerr, however, the book doesn’t limit to a well-exploited gimmick. We have in bonus some delightful characterization and a lively office-life evocation. Barzun and Taylor raved about this book. They were right.”
Il giudizio di Xaver Lechard è anche più diretto:
“Pat McGerr’s “Pick Your Victim” is a comparatively little-known entry into the annals of crime fiction, but which is nevertheless held in high esteem among a small group of knowledgeable and well read Connoisseurs of Crime – praising the story for it’s unique take on the classic detective format, that’s both original and successful.”
E gli addetti ai lavori le riconoscono un merito indubbio. Ma…è veramente tale? Cioè, davvero lei per la prima volta ha rovesciato i termini di paragone del Whodunnit?
Ebbene No, Signori. Il primo è stato un altro, qualche anno prima. La storia dovrà essere riscritta.
Nel 1932 Anthony Berkeley, aveva scritto e pubblicato, Murder in the Basement ,1932 ( Assassinio in Cantina – trad. Mauro Boncompagni – I Classici del Giallo Mondadori, N.1056, del 2005). Il romanzo risale al periodo di maggior successo internazionale e al pieno della sua attività formativa: dello stesso anno è infatti Before the Fact (Il sospetto) tradotto sul grande schermo nel 1941 da Alfred Hitchcock in un film di grandissima notorietà, con Cary Grant e Joan Fontaine, Suspicion (Il Sospetto); l’anno prima, Berkeley aveva pubblicato un altro suo grande successo, Malice Aforethought (1931). E nel 1933 pubblicherà un altro romanzo fondamentale , Jumping Jenny.
Berkeley, già con The Poisoned Chocolates Case (1929) e prima ancora con The Wychford Poisoning Case (1926) aveva innovato il genere puntando su romanzi di grande penetrazione psicologica e sulla molteplicità delle soluzioni contemplate nei romanzi, poi abbandonate a favore di quella giusta e definitiva.
Quindi Berkeley è un altro innovatore. A noi interessa però perché è stato anche il solo ad aver innovato il Whodunnit classico, nella forma adottata da Patricia McGerr, ben prima che lei scrivesse il suo romanzo, Pick Your Victim. La cosa strana è che nessuno se ne sia accorto finora e tanto più è strano perché tra il romanzo di Berkeley e quello della McGerr ci sono ben 14 anni. Non solo. Non se n’è neanche accorto Malcolm J. Turnbull che nel 1996 ha firmato l’unica biografia dedicata a Berkeley, Elusion Aforethought: The Life and Writing of Anthony Berkeley.
La trama del romanzo è parecchio macabra.
Una coppietta di sposini ritorna dal viaggio di nozze e prende dimora in una casa affittata. Mentre lei disfa le valigie, lui non trova di meglio che andare ad ispezionare la casa, e in particolare la cantina dove vorrebbe custodire i suoi vini. Ma ecco che un particolare cattura la sua attenzione: in un angolo, il pavimento di mattoni si è come infossato, come se qualcuno avesse scavato per nasconderci qualcosa. Lui pensa ad un forziere, ma invece vi trova..un cadavere vecchio di almeno sei mesi, talmente irriconoscibile e decomposto che per puro caso si riesce a capire che era una femmina giovane e che aveva una cicatrice all’interno di una delle cosce. Il cadavere è nudo, ma su quello che rimane delle mani vi è un paio di guanti.
L’Ispettore Moresby di Scotland Yard naviga nel buio: chi era la donna? E come è finita in quella cantina? La precedente affittuaria era una vecchia al di sopra di ogni sospetto, e la data della morte sembrerebbe coincidere nel periodo di agosto, in cui la vecchia era in vacanza e la casa era vuota: chi mai avrebbe potuto avere le chiavi? Dei parenti? I due soli sono due nipoti che però hanno degli alibi talmente solidi da essere subito estromessi dalle indagini. E allora? Alla minuziosa indagine della polizia non sfugge nulla. Eppure Moresby non riesce a dare un nome al corpo! Basterebbe saperlo e – lui ne è sicuro – si sarebbe a cavallo, perché l’assassino non avrebbe scampo. Ma… non si trova nulla. Finchè vi è una sua intuizione: la cicatrice. Sulla base dell’autopsia si stabilisce che la vittima era stata operata al femore e gli era stata applicata una placca di metallo per saldare l’osso dopo una frattura: la fortuna che gli arride è data dal fatto che la placca è fatta di un materiale subito abbandonato, utilizzato solo come esperimento in pochi e certificati casi. Insomma, scartando tutti i soggetti che non risultavano essere scomparsi e i cui parenti ne avrebbero subito denunciato la scomparsa, si arriva a individuare la vittima in una ladra borseggiatrice che era scivolata al momento della cattura della polizia, rompendosi una gamba, e che tempo dopo, ravvedutasi, dopo un corso di stenodattilografia e alcuni altri lavori, e con un cognome falso era riuscita a farsi assumere in una scuola privata di Allingford, Roland House, nel personale amministrativo..
Ora, in cosa i romanzi di McGerr e Berkeley si assomiglierebbero tanto da poter essere comparati, se si conosce già l’identità della vittima in The Murder in the Basement?
Nel fatto che l’Ispettore Moresby, ricordandosi del fatto che Roger Sherringham, di cui egli si è già servito come esterno in indagini poliziesche, è stato a Roland House in passato, lo interpella, e gioca con lui a rimpiattino: non gli rivela subito il nome della vittima, ma sfida Sherringham a scoprirlo da solo, sulla base di quello che lui si ricorda dell’ambiente, e soprattutto basandosi su una traccia, un canovaccio che Roger ha scritto l’estate prima volendolo dapprima usare per un romanzo, ma che è stato abbandonato. Proprio questo racconto, che viene compreso nel romanzo e di cui viene reso cosciente il lettore, diviene la base del ragionamento psicologico di Sherringham. Che arriva ad individuare la vittima, poi confermato il tutto da Moresby.
Abbiamo cioè due fonti talmente simili e con caratteristiche talmente sovrapponibili da non poter essere inquadrati come due casi isolati: entrambi i romanzi si basano sui ricordi di una persona che non è coinvolta nel caso in quanto sospettabile ma nello stesso tempo conosce l’ambiente tanto da poter estrapolarne i caratteri psicologici più pregnanti; in entrambi i romanzi colui che illustra il quadro psicologico generale e i soggetti interessati non conosce in primis l’identità della vittima; in entrambi i casi, l’individuazione dell’identità della vittima, avviene nel corso di una sfida, di una scommessa; in entrambi i casi, l’identità supposta della vittima viene confrontata con chi ne è perfettamente a conoscenza (Sheila nel primo caso, Moresby nel secondo); in tutti e due i casi vi sono rievocazioni personali in cui sono compresi tutti i personaggi del caso; in tutti e due i romanzi la vittima svolge le stesse mansioni; in tutti e due i romanzi l’assassino ha stesse funzioni dirigenziali, pur nella diversità di ambienti di lavoro (una società commerciale e una scuola); in tutti e due i casi il movente dell’assassinio è il ricatto, di cui è vittima l’assassino da parte della vittima. Le uniche 2 differenze sostanziali sono che il racconto su cui si base l’individuazione della vittima nel primo è l’anima del plot mentre nel romanzo di Berkeley è solo un inciso, che potrebbe non avere nessuna utilità perché Moresby conosce già l’identità della vittima ma che dà a Roger il potere ancora una volta di affermare le sue doti di introspezione psicologica; e che mentre nel romanzo della McGerr tutto il romanzo si basa solo sull’identificazione della vittima, mentre dell’assassino si conosce già il nominativo, nel romanzo di Berkeley, vengono analizzati e entrambi vengono scoperti da Sherringham: vittima e assassino. Perchè sulla base di detto racconto, si evidenzieranno degli utili indizi per arrivare alla soluzione finale.
Si avrebbe cioè una risultanza ancora più sconvolgente: Patricia McGerr non sarebbe solo debitrice a Berkeley dell’inversione tra assassino e vittima in Pick Your Victim, ma anche il successivo The Seven Deadly Sisters che presenta un’altra variazione – scoperta di vittima e assassino – non sarebbe affatto originale, in quanto tale variazione del Whodunnit, è già l’anima del romanzo di Berkeley, in cui appunto Sherringham scopre nel corso di una scommessa con Moresby, quale sia la vittima, ma anche poi, alla fine del romanzo, l’assassino.
Sarebbe interessante vedere quando l’opera di Berkeley fu per la prima volta tradotta e pubblicata in America: ebbene, nello stesso anno della prima edizione inglese, 1932, Doubleday Crime Club, di New York, firmava la prima edizione statunitense del romanzo di Berkeley. A questo punto sarebbe interessante investigare sull’influenza che potrebbe aver avuto questo romanzo di Berkeley su Patricia McGerr, sempre che si provasse però che a lei piacevano i romanzi polizieschi inglesi.
Nessuno dice espressamente che vi sia stato plagio, ma cosa può essere accaduto se i due autori hanno formulato due storie così sovrapponibili l’una all’altra? Un caso simile a quello di Hilary St George Saunders che prese come modello per il suo The Sleeping Bacchus, la celeberrima Camera Chiusa di Pierre Boileau, Le repos de Bacchus? Solo che La McGerr rivendicava il suo genio con queste parole :
“From my reading I knew that a classic mystery included a murderer, a victim, and several suspects. So I began by assembling the cast of characters. But when I began to assign roles, it was obvious that only one of them could commit murder, whereas any of the other ten might be his victim. So, reversing the formula, I named the murderer on page one and centred the mystery around the identity of the victim.”
E quindi non menzionava in nulla il modello originario di Berkeley.
E perché mai Berkeley, e questa è la cosa che più mi incuriosisce, non avrebbe rivendicato la paternità della genialità da lui inventata ben prima che vi ci accingesse Patricia McGerr? Possibile che si fosse tanto disinteressato dal mondo del poliziesco da rifiutare persino di accampare diritti su qualcosa di cui altra si dichiarava genitrice?
Mah.
Certo che la critica poliziesca d’ora in poi avrà un altro mistero da risolvere.

Pietro De Palma

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CONSIDERAZIONI PERSONALI DI UN LETTORE AFFEZIONATO, COLLEZIONISTA (ANCHE) DI CAMERE CHIUSE

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La risposta telegrafica di Franco Forte richiede una mia considerazione non del tutto telegrafica.

Innanzitutto, la risposta che ha dato a me è la stessa che hanno ricevuto altri.  Però mi conferma quel che pensavo: Dazieri  rispondeva al lettore, e ci metteva del suo. La sua invece, che è una risposta del tutto anonima e sfuggente, come se non volesse dire di più di quel che voglia o possa, cercando di non scontentare ma nel tempo stesso non promettendo nulla, rivela come la sua posizione, all’interno della struttura a cui è stato posto a capo, non è tanto sicura, come si credeva (e come ho creduto anch’io).

Quale indizio suffraga questa mia ipotesi? Il fatto che Forte neanche risponda a quella che era una domanda legittima, suffragata da una testimonianza diretta: io faccio riferimento a due romanzi i cui diritti,  a detta dell’autore, erano stati acquisiti da Mondadori, e l’Editor  non ne fa neanche menzione, come se non sapesse nulla, oppure non ne volesse parlare.

Cosa nasconde?

Mah, a me sa tanto che gli Halter, è vero che sono scivolati, ma… tanto! Probabilmente non li vedremo per del tempo, sempre che però li si veda: a buon intenditor poche parole!

Capite cosa sto dicendo?

Mi direte: “di quei due romanzi sono già stati acquistati i diritti!”. Sì è vero, lo ammetto. E d’altronde, felicissimo, in altro tempo lo annunciai io stesso sul Blog! Ma…è anche vero che in altri tempi, le buggerature sono state dietro l’angolo.

Igor mi disse una volta per esempio che a lui avevano chiesto di tradurre un quarto Steeman (questa cosa non la sa nessuno, tranne qualcuno) e della cosa lui aveva la prova, cioè il contratto scritto, di cui avrebbe pure potuto avvalersi (erano i tempi di Sandrone Dazieri. Probabilmente lo Steeman era stato approntato prima, quando c’era Magagnoli, penso io). Ma la ragion di Stato era meglio di qualunque altra cosa: e così, pur di non farsi nemico il nuovo editor, Igor rinunciò al quarto Steeman, che sarebbe stato…Il titolo non lo so proprio, lo sa solo lui.

Tutto finito?

Non credo.

L’anno scorso c’è stata una nuova puntata di questo serial non televisivo ma editoriale: era dato in uscita nella primavera 2015, il secondo saggio di John Curran su Agatha Christie. Lo aspettavamo in molti, e in molti lo avevamo prenotato. Sarebbe dovuto uscire mi pare a marzo, poi fu rimandato a maggio, poi a giugno, poi se ne persero le tracce quando cominciò la campagna estiva degli Oscar Mondadori. Qualcuno pensava (io lo pensavo per esempio) che essendo un Oscar, verosimilmente l’edizione che sarebbe stata approntata, come quella del primo saggio di Curran che era uscito negli Oscar, uscendo in estate sarebbe stata deprezzata. Ma da allora…è scomparsa. Quando ne ho parlato, non so in quale spazio, qualcuno mi ha detto, alla fine del 2015, che il saggio sarebbe dovuto uscire nella primavera del 2016.

Sarà vero? Basterà aspettare e riscontrare se davvero si è trattato di un rimando strategico (ma poi perchè?) oppure dell’ennesima edizione desaparecida.

Staremo a vedere.

E staremo a vedere anche, se davvero i due Halter li vedremo tra un  anno oppure non li vedremo più, oppure se saranno messi in qualche casssetto, in attesa che qualche altro editor, sempre che ce ne saranno altri, li rimetta in circolazione.

Io ho sempre più marcata l’opinione che davvero uno dei consulenti editoriali storici, cioè Igor Longo, di cui non si sente più anima viva, abbia perso influenza presso l’Editor, si sia rintanato in un eremitaggio consapevole. Ci sono delle cose che mi fanno pensare a ciò: delle considerazioni di altre persone che non sono legittimato a diffondere, e alcune mie, in merito proprio alla scomparsa di letteratura francese.

Gli ultimi francesi sono stati i 2 Halter (Settima Ipotesi e Dartmoor) e un Pierre Boileau (Sei delitti

senza assassino), risalenti i primi due all’agosto 2013 e al gennaio 2014 e il Boileau al dicembre 2013. Noto come i tre romanzi uscirono in un lasso di tempo molto breve, gli uni dagli altri: come se era previsto che ne uscissero altri ancora. Quale altra ragione ci sarebbe stata nel far uscire tre romanzi francesi uno dopo l’altro, se non quella di sbarazzarsi di essi e pensare ad altri, se non fossero stati approntati? Se davvero io editore pensassi a rallentare le uscite di un dato autore, del resto molto amato, per alcuni motivi, magari perchè di romanzi non ve ne sono ancora molti, e non li voglio sprecare tutti in una botta, penserei a cadenze più allungate nel tempo; e non, invece, a buttarli nell’arena tutti insieme!

Io sospetto che debba essere accaduto qualcosa.

So per certo che Igor, nel 2008, mi parlò, dopo suoi contatti che aveva avuto in Francia con calibri del tipo di Roland Lacourbe, in merito alla possibilità che lo stesso Lacourbe potesse collaborare col Giallo Mondadori, in qualche iniziativa: allora Igor si sentiva forte, e in una botte di ferro! Poi..deve aver capito che i tempi erano cambiati. Io al suo posto, avendo preso se non proprio degli impegni, almeno essendomi impegnato in qualcosa che non si sarebbe più realizzato, mi sarei eclissato, per non fare una figuraccia. Non so se sia accaduto a Igor. Certo è che Igor Longo, che assicurava a tutti i lettori italiani amanti dei romanzi francesi una assicurazione sulle letture, è scomparso: qualche volta riappare in qualche romanzo tradotto in inglese, ma…non è la stessa cosa. Di traduttori in inglese ce ne sono! Di traduttori in francese no, o almeno molto pochi! Igor è un ottimo traduttore dal francese, che non sappiamo quando riprenderà a tradurre.

L’avete capito che la situazione è nera? No? Beh, allora, leggete tra i righi.

Perchè Forte dice che il 2016 sarà un anno cruciale? Ho come l’impressione che Forte si senta controllato, che la sua gestione sia come “commissariata”: rivendica che il dimezzamento delle uscite e l’aumento di prezzo dovuto alle congiunture editoriali, hanno favorito una certa stabilizzazione e auspica che il GM riprenda forza e dimostri che la formula dal paperback economico ma con autori di qualità e traduzioni curate, è ancora valida, e capace di raccogliere il consenso del pubblico. Per fortuna, i dati del secondo semestre 2015, relativi proprio a questi cambiamenti importanti subiti dalla testata, ci dicono che abbiamo imboccato la strada giusta: le percentuali di rese sono calate, le copie vendute sono più stabili, il conto economico relativo a ciascun fascicolo migliorato sensibilmente.

Hanno scoperto l’acqua calda: è ovvio che diminuendo le uscite, diminuiscano anche le rese, e quindi si  maturi un risparmio! Ma c’era bisogno che ce lo venisse a dire Forte questo? A me sarebbe piaciuto, più che un elenco delle cose che usciranno, a patto che escano, che avesse parlato in maniera chiara, diradando le nubi e non facendole addensare : per esempio quando afferma che i romanzi annunciati usciranno “naturalmente con tutti i cambiamenti che potranno intervenire per esigenze di calendario, e che adesso non è possibile prevedere”.

Ma che vuol dire esigenze di calendario? Voi l’avete capito? Io no.

Due sono i discorsi: o le uscite vengono programmate e allora sono sicure, o è meglio non programmarle, perchè sai già che non sono sicure. Che senso ha dire: uscirà un inedito di… se poi non esce ( e tu sai già che può non uscire)?

La formula dal paperback economico ma con autori di qualità e traduzioni curate, è ancora valida, dice Forte nel suo editoriale.

Anche di questo ci rallegreremmo se fosse realmente vero; invece dobbiamo considerare che molte volte, invece che uscire determinate traduzioni, ne sono uscite delle altre più datate.

Lo so che Forte cerca di far quadrare il cerchio, però da qui a suonar la grancassa ce ne vuole!

Soprattutto Franco Forte si ricordi che quando dice :” Come sempre accontentare tutti è impossibile e dunque si procede cercando almeno di restare in equilibrio sul filo“, afferma innegabilmente una cosa vera. Però, nel momento in cui,  dice che bisogna restare in equilibrio sul filo, ma accontenta solo alcuni, quelli che secondo lui in maggioranza leggono le testate, e quindi fa uscire preferibilmente romanzi di un determinato genere che possano appagarli, non può alla stessa maniera chiedere il sostegno di tutti:  così avrà indubbiamente il sostegno della parte favorita, ma quella che non lo è stata, non credo che sarà soddisfatta alla stessa maniera.

Dott. Forte, senta anche il mio consiglio: non cada negli stessi errori di Altieri. Altieri per contentare la parte che lui credeva vincente (il giallo all’italiana) affossò la collana, lei ora sta accontentando solo alcuni più di altri.

Altieri perse gran parte dei lettori che migrarono altrove e riportarli indietro poi non  fu  facile: vuole ripetere questa esperienza, direttore ?

Se si vuole il sostegno di tutti,bisogna almeno dare  un contentino a tutti.

Alla prossima.

Pietro De Palma 

P.S.

Halter e Doherty sono anche un simbolo di quello che si pubblicava prima e non si pubblica più, roba cui anche si era fatto menzione che potesse uscire o che sarebbe uscita e poi non lo è stato più: Connington, Bardin, Rhode, MacDonald, gli autori giapponesi e francesi che nessuno più pubblica, gli autori minori che hanno scritto però romanzi di grande importanza pubblicati ormai solo da Polilllo, etc etc etc

 

 

 

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Il Philo Vance di Giorgio Albertazzi: un trionfo della RAI di un tempo.

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In occasione della ripubblicazione ne I Classici Mondadori di Aprile di “La strana morte del signor Benson” prima avventura del Philo Vance di S.S. Van Dine, ripropongo in questa sede un famoso breve saggio da me scritto e pubblicato nel Blog Mondadori anni fa, opportunamente rivisto e ampliato. Data la lunghezza, è stato diviso in due parti: la seconda sarà pubblicata il 13 aprile prossimo.

Nel 1974, La RAI Radiotelevisione Italiana, che un tempo contribuiva alla cultura in Italia creando i più bei sceneggiati e le più belle riduzioni teatrali (talora lo fa ancora), mandò in onda i 3 primi casi di Philo Vance, di S.S. Van Dine (La strana morte del signor Benson, La Canarina assassinata, La fine dei Greene), ridotti per la televisione, affidando il personaggio principale a Giorgio Albertazzi,

Per la TV, Albertazzi aveva gà lavorato e aveva conseguito notevoli risultati, ancor oggi apprezzati (L’Idiota di Dostojevskj, Mr Hyde di Stevenson); il Philo Vance viene ritenuto comunemente un interludio, una produzione minore nell’ambito di quelle interpretate dall’attore: io penso invece che abbia rappresentato una tappa significativa, al pari delle altre produzioni ricordate.

Sia L’Idiota, sia Mr Hyde, sono personaggi difficili, con molte caratterizzazioni presenti nello stesso soggetto, molto sfaccettati, un po’ com’è lo stesso Albertazzi; e non a caso, quando li si ricordano, come il Philo Vance di cui intendiamo parlare, si associano mnemonicamente e visivamente allo stesso interprete, un po’ come il Pinocchio di Carmelo Bene, l’Amleto di Albertazzi o Gassman, la regina Gertrude di Anna Proclemer. E del resto, Albertazzi, in un inciso nel corso della presentazione del suo personaggio, lo dice chiaramente: “..il mio Philo Vance“: questa paternità, questo assumersi la responsabilità della resa del personaggio televisivo, distinguendolo da quello narrativo, dimostra un preciso intento, condiviso dalla produzione. E del resto, il tutto lo si evince da come Philo Vance venga presentato: Albertazzi si presenta, viene truccato, si abbottona una camicia, si sistema una cravatta, e presenta Philo Vance, così come lo fa all’inizio de La strana morte del signor Benson, lo stesso Van Dine: ovviamente Albertazzi riduce la presentazione del personaggio, che nel romanzo è di tre-quattro pagine fitte, e ne sintetizza i caratteri guida, tacendo quelli più macchiettistici (per es. la vanità estrema) e mettendo in evidenza invece quelli più intellettuali.

Il fatto curioso, che metto in evidenza, è che mentre si muove, si aggiusta il gilet, indossa la vestaglia da camera, entra nello studio televisivo, laddove si vedono gli addetti della produzione che sistemano la scena, muovendo la piattaforma con un divano, e altri che osservano, parlano, lui chiede di poter leggere qualcosa (la scaletta?), lui, Giorgio Albertazzi, è già Philo Vance o Philo Vance è ancora Giorgio Albertazzi?

La domanda nasce spontanea dal fatto che molto spesso c’è un’apparente confusione tra come il personaggio sarebbe dovuto essere presentato da Van Dine e come invece lo presenta l’attore: non si capisce bene  se le considerazioni che Albertazzi fa a margine siano proprie o di Van Dine, per esempio quando presenta gli interessi di Philo Vance: che adorava la pittura (ma pare di capire che anche Albertazzi la ami) e le stampe cinesi e giapponesi (in questo caso pare invece di capire che lui, Albertazzi, le ami un po’ meno e si osservi anche come lo dice). Secondo me, Albertazzi gioca volutamente e il suo gioco consiste nel confondere quello che è peculiare di Philo Vance e quello che è peculiare di suo, facendo presente che lui non è Philo Vance pur essendolo. Insomma il Philo Vance di Albertazzi può essere anche una sorta di operazione culturale, in cui nell’attimo in cui viene interpretato il personaggio, si insiste sul fatto che esso sia una interpretazione personale : in altre parole nel corso degli sceneggiati, Giorgio Albertazzi non è tanto Philo Vance quanto il contrario.

L’allestimento e la costruzione degli ambienti scenografici all’interno del film, quasi che la scena cui noi assistiamo non fosse altro che una scena nella scena ( un po’ come l’accattivante “La tavola dipinta” di Perez Reverte, romanzo in cui i protagonisti sono chiamati a risolvere un mistero inserito in una tela dipinta, ossia una partita a scacchi), mi ha ricordato il precedente Jesus Christ Superstar di Norman Jewison (in cui una compagnia di attori e cantanti che devono rappresentare la Passione e Morte di Cristo, una volta arrivati sul luogo deputato a fare da sfondo al dramma, da uno sgangherato pullman scaricano anche i vestiti di scena, le armi, la croce); e se Marco Leto non è Norman Jewison, questa trasposizione dei classici polizieschi ha il merito di presentarci Philo Vance, come un esteta, un intellettuale che disprezza la cultura dei soldi facili, come viene riportato in un breve inciso. Si potrebbe quasi dire che Philo Vance sia un aristocratico, un nobile di un tempo posteriore alla Rivoluzione Francese, che disprezza la borghesia arricchita, che cerca in tutti i modi di assurgere a vette sociali e culturali senza averne i caratteri; che interpreta l’aristocrazia delle menti, il possesso di una cultura universale (o quasi) che lo fa sentire al di sopra dell’inutile volgo. Non a caso le vicende di cui si fa interprete Van Dine non avvengono nel mondo del “self made man” americano, di cui sono interpreti vari suoi colleghi, ma solo ed esclusivamente nel jet-set, quasi che la bellezza, l’arte di un delitto perfetto, non possa che avvenire fra mura nobili (noi diremmo debosciate, partendo da una prospettiva opposta; ma quella del resto è la prospettiva di De Quincey).

Philo Vance è ,quel che si può dire, un dandy aristocratico, laddove l’aristocrazia americana è basata sul censo, non come quella europea sul ceto. Philo Vance, come tanti soggetti, non è di destra né di sinistra (ma qual è il concetto di destra e sinistra in America rapportato ai repubblicani e democratici? Molto esile): potrebbe essere di destra, se non palpitasse in lui un’anima di sinistra, con cui interpreta e si accosta alle tragedie dell’uomo comune, pur mantenendo un’algida privacy.

In realtà Philo Vance va al di là della destra e della sinistra; anzi, facendo proprie le simpatie del suo creatore, Willard Huntington Wright, per Nietzsche, si potrebbe dire che Philo Vance essendo “al di là del bene e del male”, risponda più che ad una morale costituita o ad una società imperante, a se stesso. Così, in un certo qual modo, l’unico Dio di Philo Vance è se stesso.

Vance possiede pochi e veri amici (uno dei pochi a conoscerlo bene  e cui sia concesso entrare nella sua sfera intima, è il suo domestico Curie) e l’unica cosa che lo interessi, oltre l’arte, è non lasciare un problema insoluto, non perché un assassino rimanga libero nella società circostante (cosa di cui credo non gli fregherebbe nulla) di cui egli è un rappresentante, ma perché la sua ragione, la sintesi delle sue capacità deduttive ed analitiche, è necessario che vinca sul caos della soluzione mancata. Philo Vance diventa così un campione dello sport della mente, che per modi di fare e comportarsi sembra irridere talora gli stessi meccanismi di cui egli dovrebbe far parte: la società borghese gli interessa poco, anzi la disprezza, come disprezza il volgo, pur intrattenendo rapporti molto cordiali con quei soggetti che si meritano la sua stima per la loro intelligenza: parlando per esempio con Sproof, il maggiordomo di Casa Greene, ammicca sulle letture colte dello stesso (Marziale) e nello stesso tempo lo loda per il suo modo di intendere la vita, quasi da Seneca.

Tutto ciò ha fatto affermare al belga Ernest Mandel, il teorico più in vista del trotzkismo della seconda metà del novecento, autore di un bel saggio sulla storia del genere poliziesco visto seconda la prospettiva economica e sociale (Ernest MandelDelitti per diletto. Storia sociale del romanzo poliziesco, Interno Giallo, 1990), che il Giallo è un prodotto tipico della società borghese, in quanto, rappresentando delle vicende completamente avulse dal contesto reale dei conflitti che avvengono tra gli uomini, si contestualizza come un gioco tipico delle classi borghesi. E scrivendo l’introduzione allo stesso testo, il politologo Giorgio Galli, ha affermato: “..pare a me (come a Mandell) che il giallo sia un prodotto tipico della società industriale capitalistica”(op. cit. pag. V).

Così, Philo Vance dovrebbe essere il campione del giallo classico partorito dal capitalismo. Eppure così non è :. per lui l’assioma di Galli non vale, in quanto pur facendo parte di quella civiltà capitalistica, ne disprezza la borghesia arricchita. In altre parole, Philo Vance è un un ibrido, un anarchico del bel mondo, come solo gli appartenenti al mondo delle arti possono esserlo, non appartenendo ad alcun credo politico, a nessuno se non a se stesso, credente solo nelle arti, nell’eleganza dell’essere, nella civiltà, nella bellezza,

Quanto delle letture e dei miti portati in scena da Albertazzi c’è in questo Philo Vance? A parer mio molto. In certo senso Philo Vance, che riassume nella sua complessità altri personaggi interpretati da Albertazzi, è esso stesso un personaggio che proprio nel suo snobismo, nel suo saper tutto e di tutti, nel suo cinismo e distacco dalle cose terrene, nella sua saccenza – tutte cose molto attenuate nella straordinaria interpretazione di Albertazzi – ci risulta oggi un po’reietto, e a molti anche parecchio antipatico (anche se probabilmente è solo un timido cronico, che non intende far vedere agli altri ciò di cui è fatto dentro, per timore di essere in qualche modo ferito); e lo stesso Giorgio Albertazzi, presentandosi e presentandolo al pubblico televisivo, aggiungeva che:  “Perciò, se qualche volta Philo Vance vi sembrerà troppo saccente, cinico, e forse un po’ antipatico, pensate al suo Autore che , non a caso, fu definito, dal critico Mencken, il più affascinante antipatico che avesse mai conosciuto“.

Tuttavia,  a quei tempi, fine degli Anni Venti e per tutti gli Anni Trenta, Philo Vance dovette sembrare ben altro. Del resto, la diversità di prospettiva con la quale si vedeva il personaggio allora, e invece come lo si analizzi oggi, è da mettere strettamente in relazione a quello che era l’entourage culturale del tempo, tanto più che il suo stesso suo creatore, Willard Huntington Wright, il vero nominativo celato dietro lo pseudonimo di S.S. Van Dine,  si era occupato in quegli anni di far tradurre in americano, gli scritti di Nietzsche. Ben si capisce allora quanto della cultura e del mito del Superuomo potesse esser stato tradotto nella figura di Philo Vance.

Rilevo, infine, un certo pudico non rivelare la verità sul come, un bel giorno, Willard Huntington Wright avesse pensato “di darsi al romanzo poliziesco”: Albertazzi, applicando il motto “vizi privati pubbliche virtù”, ci consegna l’immagine di un uomo a cui, a causa di un esaurimento nervoso, fosse stato prescritto di riposarsi e leggere cose amene, per es. gialli; in realtà, secondo il suo biografo John Lougherry, Van Dine, sarebbe stato affetto da una pesante dipendenza dalla cocaina e da droghe in generale, e fu durante una cura per disintossicarsi che scrisse il primo romanzo; e pare che proprio la cocaina ne avesse minato e predisposto il fisico ad una morte tutto sommato imprevista, nel 1939.

Questa interessantissima serie di tre sceneggiati andati in onda dal 3 al 21 settembre 1974, ognuno dei quali divisi in due puntate, ha inizio con La strana morte del signor Benson.

Non so per quali motivi furono scelte per la loro trasposizione televisiva proprio le prime tre avventure di Philo Vance. Tuttavia è da mettere in chiaro come, nel novero di tutte quante, proprio le prime tre costituiscano “un tutt’uno” diversamente dalle altre: La strana morte del Signor Benson, rappresenterebbe la vicenda di un uomo solo, un single; la vicenda di una donna e di una storia di coppia, La canarina assassinata; e a coronamento ideale, con la storia di una famiglia, La fine dei Greene. E si osservi anche come in quello stesso anno, in cui per la prima volta la serie dei tre sceneggiati andò in onda, ci fu il referendum popolare sul divorzio: possibile che qualcuno, pur nella RAI cattolico-democristiana, che doveva formare le coscienze della nazione, puntando soprattutto sui cardini del vivere civile, innanzitutto sulla famiglia, non abbia riconosciuto la valenza rivoluzionaria di questo sceneggiato? Che nelle sue diverse tre parti in sostanza metteva alla sbarra tre diversi modi sbagliati di vedere la famiglia: il single Don Giovanni che finisce ammazzato; la Canarina che,ambiziosa, vuole costruirsi a tutti i costi una posizione sociale, ma finirà distrutta nei meccanismi del suo sogno; e una famiglia in cui invece che amarsi, tutti quanti i figli e la madre, tutti, si odiano vicendevolmente. Del resto, come il divorzio è la fine di una famiglia, così lo è pure La fine dei Greene, in cui invece viene rappresentato il suo ideale contrappasso. Infatti, la distruzione di una famiglia tipo, oltre che essere data dal divorzio, può esserlo anche in ragione del desiderio dissennato di tenere avvinti, oltre le loro effettive aspirazioni, i singoli suoi appartenenti. Cosicché l’unica strada possibile alla distruzione della famiglia, sembra essere “il non attuare l’estremo disegno di tenere unita una famiglia che non lo è” forzando i singoli, cosa che invece è il desiderio del patriarca dei Greene, Tobias, perché così si possono solo avere due possibili risultati, che sono ambedue, delle liberazioni: il divorzio o la morte.

Nel suo primo romanzo, il prologo è incentrato su casa Vance: qui arriva il Procuratore Distrettuale Markham che sulla base di una promessa fatta precedentemente a Philo Vance, lo invita a seguire con lui un caso di cui egli è chiamato ad occuparsi: la morte di Benson, un affarista, socio e fratello di un suo amico, il maggiore Benson (interpretato da Quinto Parmeggiani). Subito notiamo la caratterizzazione del vestiario: nei romanzi di Van Dine, Philo Vance ha dei caratteri quasi sempre simili ( monocolo, capelli brillantinati e tirati all’indietro ) e degli abiti all’ultima moda di quegli anni. Van Dine dice per es. che : “..Chiamò Currie con il campanello e gli ordinò di portare i suoi abiti. – Assisterò a una levée tenuta dal signor Markham in presenza di un cadavere e vorrei mettermi in ghingheri. Fa abbastanza caldo per un completo di seta?…E una cravatta color lavanda, assolutamente” (S.S. Van Dine, La strana morte del signor Benson, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, trad. Pietro Ferrari, 1992,  pag. 17). Ora, Albertazzi/Vance non è vestito così: anzi, pur elegante, il completo non è di seta ( è possibile che i vestiti di scena della RAI non lo contemplassero) e la cravatta, che qui è scura, sarebbe dovuta essere color lavanda.

All’inizio della pagina dopo, Vance rintuzza un’osservazione del suo amico, dicendo che lui non porta mai fiori all’occhiello, “che è un vezzo caduto in disgrazia  e che lo praticano solo i gaudenti e i suonatori di sassofono” (op. cit. pag.18).Tuttavia, nel corso dello sceneggiato, Vance porterà sovente all’occhiello proprio un fiore: dimenticanza, o voler rendere più farfallone, quel Philo Vance che in realtà è molto più cupo di quanto non appaia?

Davanti alla morte com’è Philo Vance? Vance ne è al di là, in una sfera tutta propria. Egli non si pone, come invece lo fa il suo alter ego televisivo, il problema di non essere offensivo in un contesto di morte:, se ne fa un baffo, analizza tutto distaccato, quale potrebbe essere una divinità greca in mezzo al  mondo degli umani, capace di analizzare, di ponderare, di superare le passioni. Ma anche nella morte cerca di essere elemento di contrasto, di essere al centro dell’attenzione: ecco un completo di seta e una cravatta color lavanda. Ma un italiano, potrebbe mai andare laddove c’è (o c’è stato) un morto con un abito sconveniente? Ecco allora un Philo Vance-Albertazzi vestito più sobriamente..

Si atteggia come se fosse distaccato, tanto da parere cinico, ma in realtà è interessato e toccato dagli eventi: “Margaret Odell, eh? La bionda Aspasia di Broadway, o era Frine che aveva la coiffure d’or?..Molto doloroso! Nonostante i modi distaccati, mi accorsi che era profondamente interessato” (S.S. Van Dine, La Canarina Assassinata, trad. Pietro Ferrari, I Gialli del Lunedì, L’Unità/Mondadori, pag. 18). Eppure la sua vanità viene sempre prima : “Che mancanza di tatto!..Scusatemi, devo scegliere una tenuta adatta per l’occasione. Sparì nella camera da letto, mentre Markham estraeva un grosso sigaro..In meno di dieci minuti, Vance ricomparve pronto per uscire. – Bien , mon vieux – annunciò gaiamente, mentre Currie gli porgeva il cappello, i guanti ed un bastone di malacca. – Allons-y!” (op. cit. pag. 18).

Si osservi la differenza di comportamento che intrattiene Vance nel caso de La strana morte del Signor Benson e de La Canarina Assassinata, cosa che ancora una volta desumiamo dal suo vestiario: nel primo caso si veste in ghingheri, come se andasse ad una festa, non certo ad un funerale. La ragione c’è : Vance dice espressamente: “- Molto premuroso – mormorò Vance, aggiustandosi il largo cravattino bianco di piqué davanti a un piccolo specchio policromo vicino alla porta, prima di rivolgersi a me: – Vieni con noi, Van. Daremo tutti un’occhiata al defunto Benson. Sono sicuro che qualcuno dei segugi di Markham svelerà come io detestassi il farabutto accusandomi del delitto; mi sentirò più sicuro, sai, con un talento giuridico a portata di mano… Nessuna obiezione, vero, Markham?”( S.S. Van Dine, La strana morte del signor Benson, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, trad. Pietro Ferrari, 1992,  pag. 18).

Philo Vance detestava Benson giudicandolo un farabutto: ecco perché non indossa certo una tenuta da funerale. Ma nei confronti de “La canarina”, il suo atteggiamento è diverso: lo dimostra il fatto che di lui, così attento come ogni dandy all’abbigliamento, non si sa cosa scelga di indossare; presumiamo qualcosa che esprima se non il suo dolore, almeno il suo composto rispetto.

Si noti anche quali abiti indossi il Procuratore (nello sceneggiato, Sergio Rossi): abiti più dozzinali, contrapposti a quella di ottima fattura dell’investigatore. Anche qui c’è un’operazione culturale. Noto tuttavia come Markham nel romanzo abbia i capelli grigi, mentre nello sceneggiato li ha tutti neri; inoltre, chissà perché il Markham di Marco Leto fuma la pipa, mentre il Markham di Van Dine fuma sigarette o sigari. Per quanto riguarda invece Philo Vance-Albertazzi, vengono rispettati i clichet: il protagonista funa solo sigarette, le Rége, preferibilmente col bocchino.

Ovviamente Vance-Albertazzi è molto più teatrale, di quanto non appaia il vero Vance nelle pagine dei romanzi: si veda come duetti nella breve scena con la protagonista femminile de La canarina assassinata, cioè con una Virna Lisi allora al massimo del suo splendore fisico, oppure in varie scene con Lia Tanzi che interpreta una mantenuta; oppure soprattutto con Paola Quattrini, interprete della prima memorabile riduzione, La strana morte del Signor Benson: si assiste quasi ad uno scontro-incontro fra titani del palco, in uno più ridotto, ma più visto, il palco televisivo.

E che la parte della Quattrini (allora molto attiva in TV: aveva girato nel 1972 I demoni di Dostojevskij e nel 1973 Puccini) fosse centrale nella trasposizione, lo si capisce dal fatto che assistendo attentamente all’azione, si osserva come il piccolo scrigno coi gioielli, che nell’opera originale viene preso dall’assassino e  si ritrova nella sua abitazione, nello sceneggiato televisivo RAI passi di mani in mano: prima viene messo dall’assassino nell’armadietto del Capitano Hagedorn, fidanzato di Muriel Clair; poi quello lo trova e allora spaventato lo nasconde in casa sua, dove viene ritrovato da Muriel-Paola Quattrini. Tutto ciò è funzionale al fatto che Vance si rechi a casa della bella Muriel proprio mentre lei sta uscendo di casa con lo scrigno per disfarsene, e abbia con lei un dialogo che è un miracolo di resa teatrale, quasi un duello fatto di attacchi e parate, che nel romanzo originale non c’è proprio; perché poi, lui possa averla come propria complice per smascherare il vero assassino, a casa del quale la bella Muriel porta i gioielli.

Il dialogo con la bella Paola Quattrini (anche assai brava) che è uno scontro felpato tra felini in cui ognuno dei due cerca di far presa sull’altro (il seduttore e la seduttrice), fa da pendant a quello con Lia Tanzi ne La canarina assassinata (laddove lui fa il gatto sornione e lei..il topolino). Va detto che però, la presenza di dialoghi e scene che nell’originale non esistono, e l’eventuale cambiamento di scene  (qualcosa detto in casa è invece ambientato in auto nell’originale) hanno lo scopo di sostituire le analisi troppo sofisticatamente poliziesche e forse un po’ pedanti, che avrebbero guastato la resa televisiva, volutamente più brillante. Tuttavia quella centrale che si basa sull’altezza dell’omicida è resa meravigliosamente: c’è tutto, tranne una cosa : nell’originale si parla di una vasta macchia dovuta al sangue e alla materia cerebrale che il colpo ha fatto schizzare fuori e ha impregnato il tappeto, qui non vi è nulla (neanche il tappeto!), tutto asettico e pulito (forse che sarebbe potuto essere troppo impressionabile per il pubblico italiano?). E un’altra incongruenza: nell’originale il morto leggeva qualcosa quando è stato ucciso ed è morto indicando qualcosa, mentre nello sceneggiato non ve n’è traccia.

Del resto, se parliamo di incongruenze, quelle de La fine dei Greene sono straordinarie: la prima e la terza delle prime tre avventure di Philo Vance sono le più complicate, mentre La Canarina assassinata è come se fosse un meraviglioso divertissement, la prima vera Camera Chiusa di Van Dine, un gioco  in cui rimpianti, vezzosità, incongruenze, voci che vengono dall’oltretomba ( perché nel momento in cui si sente la voce di Odell provenire al di là della porta d’ingresso, lei, La Canarina, era già morta) formano un puzzle intricatissimo la cui soluzione era lì, sotto gli occhi di tutti. A cominciare dalla porta secondaria dell’albergo che Vance-Albertazzi dimostra platealmente come potesse essere chiusa dall’esterno ricorrendo ad una semplice pinzetta e ad uno spago; e finendo con qualcosa in grado di sostituire la voce umana: un grammofono. Sottolineo, tra l’altro come un altro grandissimo che giocherà con l’illusionismo nei suoi romanzi, Clayton Rawson, a qualcosa di simile affiderà una parte importante del suo Death from a Top Hat: una radio che, con un sistema ingegnoso (una bolla di cera tiene uniti due fili, finchè al calore essa si scioglie, determinando l’allontanamento di quelli e quindi lo spegnimento della radio) si spegne al tempo debito, non prima però d’avere convinto qualcuno che lì, in quella stanza, ci fosse qualcuno. Come appunto in Van Dine. Ma se lo scopo dell’uso del grammofono è quello di creare un’illusione, cioè dimostrare al portiere dell’albergo (sollecitato a correre presso la porta dell’abitazione di Margaret Odell, dallo stesso assassino) che a quell’ora, la Canarina è ancora viva (mentre non lo è più), e la stessa radio in Rawson, sostanzialmente ha la funzione di creare un’illusione, in altro romanzo, And Then There Were None di Agatha Christie, del 1939, la voce incisa su un disco, e amplificata dal grammofono, di Mr. Owen, il padrone di casa, vanamente aspettato dai dieci presenti, ha il compito di creare un’illusione opposta, cioè dimostrare alle dieci persone presenti, i cosiddetti “10 piccoli indiani”, che la persona che parla attraverso la voce registrata sul disco, non sia materialmente presente in mezzo a loro, cosa che invece è.

                                                                                                              Fine 1^ parte

PIETRO DE PALMA

 

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Il Philo Vance di Giorgio Albertazzi: un trionfo della RAI di un tempo

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La canarina assassinata è in certo modo meno problematica, meno cerebrale del terzo capitolo, La Fine dei Greene. E anche nell’ambito dei tre sceneggiati, tutto ciò si nota. Purtuttavia, nel corso delle tre avventure interpretate da Albertazzi, l’interprete riesce, proprio in un inciso de La Canarina assassinata, all’inizio, a rivelare con la sua straordinaria arte drammatica la natura nascosta di Philo Vance, la sua anima problematica e sensibile, che volutamente copre con una maschera di cinismo.

Il passo trova la sua collocazione all’annuncio della morte della “canarina”, fattagli dal Procuratore Markham. Vance è in chimono (rosso? Il bianco nero fa supporre il colore ma non ne da certezza), ed è di spalle. Si volta, la telecamera fa un primo piano del volto di Albertazzi, col monocolo incastonato nell’orbita. Esso è forse il solo brano in cui l’interpretazione è volutamente tetra: “Me la ricordo in un ballo che definirei..ornitologico, adatto alle follie, in un locale di second’ordine. Indossava un costume di piume giallo, intornato ai suoi capelli biondi”.

Per ammirare e potersi fare un’idea dell’aristocrazia scenica di Albertazzi, che è anche aristocrazia intellettuale, si veda per esempio l’etereo “L’année dernière à Marienbad” di Alan Resnais di qualche anno prima: se proprio quell’Albertazzi avesse interpretato Philo Vance, a parer mio, sarebbe stata un’interpretazione forse maggiormente interessante. Tanto più che quando girò il film di Resnais si può dire che anche come età sua, fosse molto vicino alla figura di carta. Infatti, all’inizio de La canarina assassinata, vien riportato che “Philo Vance non aveva ancora compiuto trentacinque anni”, e quando girò il suo film Resnais, Albertazzi più o meno tanti ne aveva. Non invece quando interpretò il Philo Vance televisivo. Non è un’osservazione da poco: in quanto cinquantenne, non si sarebbe mai vestito come si veste più giovane Philo Vance. Almeno così la penso io; ma neanche forse avrebbe interpretato il suo personaggio allo stesso modo. Di solito, man mano che l’età avanza, ci si modera.

Direi che in questo caso la resa televisiva abbia sorpassato quella romanzesca: infatti, le parole che nello sceneggiato vengono pronunciate da Vance, quasi un epitaffio recitato ricordando “La canarina”, originariamente trovano spazio proprio all’inizio del romanzo, nel primo capitolo, quando il ricordo del caso non è stato ancora affrontato ma solo accennato: “..Margaret Odell aveva ricevuto il soprannome di Canarina in seguito a una parte sostenuta in un elaborato balletto orni­tologico delle Folies, dove ogni ragazza aveva una gonna che richiamava qualche uccello. A lei era toccato il ruolo della ca­narina; e il suo costume di satin bianco e giallo, insieme alla massa di luminosi capelli biondi e la carnagione bianca e ro­sea, l’avevano distinta agli occhi degli spettatori come una creatura di notevole fascino. Prima che trascorressero 15 giorni, tanto concordi erano stati gli elogi della critica e così regolari gli applausi del pubblico che il Balletto degli uccelli divenne il Balletto della canarina e la signorina Odell fu pro­mossa al rango di quella che caritatevolmente potrebbe esser definita première danseuse, con l’attribuzione di un valzer in assolo e una canzone1 interpolata appositamente perché desse prova delle sue molteplici grazie e talenti.vlcsnap-2016-04-13-09h57m07s946

Alla chiusura della stagione, la ballerina aveva lasciato le Folies e, durante la successiva e spettacolare carriera nei luo­ghi di ritrovo della vita notturna di Broadway divenne popo­larmente e familiarmente nota come la Canarina. Fu così che, quando la trovarono brutalmente strangolata nel suo apparta­mento, il delitto fu definitivamente denominato: l’omicidio della Canarina” (S.S. Van Dine, “La Canarina Assassinata”, trad. Pietro Ferrari, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, 1992, pag.7). Ecco allora spiegato il nome di “Canarina”, dato alla sfortunata Margaret Odell, attricetta e soubrette di locali di serie B.

vlcsnap-2016-04-13-09h52m14s011Faccio tuttavia notare una cosa che mi si è mostrata lampante e a cui anni fa, quando lessi per la prima volta il romanzo, non detti importanza : la somiglianza, sicuramente non casuale, tra Margaret Odell, ballerina in rapida ascesa, e la Principessa Odette, interprete del famoso balletto musicato da Tchaikowsky, “Il lago dei cigni”.

Odette-Odell, non sono solo due parole molto simili, ma sono anche collegabili, la prima alla seconda, anche per il fatto che si richiamano a due volatili: una canarina e un cigno. E ovviamente, sono due ballerine, anche se diversamente, quasi in maniera antitetica: per la prima dal dramma scaturisce il ballo (la Principessa Odette), per l’altra è il dramma che scaturisce dal ballo: infatti, Odell aspira ad una posizione sociale diversa da quella di una ballerina, e il dramma del suo assassinio deriverà dalle amicizie che lei ha costruito sulla sua attività di ballerina.

Prima d’ora, nessuno che io sappia, aveva posto a confronto Odette e Odell. Eppure, credo che la somiglianza tra Odell-Odette non sia affatto casuale: Odell è una Canarina, Odette è un cigno ed entrambe si trasformano di sera, perchè in entrambe c’è un doppio: principessa- cigno in Odette, canarina-donna della buona società in Odell; ed entramebe aspirano ad identificarsi e ad essere associate al loro doppio umano: Odell si serve della sua carriera di ballerina, in quanto canarina, per arrivare ad una posizione sociale rispettabile; Odette vuole abbandonare la propria natura di cigno a fronte dell’appropriarsi in toto della sua natura umana. E in entrambe c’è un uomo,che dovrebbe mediare la loro trasformazione: solo che per Odette la dualità tra il principe ed il mago, viene risolta a favore del primo; per Odell è il mago che vince. E vince con un’autentica magia: quella che giustifica l’avento impossibile di una voce che non vi dovrebbe essere.
Tuttavia, Odette e Odell, sono raffrontabili solo attraverso un’ altra personalità: Odile. Così abbiamo : Odell che si avvicina moltissimo ora a Odile, e Odette: Odell – Odile – Odette.
Attraverso la mediazione di Odile, la figlia del mago, rappresentata nel balletto, dal cigno nero, possiamo veramente ora capire il tentativo di Odell di trasformarsi in Odette: nel balletto, a rappresentare Odile e Odette è la stessa ballerina, così da far capire come una stessa persona a seconda di mutevoli condizioni possa essere vista in modi differenti.
Così, come Odile è la principessa nera, quella che in virtù della magia del padre, ambirebbe a esser scambiata in Odette da Siegfred, così Odell vorrebbe essere trasformata da ballerina di varietà, ammirata ma niente più di tanto, a donna rispettata della buona società. E così la parabola di Odell-Odile potrebbe essere spiegata come la parabola di un canarino che ambisce a diventare il cigno-Odette, non perchè lo diventi in realtà ma perchè Siegfred la veda trasformata. Solo che Odell come Odile finisce la sua storia allorquando Siegfred non la vede più come cigno, trasformazione, ma quello che è: una donna che voleva diventare altro, ricorrendo anche al sotterfugio: Odile grazie alle arti magiche del padre, Odell grazie al ricatto.

A parte ciò, è da notare la curiosa esibizione della canarina sul palco del locale: Odell-Virna Lisi, splendida (non aveva ancora quarant’anni), canta seduta su un’altalena (anche nelle gabbie dei canarini ce ne sono), mentre delle ballerine la attorniano: quello che vorrei far notare è come le ballerine indossino degli improbabili pantaloncini, tipo shorts, che sicuramente in quel tempo (ricordiamo che La canarina assassinata è del 1927) non ci si sarebbe mai sognato di indossare. Avendo infatti il balletto una certa connotazione erotica, si sarebbe mostrato qualcosa in più che tuttavia la RAI di quegli anni non si sarebbe mai sognata di autorizzare.

Altra cosa che è censurata, nello sceneggiato, è la morte: se ora siamo abituati ad assistere a ben altro (vedasi per es. la serie Bones), in uno sceneggiato RAI in cui la censura era in agguato, non ci si sarebbe mai sognati di rappresentare la morte nella sua crudezza: se infatti in La strana morte del signor Benson, la macchia di sangue e materia cerebrale che il proiettile alla testa ha provocato sul tappeto, nell’originale televisivo non si vede, altrettanto accade in occasione della ripresa del corpo della povera Odell, la cui rappresentazione nel romanzo è palesemente cruda :”..La testa era voltata all’indietro..i capelli, sciolti, pendevano dietro la nuca sulla spalla nuda come la cascata raggelata di un liquido dorato. La faccia, distorta dalla morte violenta, aveva perso ogni bellezza; la pelle era terrea, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata..” (S.S. Van Dine, “La canarina Assassinata”, op. cit., pag. 22 ), mentre nello sceneggiato semplicemente non si vede nulla, giacchè la vittima è presentata adagiata supina sul divano.vlcsnap-2016-04-13-09h58m00s699

Non è tuttavia la sola cosa che viene mutata della morte. Infatti, Van Dine, quando l’assassino è secondo lui un pazzo (ma aveva le sue ragioni lucide per agire, nell’alveo della sua pazzia, è ovvio!) oppure non avrebbe avuto altra possibile via d’uscita se non uccidere, gli concede una via di fuga dalla condanna a morte e dallo scandalo del processo: il suicidio. Così concede che l’omicida de La Canarina si uccida (il finale viene mantenuto nello sceneggiato) e Philo Vance lo permetta, oppure che l’omicida responsabile dell’ecatombe di Casa Greene, si uccida col cianuro: questa volta Vance nel romanzo cercherà di impedire la morte non riuscendovi, mentre nello sceneggiato semplicemente non c’è: infatti l’omicida finirà in manicomio. Il perché Vance non intervenga nel primo caso e invece nel secondo lo faccia, è dovuto al fatto, secondo noi, che nel primo l’assassinio sia compiuto, pur in condizioni eccezionali, cioè per evitare uno scandalo, da una persona nel pieno possesso delle sue condizioni psico-fisiche, mentre nel secondo, no. Fatto sta, tuttavia che in tutti i casi, la vicenda viene notevolmente alleggerita nello sceneggiato, a confronto con la stesura originale del romanzo. Vediamo, che in alcuni casi, cambia completamente lo spirito che fa da sfondo, per non dire altro.

Dei tre sceneggiati, il più complesso è La fine dei Greene.

Fu pubblicato nel 1927, e a detta di molti, assieme a L’Enigma dell’Alfiere e a Il Mistero del Drago, è tra i capolavori di Van Dine. Il tema non è che sia però così originale! Infatti, anche se pochi lo sanno, il tema della strage nell’ambito di un gruppo familiare, da parte di uno dei parenti, risale a parecchi anni prima: fu infatti  nel 1907, un tal Roy Horniman col suo romanzo Israel Rank , a introdurre la storia di un tale che, volendo essere l’unico a rappresentare la Casata dei Gascoyne, uccide tutti gli altri eredi. Tuttavia la resa di Van Dine è stupenda, e lui per la prima volta porta il genere ad un livello da capolavoro.

La Fine dei Greene influenzò parecchio la letteratura di genere, da quel momento: per esempio, lo stesso Wright, sulla scorta del successo ottenuto proprio con il nostro romanzo, ne propose un altro, qualche anno dopo, nel 1934, che si muoveva sulla stessa falsa riga: Signori, il gioco è fatto! (The Casino Murder Case); e anche “The Garden Murder Case”, Il Mistero di Casa Garden (1935) ripropone lo stesso iter: riunione di persone e omicidio. Lo stesso George Antheil, “The Bad Boy of Music”, sotto lo pseudonimo di Stacey Bishop, pubblicò presso Faber & Faber, Death in the Dark, un romanzo che guarda molto a Van Dine, e mi par di poter dire, a La Fine dei Greene, solo che qui il delitto avviene in Casa Denny, e si tratta di tre delitti impossibili. Il romanzo, mi piace dirlo, inquadra secondo me un’altra peculiarità del romanzo da cui prende le mosse, cioè il numero dei personaggi interessati all’azione omicida: 6 sono le persone nella cui cerchia si instaurava il rito della morte, in Casa Greene: Sibella, Ada, la madre dei Greene, Julie, Chester e Rex; e 6 guarda caso, sono i personaggi di Casa Denny, interessati all’azione in Death in the Dark : Gertrude Denny, F.Alvinson, J.Alvinson, Dottor Stein, Dave Denny, la madre dei Denny. Su quest’altra falsa riga, il numero 6, si sarebbero potuti muovere degli altri romanzieri, che anche pur non essendo vandiniani puri, proprio a Van Dine e in particolare al suo terzo romanzo avrebbero potuto rifarsi, non necessariamente seguendolo pedissequamente ( ricordo il carattere distintivo dei titoli dei romanzi di Van Dine, che hanno una struttura simile: The + nome + Murder + Case. E il nome, non scordiamolo, è stranamente sempre formato da sei lettere); romanzi che presentano 6 soggetti sospettati, oppure collegati tra loro da un patto, oppure invitati a pranzo o a cena, oppure ancora altro: dal James Ronald di Six Were To Die a Mystery Mansion di Herman Landon, da Dinner-Party at Bardolph’s di  Robert Alfred John Walling a The House of Brass di Ellery Queen, da Six Hommes Morts di S.A. Steeman a Six Came To Dinner di Roy Vickers, da Six Were Present di E.R.  Punshon a Six Under Suspicions di Charles Kingston.

Rispetto alla vicenda narrata nel romanzo, quella vista in televisione, ha numerose differenze:

vlcsnap-2016-04-13-10h14m05s422innanzitutto nella trama della vicenda, pur mantenendo identico omicida. Al primo omicidio, quello di Julie, e al ferimento di Ada, non segue come nel romanzo, l’omicidio di Chester, ma quello di Rex, che avviene più tardi nel romanzo; Chester così vivrà fino all’arresto dell’omicida e al suo internamento in un manicomio criminale (mentre nell’originale, quest’ultimo preferirà uccidersi con un fazzoletto imbevuto di cianuro di potassio); mentre nel romanzo i Greene compaiono dopo il primo omicidio, nello sceneggiato viene inventata tutta una situation presentando l’atmosfera in casa Greene, i personaggi, e l’omicidio e tentato omicidio stessi (una trovata televisiva, però di forte impatto e intelligenza); non è Chester che si reca dal Procuratore, ma il contrario; nello sceneggiato viene addirittura inventata di sana pianta una tresca tra Rex e la seconda cameriera, Alice Barton, e un loro incontro quasi in contemporanea col primo delitto; mentre nel romanzo Rex dorme in camera sua allorchè il delitto viene commesso, nello sceneggiato arriva poco a casa dopo essere uscito; nel romanzo, una sua parte importante ce l’ha la neve fuori alla casa, non perché si sviluppi una camera chiusa, ma perché il tutto sia funzionale per esempio alla sparizione della pistola nel primo tentato omicidio, che non avviene invece per opera del marchingegno usato per la morte di Rex (come invece nello sceneggiato); nello sceneggiato non si parla proprio della cuoca, vedendola di sfuggita, stagliata sullo sfondo e neanche coi lineamenti netti del volto, nella scena iniziale, della cena a casa Greene, la sera prima del primo omicidio, mentre nel romanzo una sua importanza ce l’ha tutta; nel romanzo ad un certo punto scompare la fiala di stricnina e della morfina, nello sceneggiato solo la stricnina (la morfina servirà per un secondo tentativo di omicidio, sempre ai danni di Ada, di cui nello sceneggiato non v’è traccia); infine nello sceneggiato, nella biblioteca della casa, chiusa da anni, si aggira una presenza che legge il trattato di criminologia “Handbuch für Untersuchungsrichter“ di Gross, invece nel romanzo oltre a quello, l’omicida legge anche un trattato di tossicologia (perché altrimenti non si spiega come avesse acquisito la necessaria competenza ad usare delle sostanze farmacologiche sconosciutegli), mentre nello sceneggiato ne si indica solo il dorso, assieme ad un testo sull’ isterismo; nello sceneggiato viene addormentata una poliziotta, messa al posto dell’infermiera, per evitare guai alla madre, che viene però avvelenata con la stricnina, mentre nel romanzo ad essere dopata è Ada con una dose quasi letale di morfina. Questo per la trama. Ma ci sono anche delle altre discrepanze.

Innanzitutto le date della tragedia: chissà perché nello sceneggiato esse cominciano dal 16 (non si sa il mese), mentre nel romanzo l’inizio è in data 9 novembre; Vance-Albertazzi viene ricevuto dal maggiordomo Sproot che a detta del romanzo dovrebbe essere un uomo bassino e dai capelli grigi, e che invece ci appare abbastanza alto e coi capelli neri; Albertazzi-Vance entra nella camera della madre dei Greene e qui ella rivolgendoglisi lo chiama per nome e cognome e gli annuncia che non venderà mai alcuna delle sue opere che ancora la villa possiede (ma nel romanzo non accade nulla di ciò e né la madre si rivolge a Vance né lo fa lui nei suoi confronti); la cameriera Barton, quella che nello sceneggiato ha la tresca con Rex, e che purtuttavia resta alla sua morte in casa, nel romanzo alza i tacchi e se ne va dopo il primo omicidio; nel romanzo non è il dottor Oppenheimer a confermare la tesi di Von Blon (il medico della signora Greene e amante di Sibella, che poi si scoprirà esserne il marito da oltre sei mesi) sulla natura organica della paralisi della madre, quanto invece il dottor Doremus; Sibella,  nello sceneggiato rimane viva e vegeta, mentre nel romanzo viene quasi accoppata nella parte finale del romanzo, con una chiave inglese dall’omicida.

Insomma, il romanzo viene riscritto quasi completamente da Biagio Proietti e Belisario R. Randone, adattandolo al mezzo televisivo, cioè alleggerendo la trama, addolcendo i contenuti, creando delle love stories, e facendo in modo che il personaggio centrale, cioè Philo Vance, risulti, interpretato da Albertazzi, molto meno antipatico di quello che lui sembrerebbe indicare; prosa brillante e ad effetto, e talora delle glosse:

come avrebbe fatto mai l’omicida a usare su di sé la pistola senza vedere dove essa avrebbe prodotto il danno, se non utilizzando uno specchio? L’omicida è pazzo, ma finchè insegue il suo piano, è molto lucido: non avrebbe mai rischiato di morire, non portando a termine la sua macchinazione. Nel romanzo c’è ovviamente, nello sceneggiato no.

E ancora..una chicca, che sarà sfuggita ai più:

il sergente Heath davanti al corpo di Rex esclama : “E anche stavolta la rivoltella è una calibro 32!”. Come mai avrà fatto il sergente a poter fare una simile affermazione in mancanza della pistola (che verrà trovata solo alla fine) e senza che neanche il dottor Doremus abbia fatto l’autopsia? Il bello è che Philo Vance-Giorgio Albertazzi rinforza quell’affermazione con la sua : “Già : stessa arma, stesso assassino”. Incredibile! Tanto più che nell’originale vandiniano, si usa un altro tono: “Questa ferita sembra di una calibro 32“, dice il sergente; mentre Van Blon, rafforza: “Sembra prodotta dalla stessa pistola usata contro gli altri“. E Vance: “Si tratta della stessa arma…E si tratta dello stesso assassino” (S.S. Van Dine, La fine dei Greene, trad. Caterina Ciccotti, Grandi Gialli Rusconi, pag. 145).

Non è la stessa cosa. Nello sceneggiato, prima di questo omicidio, ce n’è stato solo uno (ed un tentato omicidio), mentre nel romanzo questo è il terzo; e se Vance rafforza una propria idea, i due che lo precedono nel dialogo non esprimono certezze, ma solo congetture, ipotesi.

E poi si guardi la scena, grottesca: il cadavere di Rex giace lì per terra, in camera sua, dinanzi al camino, e Philo Vance e il Procuratore Markham sono sprofondati in due poltrone, avendo tra loro il cadavere, e mentre l’uno aspira una Rége, l’altro pontifica fumando la pipa, tutt’e due impegnati a parlare di un omicidio il cui corpo è lì davanti a loro, con la stessa intenzione che avrebbero parlando non so..del balletto cui si è assistito la sera prima.

I protagonisti fissi dei tre sceneggiati, oltre ad Albertazzi, furono Varo Soleri (Curie), Silvio Anselmo (il Sergente Heath) cui fu affidata la parte del sergente che procede all’individuazione del colpevole secondo le regole consolidate e che è costretto a perdere ogni confronto con Philo Vance, che invece rappresenta l’imprevedibilità dell’azione poliziesca in cui l’intelligenza e la deduzione sono preponderanti sul resto; Sergio Rossi (Markham) uno degli attori più amati dal pubblico televisivo e Gianfranco Barra (il dottor Doremus) un grande attore caratterista del cinema italiano dalla fine degli anni sessanta ad oggi.

A dirla tra noi, Albertazzi non so se per richiesta sua o per casualità, finì in pratica per lavorare con un gruppo di attori, alcuni dei quali o avevano fatto parte della sua compagnia oppure comunque con lui (e Anna Proclemer) avevano lavorato in alcune produzioni: Anselmo, per esempio, che aveva già lavorato qualche anno prima di questa produzione, nell’Amleto diretto da Zeffirelli e in Antigone Lo Cascio con la regia dello stesso Albertazzi; ancor più Varo Soleri, il domestico Currie, che oltre a figurare nelle stesse due produzioni citate per Anselmo, aveva  interpretato assieme ad Albertazzi, l’Agamennone televisivo e Come tu mi vuoi di Pirandello, in teatro.

Così, andandolo ad analizzare, La fine dei Greene è il maggiore tra i tre lavori, per vari motivi, tra cui le stesse partecipazioni degli altri interpreti: se infatti nei primi due, Philo Vance-Albertazzi aveva duellato con Paola Quattrini e Quinto Parmeggiani  in La strana morte del signor Benson , e Lia Tanzi e Virna Lisi in La Canarina Assassinata, ne La fine dei Greene si trova a interagire con alcuni dei più bei nomi del teatro italiano: Micaela Esdra, grande attrice di teatro e televisione, che aveva lavorato, un po’ più giovane in I ragazzi di padre Tobia, una serie televisiva che vedevo quando ero bambino e di cui mi ricordo la sigla “Chi trova un amico trova un tesoro”) ma attiva anche dopo; un altro grande caratterista del cinema italiano (e anche del teatro) come Marco Tulli, che interpretava l’allampanato Sproof, il maggiordomo di casa Greene; Mico Cundari, altro grande attore televisivo di quegli anni (fu lui il Conte Certaldo discendente del Certaldo negromante in “Ritratto di donna velata” di Daniele D’Anza) attivo anche in pellicole cinematografiche di impegno, come Il caso Pisciotta o Il delitto Matteotti; Anna Maria Gherardi, che qui interpreta la Greene Sibilla, aveva lavorato precedentemente con Gassman in Adelchi prima e Orestiade, lavorando in televisione in Eneide; o ancora, la grande Elena Zareschi, che aveva lavorato con Gassman in Troilo e Clessidra, e Amleto di Shakespeare, Tieste di Seneca e Ornifle di Jean Anouilh; e ancora Mario Avocadro, Linda Sini, Nais Lago. Insomma..delle presenze variegate. Quel che mancava era però, a mio parere, una personalità di spicco, conosciuta dal pubblico televisivo, qualcuno che ne La fine dei Greene potesse essere quel che era stata la Quattrini in La strana morte del signor Benson, e Virna Lisi in La canarina assassinata. Ecco perché, a parer mio, si inventò un cameo per Tino Bianchi, altro personaggio conosciutissimo nella televisione di quegli anni (non scordiamoci che era stato l’indimenticabile Sir Olivier in “La Freccia Nera” di Anton Giulio Majano), che per di più aveva già lavorato con Albertazzi e Proclemer in Spettri di Ibsen, a teatro : gli si affidò la parte del notaio Ross, notaio sia di Vance che del vecchio Tobias, l’unico che avrebbe potuto edocere le autorità di polizia e lo stesso Vance sulla strana volontà testamentaria alla base della tragedia: eredità in blocco alla moglie, e alla sua morte, divisa in parti uguali tra i figli (anche Ada, adottata) a patto che vivessero, fino alla morte della madre, insieme, nella casa paeterna. In realtà la figura del notaio, è un’ulteriore invenzione degli sceneggiatori, in quanto nel romanzo, non esiste un tal personaggio, e tutto quanto riguarda le volontà testamentarie del patriarca Tobias, lo si evince leggendo il capitolo XVIII.

Per quello che invece riguarda la fedeltà dell’azione visiva rispetto a quella letteraria, credo di poter dire che mi sembra essere La canarina assassinata, lo sceneggiato meno variato rispetto all’originale, nelle linee guida.

Detto ciò, si evince che la serie non si può certo definire un’opera minore della TV di quegli anni l’atmosfera è resa televisivamente molto bene, e la bravura degli interpreti è conclamata. Bisogna dire che del resto condensare tutta l’azione di un romanzo “summa” com’è La fine dei Greene, con tutte le morti, l’azione e le complicazioni, la resa dei personaggi e quant’altro, in sole due puntate portava necessariamente alla rinuncia di qualcosa.

Albertazzi-Philo Vance, che guarda dallo spioncino della porta della cella del manicomio l’omicida ormai preda della sua pazzia, è l’ultima scena dello sceneggiato: quello sguardo è terribile. C’è un misto di repulsione e compassione, e anche di interesse scientifico, che solo un attore consumato come Giorgio Albertazzi avrebbe potuto rendere. Anche questa scena, nel romanzo, però, non c’è. Tuttavia la sua importanza l’ha tutta: concentra l’attenzione ancora su Philo Vance. Con Giogio Albertazzi non ancora Philo Vance era cominciata la serie, con Giorgio Albertazzi non più Philo Vance termina. Perché ovviamente, anche se non è rappresentato, possiamo immaginarci che dopo quella scena finale, le luci si siano spente, i riflettori pure, e Giorgio Albertazzi seguito da Micaela Esdra, finita la rappresentazione, dimessi i panni recitativi, siano andati via, come accade nel ricordato Jesus Christ Superstar di Jewison.

E se il bravissimo Albertazzi, ad un certo punto della sua presentazione di Philo Vance, nell’ambito del  primo episodio, afferra e offre alla telecamera un grosso libro appoggiato lì vicino, l’Omnibus Mondadori “Ritorna un eroe degli anni ’30, Philo Vance di Van Dine” (Omnibus in cui erano raccolte alcune delle avventure di Philo Vance in quelle traduzioni vetuste e non integrali, che avevano preceduto la ritraduzione di Pietro Ferrari), con la sua bella copertina di colore rosso, quasi a dimostrare come le storie sceneggiate non debbano essere che il rimando a quelle narrate nell’Omnibus, è anche vero, invece, che un indizio, per di più comune ai tre sceneggiati e estremamente appariscente, ci fa capire come i tre sceneggiati di Philo Vance siano più di Albertazzi che di Van Dine : è l’ assenza della spalla di Philo Vance nello sceneggiato (di colui che illustra le sue imprese, di colui che scrive, che descrive, che ci apre un mondo nelle pagine del libro), anche se questa assenza potrebbe essere spiegata in parte dalla sostituzione dello sceneggiato stesso, con le sue scene, dell’azione descrittiva nei romanzi, di Van Dine, fedele amico e consulente legale di Philo Vance, come si annuncia nella prima pagina di La strana morte del Signor Benson: “..Un breve cenno sui miei rapporti con Vance è qui necessa­rio per chiarire il mio ruolo di narratore in questa cronaca. La professione giuridica è profondamente radicata nella mia famiglia, sicché quando uscii dalla scuola preparatoria, quasi inevitabilmente venni mandato ad Harvard a studiare diritto. Fu là che conobbi Vance, una matricola dal carattere causti­co, cinico e riservato, croce dei docenti e terrore dei compa­gni di corso. Perché, fra tutti i compagni di università, lui abbia scelto me, per quel sodalizio extra-scolastico, non mi è stato del tutto chiaro. La mia simpatia si spiegava con facilità: Vance mi affascinava ed interessava offrendomi un genere inedito di diversione intellettuale. La sua inclinazione per me, tuttavia, non si basava su alcuna attrattiva del genere. Ero (e sono tuttora) una persona ordinaria, tendenzialmente conservatrice e piuttosto convenzionale. Ma perlomeno, la mia mentalità non era rigida, né si lasciava troppo impressio­nare dalla ponderosa procedura legale – motivo, senza dub­bio, del mio limitato interesse per la professione ereditata -; ed è possibile che questi miei tratti trovassero qualche rispon­denza nell’inconscio di Vance. Vi è, a dire il vero, la meno consolante spiegazione che lui fosse attratto da me come dal suo rovescio, o da un ancoraggio, quasi avvertendo, nella mia natura, un’antitesi complementare alla sua. Qualunque fosse il motivo, trascorrevamo molte ore insieme e con l’andar de­gli anni, quella comunanza sbocciò in un’inscindibile amici­zia.

Dopo la laurea, io feci ingresso nello studio legale di mio padre – Van Dine & Davis – e, dopo cinque anni di grigio apprendistato, entrai in ditta come socio più giovane. Al mo­mento, sono il secondo Van Dine dell’ufficio Van Dine, Davis e Van Dine, con sede al centoventi di Broadway. Circa all’epoca in cui il mio nome apparve per la prima volta nei fogli di carta intestata dello studio, Vance tornò dall’Europa, dove si era trattenuto durante il mio noviziato legale e, alla morte di una zia, di cui era il principale beneficiario, m’inca­ricò di adempiere le operazioni burocratiche necessarie per­ché potesse entrare in possesso dell’eredità.

Questa incombenza segnò l’inizio, fra noi, di un rapporto nuovo e, per certi versi, insolito. Vance provava una radicata ripugnanza per ogni genere di transazione commerciale, per questo motivo, col tempo, io divenni curatore di tutti i suoi interessi finanziari e suo agente in generale. Scoprii che i suoi affari erano abbastanza vari da occupare per intero la porzio­ne di tempo che io intendevo dedicare al diritto e, poiché Vance poteva permettersi il lusso di un factotum legale priva­to, per così dire, lasciai lo studio paterno e mi dedicai esclusi­vamente alle sue necessità e ai suoi capricci.

Se, fino al momento in cui il mio amico mi chiamò per discutere l’acquisto dei Cézanne, io avevo nutrito eventuali segreti o repressi rimpianti per aver privato lo studio Van Dine, Davis e Van Dine dei miei modesti talenti giuridici, essi furono definitivamente spazzati in quella mattina densa di avvenimenti; infatti a cominciare dal notorio omicidio di Benson, e per un periodo di circa quattro anni, ebbi il privile­gio di essere spettatore di quella che, a mio avviso, fu la più sorprendente serie di casi criminali mai passata davanti agli occhi di un giovane avvocato. Posso dire anzi che i tetri drammi a cui assistetti costituirono uno dei documenti segreti più sensazionali nella storia della polizia di questo paese.

Data la mia particolare amicizia con Vance, io ebbi modo non solo di prender viva parte a tutti i casi in cui lui fu coin­volto, ma anche di essere presente alla maggior parte delle discussioni informali a loro riguardo, intercorse tra il mio amico e il procuratore distrettuale; essendo inoltre metodico per temperamento, ne tenni una registrazione pressoché inte­grale.

Annotai anche (per quanto mi fu possibile) gli originali me­todi psicologici che Vance usava per individuare il colpevole, così come lui me li spiegò di tanto in tanto. È una vera fortu­na che io abbia svolto quest’opera gratuita di accumulazione e trascrizione, poiché, ora che le circostanze mi hanno ina­spettatamente concesso di render quei casi di pubblico domi­nio, posso presentarli in tutti i particolari, completi di tutte le loro informazioni suppletive e nel loro graduale svolgimento, un compito impossibile, non fosse stato per i miei numerosi appunti e adversaria”(S.S. Van Dine, La strana morte del Signor Benson, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, 1992,  trad. Pietro Ferrari, pagg. 7,8,9).

Ma siccome S.S. Van Dine (nominativo ottenuto da “S.S.” somma delle lettere iniziali di Smart Set, una rivista cui lo stesso Wright aveva collaborato precedentemente, con “Van Dine”, ricordo di Van Dyck, grande pittore del seicento, fiammingo, pittore della corte d’Inghilterra, che si assomigliava abbastanza con Wright stesso) è anche  l’autore delle storie, la sua mancanza nella serie dei tre sceneggiati, ci può far capire anche altro: cioè che, forse, questo Philo Vance, più che rimandare a Van Dine, sia il Philo Vance di Marco Leto, di Biagio Proietti e  Belisario L. Randone. Insomma, il Philo Vance di Giorgio Albertazzi.

                                                                                                         Pietro De Palma

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John Dickson Carr : La Fiamma e la Morte (Fire, Burn!, 1957) – trad. Maria Antonietta Francavilla – I Classici del Giallo Mondadori: N° 408 1^ edizione, 1982; N° 1320 2^ edizione, 2012.

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Mi ricordo che qualche anno fa, quando fu ripubblicato questo romanzo di Carr, sul Blog Mondadori qualcuno volle dire quale fosse secondo lui il migliore giallo storico di Carr: da più parti si disse Il Diavolo vestito di Velluto e un altro romanzo; io, detti la palma del vincitore proprio a Fire, Burn! , e di questo sono ancora ben sicuro. In quell’occasione, la ripubblicazione del romanzo, Mauro citò John Cooper, autore di un libro sul collezionismo dei libri gialli in cui aveva usato gli stessi termini miei per definire Fire, Burn! il migliore giallo storico di Carr (ed uno dei migliori in assoluto della sua produzione lo riteneva l’autore stesso). Anthony Boucher, il grande critico e romanziere poliziesco nella sua recensione sul  New York Times Book Review, affermò  al tempo“As history, as romance, as mystery, as detection, the history is splendid, with an exact and detailed picture of the Yard’s early days, an alluring love story, copious action and a solution wholly surprising”.

Il romanzo appartiene al secondo periodo di Carr, quello che intercorre tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’inizio degli anni ’60, essendo stato pubblicato per la prima volta nel 1957. Il romanzo gioca su un salto indietro nel tempo dell’Ispettore di Scotland Yard John Cheviot che è in taxi e si sta dirigendo a Scotland Yard. Improvvisamente perde conoscenza e si ritrova nella Londra del 1829: è in carrozza e sta andando nella vecchia sede di Scotland Yard. Non sa come sia arrivato lì e chi sia, ma ben presto acquista consapevolezza di essere anche lì un poliziotto; per di più è di famiglia benestante, ottimo spadaccino e tiratore con la pistola, lottatore e giocatore, tombeur de femme per di più: è l’amante infatti di lady Flora Drayton. A Scotland Yard è convocato in quanto chiede di collaborare con la polizia e mettere le sue qualità al servizio del governo. Il suo primo caso sembra alquanto banale: dovrà scoprire chi rubi il mangime dalle gabbie degli uccelli di Mary Boyle, Contessa di Cork.John Cheviot non crede alle proprie orecchie: possibile che gli si chieda una cosa simile? Il fatto è che la nobildonna è una delle persone nobili che appoggia l’istituzione di una organizzazione forte ed efficiente e quindi non la si può scontentare. John Cheviot  vi dovrà andare in compagnia della sua amante, nobildonna anch’essa, e amica della contessa.  E lì sarà raggiunto da Alan Henley, segretario di Scotland Yard.

Ben presto John capisce che connesso al furto del mangime vi è anche il furto di gioielli della contessa: infatti essi dopo essere stati sottratti dalla cassettina nella camera della contessa, sono stati nascosti nel mangime degli uccelli. In altre parole vi è una complicità in casa della contessa, nonostante ella si fidi ciecamente dei suoi congiunti, protetti e servitori.

Mentre John sta cercando di capirci qualcosa, viene uccisa sotto i suoi occhi una giovane aristocratica, protetta della contessa, Margaret Renfrew: la giovane è stata colpita da un proiettile invisibile e silenzioso, visto che né John né la sua amante lì vicino né tantomeno Henley  hanno sentito né sparo né tantomeno odore di polvere da sparo. Tuttavia, poi, sottoposta ad autopsia, verrà recuperato una palla di piombo assolutamente sferica, pulita e non invece annerita dalla polvere da sparo.

John ha trovato una piccola pistola, caduta dal manicotto che porta Flora con sé, e nella foga di proteggerla, la mette da parte, non consegnandola : chieste le ragioni e perché portasse una pistola, quella gli risponde che l’aveva trovata lì, che era sua ma l’aveva persa da tempo, e che quindi pensava che qualcuno l’avesse lasciata in bella vista per accreditare a lei qualche colpa. Del resto, gli dice, la presenza del manicotto è spiegata dal fatto che uno dei suoi due guanti si era rotto e non voleva fare cattiva figura. Nella sala, si trova anche a fronteggiare un capitano della guardie, Hugo Hogben che con lui aveva avuto uno scontro precedentemente. Questo presuntuoso Hogben è accompagnato da un amico di Cheviot,  Freddie Darbitt. A Darbitt, Lady Cook aveva rivelato quello che in seguito rivelerà a Cheviot: che proprio la Renfrew era il misterioso ladro che le aveva sottratto un anello con un solitario. E che lei, proprio lei, la Contessa di Cork, per nascondere le cose preziose, le aveva sepolte nel mangime dei beverini degli uccelli, non prevedendo che qualcuno l’avesse spiata e poi avesse provveduto di notte a vuotare i contenitori del mangime degli uccelli, Perché li aveva rubati? Si sospettava che avesse un amante, e che proprio a lui avesse consegnato i gioielli sottratti alla contessa. E ora è morta. Ma per mezzo di cosa? Della pistola caduta dal manicotto di Flora? Lei giura di aver trovato la sua pistola in casa, e che era calda, come se avesse appena sparato: ma perché? Perché qualcuno intendeva far ricadere la colpa su quella pistola?

Cheviot capisce ben presto che l’unica fine che i preziosi possano aver fatto è stata di essere venduti a Volcano, il losco tenutario di una bisca londinese, frequentata dal bel mondo. Lì Cheviot troverà parecchia gente: da Flora a Hogben, da Freddie Derbitt a notabili e lord. E scoprirà come Volcano raggiri la gente: per mezzo di una roulette truccata e azionata da aria compressa. E in quel momento capirà anche come sia potuto accadere che la Renfrew potesse essere uccisa da una pallottola invisibile e che non si fosse né udito rumore di sparo né odore di polvere da sparo: perché la pallottola era stata sparata da un fucile ad aria compressa. Magari celato in un bastone da passeggio.

Un’idea ce l’ha Cheviot su chi possa essere l’assassino, ma così pazzesca che nessuno lo crederebbe. E quindi deve fornire delle prove e dei ragguagli ai capi della polizia da cui dipende, non solo per inchiodare l’assassino, ma anche per evitare che proprio lui possa essere accusato di assassinio o quantomeno di complicità nella morte della nobildonna: infatti una ragazza, Miss Tremayne, ha visto l’atto di Cheviot di occultare, la pistola caduta dal manicotto di Flora, in un cofanetto. E così si mette alla ricerca delle prove, inviando i suoi uomini a perquisire un certo appartamento. E così alla data e all’ora prefissata, inchioderà l’assassino, dopo aver umiliato il suo accusatore, il capitano Hogben che, pur di vendicarsi di lui, lo ha accusato falsamente testimoniando il falso.

Allo scopo dimostrerà che la pallottola che è stata recuperata con l’autopsia della Renfrew non poteva essere stata sparata dalla pistola caduta dal manicotto di lady Flora, perché di diametro inferiore alla canna (sarebbe rotolata fuori) e più piccola di una comune palla adatta a quell’arma, ma sarebbe potuta essere sparata da un fucile occultato in un bastone trovato nella camera di…

La rivelazione spiazzerà tutti quelli convenuti lì davanti ai capi di Scotland Yard: da Hogben a Lady Flora, da Henley a Miss Tremayne, dal sergente Bulmer all’Ispettore Seagrave. Anche l’assassino, che è uno di loro.

Cheviot non avrà il tempo per gioire perché Hogben tentando di fuggire da lui inseguito, si volgerà e farà fuoco uccidendo Cheviot. Ma in quel preciso momento…ecco che Cheviot ritorna in sé, ritorna cioè in pieno ventesimo secolo e si accorge di aver sognato: era svenuto a seguito di un incidente del taxi in cui lui viaggiava ed un’altra auto, avendo sbattuto la testa contro la maniglia dell’auto. Starà ancora a chiedersi come è possibile che possa aver sognato, quando rivedrà il volto di Lady Flora Drayton accanto al suo: è quello di sua moglie, che si chiama Flora.

Straordinario romanzo storico, mischia suspence, detection, mistero ed un problema impossibile risolto con consueta nonchalance. Francamente a me sembra che questo e non tanto “Il Diavolo vestito di velluto”, sia il miglior romanzo storico di Carr: la penetrazione storica è prodigiosa, la puntigliosità con cui viene costruita la storia, la realizzazione di figure a tutto tondo mirabili e credibili. Il tutto in un’epoca, quella di Giorgio IV, descritta minuziosamente: sembra quasi di vederli i personaggi mentre parlano, ridono, ballano, giocano, duellano.

Per maggiormente apprezzare l’approfondimento storico operato da Carr, bisognerebbe avere sotto gli occhi un’edizione originale che come accade ed è accaduto spesso in passato, non è stata tradotta interamente: neanche questa volta, anche se a tradurre era Maria Antonietta Francavilla: mancano infatti le note storiche, riportate a fine libro, che intendevano rispondere a varie domande del lettore circa il periodo.

Il tempo del romanzo è posto immediatamente a ridosso della fine della seconda guerra mondiale, quando vi fu una serie di nebbie tragiche a Londra, tali da provocare decine di incidenti mortali: durante una di queste, capita l’incidente di auto in cui viene coinvolto Cheviot.

Il salto indietro nel tempo è un artificio letterario di cui Carr si è servito altre volte, e che è connesso alla commistione tra elementi reali e fantastici, all’esperienza onirica e a quella di vita reale, che legandosi assieme formano un insieme inestricabile da cui è difficile separare il vero dal falso, il reale dall’irreale. Questa dimensione era già stata attraversata in altri romanzi famosi: per esempio in The Burning Court, in cui si ritrova una persona associata a due figure diverse, una nel presente ed una nel passato. Lì è presente maggiormente la dimensione fantastica, più di qui, anche se nel presente romanzo, affiora il sospetto che lo stesso Cheviot abbia vissuto quelle esperienze, e che egli quindi non sia altro che una reincarnazione nel ventesimo secolo di quel Cheviot vissuto nel diciannovesimo. Ma anche in The Devil in Velvet, vi è un salto indietro nel passato, scaturito da un patto col diavolo, e quindi anche lì vi sono elementi fantastici. E anche in Fear Is the Same , viene percorsa la stessa traccia di immersione nel passato. Possiamo dire quindi che il salto nel passato, magari in soggetti che si trovano di botto a vivere esperienze nel passato avendo la coscienza di essere già vissuti, di aver attraversato gli stessi pericoli e aver conosciuto le stesse persone, sia uno degli escamotages più tipici di cui si serva Carr per legittimare una storia di detection nel passato.

Tuttavia al di là della dimensione della detection e dell’invenzione pura, al loro massimo,  Fire, Burn! è un giallo storico di notevolissima fattura: di tale levatura che a ben donde conquistò nel 1969  il Grand Prix de Littérature Policière a pari merito con un altro grandissimo romanzo storico, in cui elementi fantastici non ve ne erano ma abbondava la ricerca storica: The Daughter of Time, di Josephine Tey.

Un’ ultima cosa: il titolo italiano ancora una volta non c’entra nulla col romanzo.

Il titolo in inglese, Fire, Burn! fa esplicito riferimento ad una caratteristica dello sesso Cheviot, cioè la sua impetuosità e temerarietà non mediata dalla ponderazione del rischio. Maine, uno dei due Commissari di Scotland Yard, colui che alcune pagine prima aveva pubblicamente accusato proprio Cheviot di essere l’amante segreto di Renfrew e per questo aveva fato sparire la pistola, nelle ultimissime pagine del romanzo, dopo che Bulmer ha annunciato la morte di Cheviot ad opera di Hogben e il fatto che lui lo abbia vendicato uccidendo a sua volta Hogben, rinfaccia a Cheviot il fatto che l’espressione che egli usava riferendosi a Margaret Renfrew, invece si adattasse molto di più proprio a lui: Fiamma, brucia! Bolli, calderone!

Fire, Burn! del resto non è altro che la metà di un celebre verso del Macbeth di Shakespeare (Quarto atto , Scena I), declamato dalle 3 sorelle streghe : Fire, Burn and Cauldron Bubble

PIETRO DE PALMA

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Morte a passo di Valzer – Minisceneggiato in 3 puntate, tratto da Fire, Burn! di J.D.Carr – Sceneggiatura: Vieri Razzini, Regia: Giovanni Fago, RAI 2, 1981

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Dal romanzo Fire, Burn! di J.D.Carr, RAI 2 trasse, nell’ottobre del 1979, lo sceneggiato in tre puntate, “Morte a passo di Valzer”, mandato in onda  nel 1981.

Nell’ambito di sceneggiati tratti da romanzi gialli, si può dire che quello tratto da Fire, Burn!, costituisca un caso si può dire unico. Il perché è presto detto: mentre tutti gli altri sono stati conformati nel tempo a romanzi già editi in italiano – e non parlo solo dei Carr (La dama dei veleni, tratta da The Burning Court; Tre colpi di fucile, tratto da Till Death Do Us Part; L’Occhio di Giuda tratto da The Judas Window), ma anche dei Maigret di Gino Cervi, o del  Philo Vance di Albertazzi (qui, addirittura proprio lui, nell’introduzione al Caso Benson , aveva in mano uno degli Omnibus Mondadori in cui furono pubblicate le avventure di Philo Vance)– Fire, Burn!  prima del 1979 non godeva di una traduzione italiana e quindi si deve apprezzare come la sceneggiatura di Vieri Razzini fosse stata approntata sull’originale inglese. Il che significa che Vieri Razzini (o chi per lui) conosceva da prima il testo carriano, e quindi la conoscenza di testi non ortodossi da parte di uno dei più grandi critici italiani, particolarmente versato proprio al poliziesco: chi non ricorda (e sono sicuro che molti dei miei lettori sono giovani e quindi non possono ricordare) le sue presentazioni  e i cicli da lui curati basati anche sulle avventure di Sherlock Holmes o di Charlie Chan? Igor Longo, me lo ricordo bene, stravedeva per Vieri Razzini e criticava il fatto che, alla RAI, fosse stato messo da parte. Proprio qualche giorno fa, parlandone privatamente con Mauro Boncompagni, lui mi ha detto: “Ricordo che allora chiesi a Orsi perché non pubblicassero la trad. italiana. L’ottimo Gian chiese il libro all’agente, me lo passò per la lettura (ricordo che era la prima edizione americana), io feci una recensione e la Francavilla lo tradusse (allora io non traducevo). Bei tempi, eh?”.

Lo sceneggiato, salvo alcune personalizzazioni  cui accenneremo, è fedele all’originale.

Innanzitutto, l’ambientazione è curata fino nei minimi particolari; e anche la recitazione, e la descrizione delle scene non lascia adito a dubbi.  Persino la caratterizzazione della figura di Volcano  con l’occhio di vetro, anche se Volcano nel romanzo è calvo mentre qui è ricciuto, e l’occhio di vetro nel romanzo è il destro mentre qui è il sinistro.vlcsnap-2016-04-17-20h50m11s573 Tuttavia vi sono cose che non esistono nel libro originale di Carr. Innanzitutto la Camera Chiusa.

Nel romanzo di Carr non c’è nessuna Camera Chiusa, ma nello sceneggiato sì.

Viene posta alla fine della seconda puntata, ultima scena, e quindi con essa comincia la terza puntata.  La vittima sarebbe quel Freddie Derbitt che qualcuno pensava potesse essere l’amante segreto di Margaret Renfrew. La sceneggiatura è evidente per quale motivo inserisca questa variazione: per accrescere l’interesse del pubblico e motivarlo a vedere la terza parte. La Camera Chiusa è una classica: porta e finestra chiuse dall’interno, nessun passaggio segreto ,eppure la vittima ha un foro sulla fronte. vlcsnap-2016-04-17-21h05m58s718Se la Camera Chiusa nel romanzo originale non c’è significa che lo sceneggiatore deve averla presa da qualche altra fonte, se non inventata. Io credo che l’avesse presa da un altro sceneggiato di qualche anno prima: per il tipo di soluzione, e quindi per come la vittima venga uccisa, la Camera Chiusa mi ha ricordato istantaneamente quella usata per uccidere Rex, uno dei fratelli della famiglia Greene, nell’omonimo romanzo e nello sceneggiato RAI interpretato da Albertazzi. E’ probabile che fosse stata presa da lì, penso io. Inoltre anche lì la morte -di Rex in quel caso -concludeva la puntata.vlcsnap-2016-04-17-21h09m49s497

Un’altra variazione è data dall’inizio e dalla fine dello sceneggiato: mentre il romanzo comincia con Cheviot che sta recandosi a Scotland Yard in taxi, lo sceneggiato presenta un prologo con un delitto del tutto inventato: Lord Davenport sul par di un campo da golf sta per imbucare la pallina e con lui stanno due amici e sua moglie. All’improvviso il lord cade schiantato al suolo: una pallottola lo ha colpito al cranio, senza che nessuno abbia sentito lo sparo. Ovvio pensare ad un’arma munita di silenziatore, ma per colpirlo da lunga distanza non sarebbe stato facile – perché tutt’attorno non ci sono punti da cui sparare – e per di più l’esame balistico ha dimostrato che è stato colpito con una traiettoria dal basso in alto. Insomma un delitto impossibile. vlcsnap-2016-04-17-21h12m49s183La cui soluzione verrà scoperta da Cheviot nel corso del suo salto nel passato: infatti la soluzione del delitto antico potrà essere usata per spiegare anche il delitto contemporaneo. Non a caso, le ultime scene della terza ed ultima puntata, concernono la cattura dell’assassino del Lord e la spiegazione di come egli abbia potuto ucciderlo: è evidente, giacchè compaiono solo quattro persone compresa la vittima, che l’assassino debba essere uno degli altri tre.

Ma perché si pensò di introdurre un episodio assolutamente originale ed inventato in questo mini sceneggiato? Un’idea l’avrei. La scena iniziale è simile a quella di un altro sceneggiato che aveva avuto un enorme successo anni prima, tratto da un lavoro di Durbridge: Giocando a golf una mattina (Game for a Murder). Anche lì si verifica un delitto sul par di un campo da golf: chi sta giocando, viene ucciso. E’ come se gli inglesi fossero associati dal pubblico italiano al gioco del golf. Del resto nel tempo, numerosi sono stati i romanzi polizieschi che hanno avuto come teatro di azione un campo di golf: un esempio per tutti?  Herbert Adams. In Italia di Adams sono apparsi molti romanzi negli anni Trenta, nella mitica serie de I Romanzi della Sfinge, di Salani Editore. Una delle serie varate da Adams era appunto incentrata su un giocatore di golf, Roger Bennion.

Altra variazione ancora, cioè un particolare che non esiste nel romanzo ed è stato aggiunto da Razzini è l’orologio da panciotto che Cheviot si trova addosso quando rinviene nel taxi e che è stato acquistato da lui nel 1829, nel corso della sua avventura nel passato. Questo particolare, sicuramente affascinante, con cui si conclude lo sceneggiato è un altro escamotage per finire in bellezza, donando anzi accentuando l’aspetto fantastico dell’opera. Carr ne sarebbe stato deliziato.vlcsnap-2016-04-18-11h51m00s151

Altra variazione inventata è quella dell’immagine di Flora Gray. Cheviot, nel taxi, sta leggendo un paragrafo in un libro di storia trovato nella biblioteca di Lord Davenport, dedicato ai personaggi del regno di Giorgio IV e trova la foto di Lady  Flora Gray. Mentre la sta guardando, ecco che perde coscienza e si ritrova sbalzato nel 1829. Tutto questo nel romanzo non esiste. Perché è inserita? Avrò io una deformazione personale nata dalla mia conclamata cinefilia e dall’amore degli sceneggiati d’epoca, avrò io la tendenza a richiamarmi e richiamare la memoria altrui a dei particolari che ai più sfuggono, ma questo fissare una foto e ritrovarsi sbalzato nel passato, mi sembra tanto, troppo simile a quello che accade al protagonista in The Burning Court, quando in treno l’immagine della celebre avvelenatrice, la Marchesa di Brinvilliers sembra troppo simile a quella di una donna del presente. vlcsnap-2016-04-17-21h49m59s315Questo richiamo, che non mi sembra casuale, è avvalorato dal fatto che nell’epilogo, quando Cheviot viene svegliato nel taxi che ha avuto un incidente per la nebbia, si ritrova accanto la moglie, il cui volto è identico a quello di Flora Gray. Mentre nel romanzo, la rassomiglianza tra le due Flora viene ad essere indicata negli ultimi due-tre righi del romanzo.

Poi vi sono delle variazioni che qui e là modificano qualcosa, senza avere un riflesso importante: innanzitutto la scazzottata. Quando Cheviot accusa Volcano di truffare e raggirare i giocatori mediante una roulette truccata, dal parapiglia generato dalla rottura del tavolo da gioco e dalle molle che escono fuori e dai sibili di aria che si sentono, testimoniando il trucco ad aria compressa che inclinava il piano con la pallina in modo che andasse a rotolare dove si voleva che rotolasse, si genera una scazzottata. Il romanzo ne accenna in due righi e basta.vlcsnap-2016-04-17-20h53m22s025 Ovviamente invece lo sceneggiato vi indugia, perché questa è una tipica scena da film. Come non ricordare i tanti spaghetti western all’italiana dove scene di questo tipo erano di casa? Mi sembra quasi un omaggio a Gianni Garko che era stato uno degli attori più impegnati in quel genere di films. C’è addirittura il volo di un tale che va a sfasciare un mobile, che ci rimanda con la memoria ai films con Terence Hill e Bud Spencer.vlcsnap-2016-04-17-21h00m02s382

Poi c’è la sparizione del registro del 1829, quello in cui erano annotati gli acquisti di Volcano in cambio di fiches, che nel romanzo non sparisce affatto, anzi viene ritrovato con la perquisizione seguita all’arresto di Volcano.

Infine, mentre lo sceneggiato è incentrato esclusivamente sulla vicenda personale di Cheviot e sugli sviluppi delittuosi e sentimentali, il romanzo è uno spaccato intenso ed appassionante dell’epoca. C’è persino una ininfluente rivolta per l’abolizione del dazio sul grano, primo assaggio delle riforme che vennero varate negli anni successivi .

 

Pietro De Palma

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Gilbert Keith Chesterton: La forma errata (The Wrong Shape, 1910) – da “L’Innocenza di Padre Brown”, all’interno di “I Racconti di Padre Brown”– Editrice San Paolo, Cinisello Balsamo, 1985, Dodicesima Edizione

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Era da tanto tempo che desideravo scrivere qualcosa su Chesterton, il grande scrittore cattolico inglese, autore di fenomenali libri, come quello su San Tommaso d’Aquino, che gli valsero l’apprezzamento del pontefice di allora, Papa Pio XI ( il Papa dimenticato, quello che stava per pronunciare la storica enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo, quando morì nel 1939 prima di averla firmata).

Nell’apprezzamento, Papa Pio XI appellò Chesterton con titolo di Defensor Fidei, titolo che non fu divulgato in Inghilterra visto che sarebbe apparso umiliante che un suddito inglese fosse stato chiamato nello stesso modo ereditato dai Re d’Inghilterra a partire da Enrico VIII. Però così è la storia: Chesterton, convertitosi alla fede cristiana, dette così tante prove di conversione vera nei suoi scritti da meritarsi il plauso del Vaticano. Alla sua morte ad officiare la cerimonia del funerale fu chiamato un altro scrittore cattolico e prelato, Mons. Ronald Knox , autore di molti romanzi mystery.

La conversione a tutti gli effetti data 1922. Ma evidentemente dovette avvenire per tappe, e già parecchio tempo prima, almeno un decennio,  nei suoi scritti si trovavano accenni, neanche tanto reconditi, ad una volontà di convertirsi. Anche in quelli, tra i suoi scritti, che apparirebbero meno confacenti a ciò: sto parlando de I Racconti di Padre Brown, racconti di carattere poliziesco incentrati sulla figura di Padre Brown, un prete cattolico molto acuto nei suoi ragionamenti, che sa andare in fondo al cuore degli uomini e scoprire le peggiori nefandezze con la forza delle Fede. La figura di Padre Brown fu conformata a quella del prete che operò in lui la conversione, tale Padre John O’ Connor, cattolico irlandese, che gli stette vicino fino alla morte. Tuttavia mentre il Padre Brown protagonista delle sue storie è un omino trasandato, sempre con un vecchio ombrello, quello originale non lo era affatto.

A Padre Brown vennero dedicati vari libri, una volta che il personaggio si meritò un inatteso successo. L’innocenza di Padre Brown è il primo di essi. E’ formato dai primi folgoranti racconti: La croce azzurra, Il giardino segreto, Gli strani passi, Le stelle volanti, L’uomo invisibile, l’onore di Israel Gow, La forma errata, I peccati del principe Saradine, Il martello di Dio, L’occhio di Apollo, All’insegna della spada spezzata, I tre strumenti di morte.  I primi quattro di essi ad essere stati pubblicati, furono messi assieme a formare una raccolta chiamata I Racconti di Padre Brown, poi estesa a riunire tutti i racconti. Essi sono:  La croce azzurra (The Blue Cross, Settembre 1910), Il giardino segreto (The Secret Garden, Ottobre 1910), Gli strani passi( The Queer Feet, Novembre 1910), La forma errata (The Wrong Shape, Dicembre 1910).

Il più metafisico dei primi racconti, un autentico capolavoro, al pari del primo “La croce azzurra” (che presenteremo prossimamente), è La forma errata.

Il racconto comincia con una descrizione: viene presentata una costruzione bassa, di color bianco e verde pallido, con delle persiane ed una terrazza, con delle tettoie ad ombrello ,e con una strana forma a T . In questa, che era una villa estiva, appena al di fuori di Londra, verso la campagna, all’atto degli eventi, vive  il poeta  Leonard Quinton famoso per i suoi poemi  esotici, in cui parla spesso di paradisi e inferni orientali. Qui è ospitato anche Padre Brown, perché il suo amico ex ladro Flambeau era stato amico del padrone di casa a Parigi. Appena arrivato, il prete avverte nell’atmosfera un’aura strana, maligna, malvagia. E forse la stessa forma a T, una T non perfetta alimenta le sue perplessità. Questa forma a T, è tale che la gamba della t, più corta del braccio trasversale, sia formata da sole due stanze allungate e intercomunicanti: lo studio, in cui il poeta mette per iscritto le sue emozioni; e la serra, un ambiente ricco di fiori esotici e piante strane, dove Quinton, aiutato dai narcotici, sogna e medita i suoi slanci pindarici.

Nella villa, il poeta accoglie per metà dell’anno un guru, un santone indiano che lì gode di ospitalità, e che fornisce al poeta gli spunti per i suoi poemi. Oltre a lui, altre poche persone: la moglie del poeta, una donna che da molti anni assiste il marito che ha ecceduto nell’uso di oppio per descrivere gli stati onirici da esso provocati ed ora , ed ora è diventato di natura astiosa ed instabile; lei invece è una creatura adorabile, seria, posata e con una gran massa di capelli d’oro, ma, come dice Brown,  “E’ una di quelle donne che compiono il loro dovere per vent’anni ; e poi commettono cose terribili”; infine c’è il fratello della donna, Atkinson, un parassita, che compare vestito di bianco, con una sgargiante cravatta rossa di sghimbescio ed un cappello sul cocuzzolo della testa, che è sempre a caccia di quattrini da sperperare, senza un lavoro e un’occupazione. E’ detestato dal medico del poeta, il dottor Harris,un omino, con un paio di baffetti, molto ordinario ma dall’aria capace.

Padre Brown avverte qualcosa di malvagio lì. Lo attribuisce al santone indiano, un mago: un primo segno è dato dal ritrovamento di un pugnale strano, dalla lama ondulata, fatta non per tagliare ma per torturare, nell’erba alta del giardino. Al santone indiano e alla sua strana religione, e alla scrittura indiana, così ricca di linee che che sembrano “come serpenti che si attorcigliano per scappare”, Padre Brown guarda torvo, perdendosi “in una nebbia mistica”. Lo stesso suo compagno Flambeau riconosce davanti all’attonito medico, che quando Brown sembra perso in discorsi mistici che sembrano folli, accadono poi cose cattive. In un certo senso egli è un sensitivo. Davanti al medico che gli contesta le sue affermazioni, Padre Brown afferma che mentre la casa è ridicola per forma ma non è errata, quel pugnale lo è. Ed è il prologo alle forme sbagliate.

In quel mentre Quinton saluta i presenti perché deve andare a fare il solito riposino pomeridiano. La signora Quinton rincasa, e il dottore si reca dal suo assistito per assicurarsi che riposi bene e che prenda il tonico, ma in quel mentre il cognato inetto riesce ad intrufolarsi nello studio prima che la porta venga chiusa, sì da spuntare una mezza sterlina allo stesso Quinton prima che questo di addormenti.

Le nubi si addensano e l’aria manifesta quella tipica elettricità che annuncia l’imminente nubifragio: Padre Brown e Flambeau vedono prima il santone indiano,  che avevano visto prima mentre pregava e lo rivedono di nuovo ora, come se fosse un uccello di cattivo augurio. Mentre lo vedono ancora una volta sostare nel giardino vicino alla casa, arriva trafelato il dotto Harris che accusa il cognato di aver fatto qualcosa a Quinton: infatti lui ha visto attraverso la vetrata che il suo assistito giace in una posizione innaturale. Preoccupato, si slancia verso la casa, tallonato da Padre Brown mentre Flambeau e Atkinson rimangono dietro.

Aprono lo studio ed ecco, trovano sulla scrivania un foglio dalla forma strana cu cui sono scritte le parole sibilline: “Muoio di mia mano;  tuttavia, muoio assassinato”. Mentre Padre Brown guarda allibito il foglio, il dottore si slancia per la serra, tanto per tornare immediatamente dietro ed annunciar e la morte di Quinton: si è pugnalato al cuore. La mano giace sul pugnale. Ed il pugnale è proprio quello trovato prima nell’erba dalla forma ondulata.

Viene chiamata la polizia.

Il suicidio è lampante. Eppure non convince Padre Brown. Cosa non lo convince: la forma del foglio. Un’altra cosa sbagliata, errata. Infatti non è un foglio rettangolare ma da un angolo manca una parte, come se fosse stata asportata.

Padre Brown sta a meditare, guarda, esamina persino le carte buttate nel cestino della carta straccia,  trova delle forbicine ed una pila di fogli tutti mancanti di un angolo. Prova le forbici, congettura, conta i fogli (23) e gli angoli (22) e poi, mentre si sta aspettando l’arrivo della polizia, lui e Flambeau si siedono sotto una tettoia in giardino a fumare e a discutere della vicenda. Padre Brown definisce il caso “molto strano”, come strano lo definisce Flambeau. Tuttavia l’approccio deduttivo del prete definisce la complessità psicologica della questione: “Voi lo chiamate strano ed io lo chiamo strano , e tuttavia intendiamo due cose completamente opposte. La mente moderna confonde sempre tra loro due idee diverse: mistero nel senso di ciò che è meraviglioso, mistero nel senso di ciò che è complesso…Un miracolo è sorprendente ma è semplice…E’ una forza che viene direttamente da Dio (o dal diavolo)…La qualità di un miracolo è misteriosa, ma la sua maniera di accadere è semplice. Ora la maniera di accadere di questa faccenda è tutt’altro che semplice…E’ intervenuto in questo incidente un che di contorto, di brutto, di complesso, che non è proprio dei colpi diretti del cielo o dell’inferno. Come uno può conoscere la traccia tortuosa di una chiocciola, così io conosco la traccia tortuosa di un uomo…di tutte queste cose tortuose la più tortuosa è stata quel pezzo di carta: più tortuosa del pugnale che uccise il pover’uomo…cioè il foglio sul quale Quinton scrisse: “Muoio per mia mano”. La forma di quel foglio, amico mio, era errata, se ne ho mai viste di simili, in questo cattivo mondo” (pag. 131).

In sostanza, laddove gli altri pensano che Quinton si sia suicidato, perché nessuno può averlo ucciso, visto che egli dormiva fin al momento in cui è morto, davanti ai loro occhi, al di là dei vetri della serra, e tutti i presenti erano nel giardino, Padre Brown sospetta, anzi sa già che egli è stato ucciso. Ma come? Un delitto che sa tanto di illusionistico. Come il guru indiano? Ma anche lui era nel giardino! Un delitto avvenuto con l’ipnotismo? No. Eppure i fatti non danno ragione al prete. Ma lui appunta tutto il suo castello di carte, su quell’altra carta, dalla forma sbagliata. A Flambeau che gli chiede perché mai Quinton abbia confessato di essersi ucciso se non si è suicidato come dice Brown, il prete risponde che quello non ha mai confessato di essersi suicidato. L’altro gli controbatte chiedendo se lo scritto sia stato falsificato, ma la risposta è no:  la frase trovata è proprio di mano di Quinton, come egli ha potuto rilevare, solo che fu redatta su un pezzo di carta dalla forma errata.  Ventitre erano i fogli con l’angolo tagliato, compreso quello con la frase, ma soli ventidue angoli di carta ha trovato, e quindi quello che proveniva dal foglio incriminato doveva essere stato distrutto. Perché? Perché su di esso vi doveva essere qualcosa non più largo di una virgola, cioè…due virgole. In altre parole chi ha tagliato l’angolo l’ha fatto perché una frase con le virgolette, che per caso cominciava un foglio bianco, fosse privata degli apici e sembrasse una frase scritta di pugno da un suicida.

Padre Brown sa chi ha ucciso il poeta tra Atkinson, tra il santone, il dottore o la moglie. Eppure concede una via di fuga all’assassino: il suo scopo non è quello di acchiappare il reo e consegnarlo alla giustizia, quanto quello di redimere un peccatore, di salvare un’altra pecorella che si stava perdendo. Gli offre di scrivere una relazione in cui menzionare cose che sa solo lui e di consegnargliela confidando nel fatto che egli, il prete, eserciti una professione del tutto confidenziale. In sostanza, gli chiede di confessarsi attraverso una lettera che gli consegnerà. Cosa che viene fatta.

L’assassino si confessa e confessa il perché abbia ucciso il poeta, e nel tempo stesso conferma l’ipotesi del prete circa la forma errata del foglio. E confessando il suo delitto, ammette che per la prima volta prova rimorso di quello che ha fatto, lui che sempre ha agito secondo una natura che non ammetteva la religione.

Il racconto è uno di quelli chestertoniani che tanto piacquero a Carr, tant’è vero che il personaggio del Dotto Fell fu creato guardando proprio alla figura mastodontica di Gilbert Keith Chesterton stesso. E’ infatti un racconto con Delitto Impossibile, anzi con una Camera Chiusa classica: la serra è uno spazio chiuso da pareti di vetro, la cui unica entrata/uscita è costituita dalla porta di intercomunicazione con lo studio, la cui porta a sua volta è rimasta chiusa, e d’altronde tutti i personaggi di questo mini-dramma hanno interagito fuori della serra, nel giardino, tranne la moglie che è andata in camera propria, ma che era visibile dal giardino sottostante; e ciascuno di essi è stato sorvegliato per così dire dagli altri. Per cui diventa arduo dimostrare come l’assassino abbia fatto ad uccidere, se è vero che fino ad un dato momento Quinton era vivo e poi muore, suicida..ma non tanto. 

Individuare l’assassino non mi sembra tanto arduo, mentre lo è capire come abbia ucciso e soprattutto capire il movente dell’omicidio, perché ciascuno degli attori del dramma, apparentemente non ha motivi per uccidere Quinton…anzi. Per tutti infatti il poeta rappresenta la classica “gallina dalle uova d’oro”.

E’ chiaro che nella actio delicti una parte importantissima la gioca una sorta di gioco illusionistico, che ben si sposa con l’atmosfera in cui si muove per esempio un guru indiano; ma anche il depistaggio del foglio dalla forma sbagliata è un must, essendo un saggio sorprendente di deduzione. A questo gioca – non l’ho detto prima ma ora sì – il fatto che il libro che il poeta e drammaturgo stava scrivendo, incentrato su come un santone indiano potesse riuscire con la forza del pensiero a far sì che un colonnello inglese si uccidesse con le proprie mani , sia scomparso, bruciato nel camino, com’è rivelato nella confessione dell’omicida. Il fatto che lì dimori un guru indiano non significa però automaticamente che egli sia l’assassino.

Mi sembra che Chesterton sia debitore almeno di Zangwill, così come lo stesso Carr può aver tratto da questo racconto l’ispirazione per quei suoi lavori in cui si parla di delitto a distanza, tipo “The Reader is Warned”. E può aver influenzato sia Vindry  che Agatha Christie.

La messinscena si sostanzia in tre momenti ben distinti che sono indispensabili gli uni agli altri: si deve aspettare che Quinton dorma (e che il dottore quindi gli propini il narcotico), si deve creare l’ultimo finto messaggio del suicida, ed infine bisogna uccidere. Tuttavia sottolineo come lo stesso messaggio del suicida rivela nella sua doppiezza, come la stessa premeditazione dell’omicida fosse non proprio scevra da una riflessione su quello che stava facendo: l’omicida non è un essere malvagio che uccide per interesse, oddio è anche quello, ma non è detto che il suo fine non sia meno nobile di altri, perché tende ad una situazione migliore sia per l’omicida stesso che per la vittima (che è meglio che sia morta, una volta per tutte!); inoltre, essendo una persona che cela una sua natura morale, nell’amoralità esteriore dell’atto che ha compiuto, è come se avesse, nel momento in cui ha compiuto l’atto, voluto suggerire che il suicidio non era veramente tale: utilizzare infatti uno scritto della vittima in cui afferma di morire per mano propria ma che in effetti sia morto per mano di un altro, fotografa esattamente quanto in realtà accadrà a Quinton stesso. E quindi suggerisce che anche se l’apparenza della situazione suggerisce che si sia trattato di suicidio (la vittima è stata trovata con la mano che impugnava ancora il pugnale affondato nel cuore), in realtà l’interpretazioneesatta dello svolgersi dei fatti dimostrerà l’omicidio. Per di più premeditato.  A questo punto, giacchè l’omicida premeditava da tempo di uccidere la vittima, non sarebbe stato più semplice falsificare una lettera per volta e realizzare un messaggio che parlasse solo di suicidio?

Comunque sia, ci troviamo dinanzi ad un piccolo capolavoro.

Che è tale anche per la raffinatissima scrittura (la descrizione dei luoghi rivela perizia narrativa per esempio). Non a caso Gramsci nella sua Lettera a Tania, del 6 ottobre 1930 ( da Lettere dal Carcere), analizza l’opera di Chesterton raffrontandola per esempio a quella di Conan Doyle:

Ti ringrazio per tutto ciò che mi hai mandato. Non mi sono stati ancora consegnati i due libri: la «Bibliografia fascista» e le novelline di Chesterton che leggerò volentieri per due ragioni. Primo perché immagino che siano interessanti almeno quanto la prima serie e secondo perché cercherò di ricostruire l’impressione che dovettero fare su di te. Ti confesso che questo sarà il mio diletto maggiore. Ricordo esattamente il tuo stato d’animo nel leggere la prima serie: tu avevi una felice disposizione a ricevere le impressioni piú immediate e meno complicate dai sedimenti culturali. Non eri neanche riuscita ad accorgerti che il Chesterton ha scritto una delicatissima caricatura delle novelle poliziesche piú che delle novelle poliziesche propriamente dette. Il padre Brown è un cattolico che prende in giro il modo di pensare meccanico dei protestanti e il libro è fondamentalmente un’apologia della Chiesa Romana contro la Chiesa Anglicana. Sherlock Holmes è il poliziotto «protestante» che trova il bandolo di una matassa criminale partendo dall’esterno, basandosi sulla scienza, sul metodo sperimentale, sull’induzione. Padre Brown è il prete cattolico, che attraverso le raffinate esperienze psicologiche date dalla confessione e dal lavorio di casistica morale dei padri, pur senza trascurare la scienza e l’esperienza, ma basandosi specialmente sulla deduzione e sull’introspezione, batte Sherlock Holmes in pieno, lo fa apparire un ragazzetto pretenzioso, ne mostra l’angustia e la meschinità. D’altra parte Chesterton è grande artista, mentre Conan Doyle era un mediocre scrittore, anche se fatto baronetto per meriti letterari; perciò in Chesterton c’è un distacco stilistico tra il contenuto, l’intrigo poliziesco e la forma, quindi una sottile ironia verso la materia trattata che rende piú gustosi i racconti. Ti pare? Ricordo che tu leggevi queste novelle come se fossero state cronache di fatti veri e ti immedesimavi fino ad esprimere una schietta ammirazione per padre Brown e per il suo acume maraviglioso, in modo cosí ingenuo che mi divertiva straordinariamente”.

La riflessione dello storico marxista, mi sembra perfettamente centrata, sia per il tempo in cui viene creato Padre Brown (più o meno quello di Doyle) sia per il fatto che Padre Brown si sostanzi in pratica in un alter Sherlock Holmes però cattolico. Mentre infatti  S.H. è un esempio della società  in cui il positivismo meccanicistico impera (S.H. analizza un determinato fatto basandosi su indizi e sperimentazioni scientifiche, e quindi risolve un problema basandosi sull’induzione), Padre Brown è un esempio d introspezione psicologica e di deduzione, e un connubio di fede e di ragione (una negazione quindi del fideismo), oltre che di pensiero aristotelico applicato alla patristica. Inoltre il modo di pensare di Padre Brown fa leva su un’elevata riflessione psicologica che in S.H. manca del tutto: Padre Brown, siccome pretende di andare in fondo al cuore dell’uomo per trovarvi il Male (o il Bene), finisce per capire il reo in quanto riesce a pensare come lui. Inoltre, basa tutte le sue azioni, su riflessioni teologiche applicate, che risultano sempre estremante azzeccate per sondare il problema che gli si propone.

Pietro De Palma

 

 

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I Racconti di Padre Brown: “La forma errata” ( sesto episodio). Con: Renato Rascel, Arnoldo Foà, Mario Piave – RAI, 1970

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Tempo fa introdussi il cofanetto coi 2 DVD dell’edizione RAI de I Racconti di Padre Brown, di Vittorio Cottafavi, con protagonista delle sei puntate Renato Rascel. E accennai adalcuni dei racconti sceneggiati, senza però dilungarmi. Oggi invece, avendo analizzato The Wrong Shape, ed essendo tale racconto stato sceneggiato all’epoca, nella serie interpretata da Renato Rascel, ne parlo più diffusamente.

padre brown 001Innazitutto la versione RAI comincia di botto con un pranzo, una situazione del tutto inventata, che nel racconto non esiste, però da modo ai personaggi di essere presentati: così troviamo Leonard Quinton , la moglie Ann Atkinson, il dottor Harris, il santone indiano, il cognato di Quinton cioè Richard Atkinson, Padre Brown e Flambeau.  I sette convitati discorrono sul più e sul meno, ma più si tenta si riscaldare la conversazione, più essa viene gelata dalle battute taglienti della moglie di Quinton. Padre Brown ed il suo amico capiscono che nel menage familare c’è qualcosa che non va: Quinton sembra perso nelle sue elucubrazioni mentali circa paradisi artificiali, miracoli indù  e massime indiane, mentre la moglie non fa che mettere in ridicolo tali pratiche.  Ma altre cose non vanno in quell’ambiente: c’è il fratello della moglie di Quinton, Richard, che cerca di spillare continuamente quattrini e non è molto sopportato dal dottor Harris, un individuo ateo, che non sopporta neanche il santone. Il guru, che sembra interessato a sua volta a trarre beneficio dalla situazione, è a sua volta non molto tollerato dallo stesso Padre Brown.

vlcsnap-2016-04-25-21h46m28s420Dal racconto e dal suo andamento, lo sceneggiato si differenzia in tanti piccoli particolari:

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innanzitutto il pugnale che poi sarà trovato nel petto di Quinton non viene trovato nel giardino, ma cade da una panoplia appesa accanto alla porta dello studio;vlcsnap-2016-04-25-21h50m34s868

il colloquio ( in cui si parla della forma sbagliata del pugnale e della sua cattiveria) che avviene immediatamente dopo e che nel racconto avviene tra Brown, Flabeau e il dottore, qui invece avviene tra Brown, Flambeau e Quinton;vlcsnap-2016-04-25-21h51m48s580

dopo il colloquio, Padre Brown sosta un attimo nello studio, il che da modo alla cinepresa di fare una zoomata sulla stanza e far vedere come sulla scrivania non vi sia ancora la lettera di suicidio;

il pugnale, che nel racconto viene preso di nascosto dall’assassino, dopo che è stato trovato nel giardino e dopo che i tre hanno conversato sulle sua pretesa aria maligna, in realtà qui viene portato con sé da Quinton nella serra, e quando lui si accomiata da padre Brown e Flambeau, si addormenta col pugnale appoggiato sul petto;vlcsnap-2016-04-25-21h52m42s150

prima vedono la signora Quinton dirigersi verso la casa, e allora il prete commenta “che era molto più bella e molto più giovane” di poco prima, riferendosi al pranzo. Cosa avrà voluto dire? Lo si capirà dopo, quando i due incontreranno il dottor Harris con il quale prima parleranno dello smodato uso che Quinton ha fatto negli anni precedenti dell’oppio, e poi della moglie. Riguardo proprio a lei, Brown commenta: “è una di quelle donne che compiono il loro dovere per dieci anni e poi d’un colpo.. bum.. fanno una cosa sbagliata” che è quasi la stessa frase riportata nel racconto: “E’ una di quelle donne che compiono il loro dovere per vent’anni ; e poi commettono cose terribili”. Dico quasi, perché lì si parla di vent’anni e qui di dieci. Non è una svista però, in quanto c’è un intento preciso a cambiare il significato: nel racconto, venti anni è un dato che sta a significare un tempo lungo, mentre nello sceneggiato “i dieci anni” di cui si parla sono quelli di matrimonio tra i due Quinton, marito e moglie. In questo caso si vuol dire un’altra cosa: che cioè la moglie, dopo dieci anni durante i quali si è comportata irreprensibilmente di colpo..fa una cosa sbagliata. Qual è questa cosa sbagliata? E perché il prete fa questo commento guardando negli occhi il dottore? Perché sospetta che i due abbiano una tresca. Per quello ha detto poco prima che la donna appariva più giovane e più bella di quando era stata appresso e in compagnia del marito; vlcsnap-2016-04-25-21h53m14s669

Inoltre qui la donna va verso la casa senza guardarli in faccia, come se non esistessero i due amici, mentre nel racconto suggerisce al prete di dire al dottore che deve ricordarsi di dare il sedativo: qui non c’è bisogno invece che lo dica, perché il dottore lo sa già.

Ci sono poi degli errori, sempre che lo fossero e non fossero invece degli aiuti allo spettatore attento che potesse misurarsi con la soluzione finale di Brown e magari batterlo nel tempo di risoluzione. Per esempio, quando la porta dello studio viene chiusa, dopo che è stata data una sterlina da Quinton a suo cognato, si nota una cosa bianca sul piano della scrivania: come non pensare che sia proprio il foglio tagliato male che verrà ritrovato dopo? E perché quando si vede il poeta nella serra attraverso il vetro, si vede che sta abbandonato e non si vede alcun pugnale nonostante dovesse essere morto, e poi lo si vede infisso nel petto dello stesso?

Ecco perché dicevo nell’articolo sul racconto che non è poi molto difficile capire chi possa essere stato a sopprimere il poeta; e lo sceneggiato cambiando le carte in tavola, da un grande aiuto.

Però lo sceneggiato mette l’accento anche su un movente sulle spalle della moglie, ovvio ma non citato nel racconto: il poeta è famoso ed è ricco. Alla sua morte chi erediterà? La moglie. Ecco un movente: i soldi. Ma nel racconto non si parla di una presunta infedeltà della moglie, mentre nello sceneggiato sì. Mettiamo che ad uccidere Quinto siano stati i due amanti, o lui solo o lei solo: questo lo si capisce solo dallo sceneggiato, dove nel colloquio tra Brown e la moglie sopra nella sua stanza (nel racconto non esiste) si parla di necessità che nel giorno in cui ci sia stata la dichiarazione del dottore lei sia rimasta anche vedova, Brown allude al fatto che la donna possa essere stata ad uccidere il marito. In questo modo avrebbe ereditato e poi avrebbe potuto sposare il suo dottore. Però anche il colloquio che il prete ha con il fratello della donna sottende alla possibilità che egli possa essere stato l’assassino del cognato, avendo così se non direttamente almeno indirettamente la possibilità di accedere, quando volesse, ad un grosso capitale di soldi senza necessariamente ogni volta andarli ad elemosinare dal cognato.

E la dimostrazione pratica del giochetto con il foglio davanti all’assassino.

Infine se lì l’assassino non viene arrestato, qui lo viene, ma è affidato al reo confesso il consegnarsi nelle mani della giustizia, mentre lì il reo non si consegna nelle mani della giustizia essendosi confessato con lettera affidata al prete, che non può non applicare i doveri canonici sul sacramento della confessione nonostante non avvenga nel segreto del confessionale. E’ come se lì il racconto desse all’assassino la possibilità di redimersi con la sua vita futura, essendosi convertito, e lo assolvesse dall’omicidio (dal punto della giustizia umana) in quanto il rimorso che sempre lo accompagnerà sarà il miglior viatico e la miglior pena che gli si potrà comminare, ed è quindi come se lo affidasse alla giustizia divina. Questa possibilità che lì si da al reo e qui no (perché in Italia non si può ammettere che l’assassino non paghi il fio delle sue azioni: l’azione filosofica di Chesterton si scontra con l’azione giuridica) è in ragione – a me parrebbe, ma potrebbe anche essere una mia analisi distorta – del fatto che lì  la vittima sia ritenuta una persona corrotta, e quindi in certo modo non pura (come a dire che l’assassinio di qualcuno che non è puro non è così grave come quello di qualcuno che invece lo sia) mentre qui, anche uccidendo un debole, si commette un crimine.

E’ da vedere comunque anche però che quando The Wrong Shape fu pubblicato, Chesterton anche se era sulla via della conversione,nel 1910 manteneva ancora una certa anima protestante. Questo potrebbe anche spiegare la mia supposizione sull’eliminazione di un debole a favore di un forte. Una interpretazione hegeliana che è bene dirlo, nel racconto di Chesterton non è riportata.

Per una migliore comprensione della serie sceneggiata in sei episodi, rimando al mio articolo su questo blog di qualche anno fa:

http://lamortesaleggere.myblog.it/2010/12/03/i-racconti-di-padre-brown/

Pietro De Palma

 

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Martin Edwards vince l’Edgar Award 2016 con The Golden Age Of Murder, for Best Critical

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MARTIN EDWARDS, notevole scrittore inglese di gialli nonchè acutissimo critico di letteratura poliziesca, particolarmente versato alla Golden Age of Mystery, ha vinto poche ore fa l’Edgar Allan Poe Award 2016, l’Oscar per la Detective Fiction, bandito ogni anno da M.W.A., Mystery Writers of America, con il suo notevolissimo saggio, “The Golden Age Of Murder”, che analizza la letteratura mystery tra le due guerre mondiali.

Le mie  più vive congratulazioni (già esternate personalmente) e sinceri auguri di nuovi successi.

Pietro De Palma

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