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Charles Ashton: Veglia Tragica (Dance for A Dead Uncle, 1948) – trad. Aldo Albani – I GRANDI GIALLI Pagotto, Anno I, N.3, 1949

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Le mie battaglie sul Blog Mondadori mi hanno portato pochi amici, in Italia.
Potrei dire: pochi ma buoni. Ma è innegabile che vorrei tanto ampliare la mia cerchia di conoscenze, perchè ho sempre detto, e ne sono convinto, che più persone conosci più stimoli ricevi (ammesso e non concesso che loro pensino la stessa cosa di te).
In tanti anni posso dire di esser stato amico di Igor Longo, ma prima che fosse istituito il Blog; di essere in amicizia ora con Mauro Boncompagni; di conoscere Fabio Lotti e Stefano Serafini. Sono stato amico di Luca Conti. Tiziano Agnelli è un altro amico, come pure lo sono Sergio Angelini in Inghilterra (svolge lo stesso mio lavoro e ha un bellissimo blog in inglese di Crime Fiction: My Tipping Fedora), Curtis Evans (The Passing Tramp) e John Pugmire, soprattutto (L.R.I.), in America. Sono in rapporti anche con Martin Edwards, fresco vincitore di un Edgar Award 2016: bellissimo anche il suo blog  (

http://www.doyouwriteunderyourownname.blogspot.it/             )
In Italia, soprattutto negli ultimi tempi, ho approfondito la conoscenza di Alberto Cottini, che sento parecchio, tenendo conto che abitiamo si può dire agli antipodi in Italia.
Alberto l’ho conosciuto prima su Anobii sul quale è conosciuto con un suo nickname, e poi, apprezzando le sue uscite e vedendo che lui apprezzava le mie, ho voluto conoscerlo privatamente scrivendo e rispondendo alle sue email. Così è nata una nuova amicizia, seppure per tanta parte epistolare. Abbiamo gusti e passioni in gran parte simili, e ci piacciono pure gli stessi autori di Mystery. E così va a finire che spesso ci scambiamo o ci procuriamo vicendevolmente libri.
Ultimamente lui ha voluto stupirmi e mi ha inviato un romanzo molto raro in Italia, di cui avevo letto una sua succosa introduzione su Anobii: VEGLIA TRAGICA, di Charles Ashton. Già per questo dovrei innalzare una statua ad Alberto nel mio immaginario Pantheon (solo per avermi fatto leggere questo romanzo!).
Il romanzo lo avevo spulciato parecchie volte nelle liste di Gialli Pagotto, quando mi era capitata l’occasione ma, devo riconoscerlo, non mi aveva sollecitato granchè, perchè quel nominativo non mi diceva nulla. I Gialli Pagotto, storica serie degli anni ’50, propose una serie inimitabile di capolavori francesi, ma in aggiunta propose anche qualcos’altro, tra cui appunto tale romanzo. In tempi più recenti avendone compreso il valore ho tentato di trovarlo, ma i risultati sono stati deludenti, perchè è abbastanza raro ed il costo, a trovarlo, sarebbe anche abbastanza alto.
Dico subito che confermo in toto la sua introduzione su Anobii: si tratta di un capolavoro del genere, e quello che più fa rabbia, è che pochissimi lo conoscono e a nessuno a Mondadori è mai venuto “il ghiribizzo”  di presentarne la traduzione integrale (quella di Aldo Albani lo è parecchio, ma non credo tutta). Bisogna dire in tutta verità che il suo autore, Charles Ashton, non è che sia molto conosciuto, anzi.. Persino su Gadetection, il sito specialistico più conosciuto al mondo, le notizie biografiche a suo riguardo sono nulle. Su Classic Crime Fiction invece si trova solo che “Charles Ashton, born 1884, had one main series character, Jack Atherley. Other than this we know little else”. Nient’altro. Oltre ovviamente ai suoi romanzi, dieci in tutto : Murder in Make -Up, 1934; Tragedy After Sea, 1935; Death Greets a Guest, 1936; Calamity Comes to Flenton, 1936; Stonde Dead, 1939; Death for Two, 1940; Here’s Murder Done, 1943; Fate Strikes Twice, 1944; Murder at Melton Peveril, 1946; Dance for a Dead Uncle, 1948.
Il romanzo di cui voglio parlare è l’ultimo della sua produzione: Dance for a Dead Uncle. Ignoro quale sia il livello dei precedenti romanzi, tranne che di Death Greets a Guest che mi hanno detto essere abbastanza interessante; tuttavia il livello di questo romanzo, è veramente alto.
John Ormesley è morto. Di morte naturale.
Qualche tempo prima della sua morte aveva cominciato ad interessarsi di sedute spitiche, per l’interessamento di un suo amico, il Maggiore Repford. Ma tali suoi interessi erano stati disapprovati dai suoi nipoti, soprattutto i due fratelli Philip e Harold che si occupavano dell’azienda di famiglia, e che erano figli di un fratello del vecchio; gli altri tre nipoti più giovani ( figli di una sorella) Francis, Desmond e Stanley, invece erano più distaccati e non avevano in alcun modo criticato gli interessi spiritistici del vecchio. 

Nel testamento, quantomeno bizzarro, il vecchio dispone che i due nipoti più grandi a turno debbano vegliare la sua bara al buio rischiarata solo da quattro candele ai quattro lati di essa, in una stanza completamente chiusa: e motiva questo, col fatto che il suo spirito voglia apparire ai due nipoti increduli; gli altri nipoti invece verranno risparmiati. Anzi lo zio invita gli altri a ballare al suon di musica al suo funerale, perchè egli pensa che la sua vita nell’oltretomba sarà felice. E vuole anche che nessuno si vesta a lutto ma come se andassero a fargli una visita.
Tale volontà, che sarà esplicitata da Hallerton il legale del vecchio una volta che tutti si saranno riuniti a casa Ormesley, presuppone che nel caso in cui i due rifiutassero potrebbero essere esclusi dai lasciti, che essendo stato lo zio favolosamente ricco, potrebbero essere parecchio generosi. In realtà, come testimonierà più tardi Hallerton, la volontà è un trabocchetto, l’ultimo tiro fatto dallo zio ai nipoti, perchè anche se avessero rifiutato non sarebbero stati esclusi dall’eredità. Tuttavia questo loro non lo sanno, e il tutto provoca le loro rimostranze e lo loro critiche: soprattutto è Clara, la moglie di Harold e Philip il fratello più grande, che criticano apertamente il valore blasfemo della richiesta, insistendo sul fatto che ballare ad un funerale è per loro un’ offesa a Dio. Nonostante ciò, se Clara si ritira a pregare una volta arrivata a The Grange, la tenuta degli Ormesley, gli altri si riuniscono per parlare e discutere: Philip e Harold nonostante abbiano paura, sono ben decisi a non farsi fare fuori dall’eredità e quindi decidono di ottemperare alla richiesta del morto: prima Philip (alle 22), poi suo fratello (alle 22,05) dovranno restare da soli assieme al morto, al buio, nello studio, mentre gli altri dovranno riunirsi nella libreria per testimoniare che Philip e Harold siano effettivamente entrati a turno nello studio.
Intanto che Stanley e Cicely, la moglie di Philip, vanno a fare una passeggiata in giardino e vengono sorpresi mentre si stanno baciando (hanno una tresca) da una cameriera senza che loro se ne accorgano, gli altri sono tutti dentro. Arriva il Maggiore Repford, amico del vecchio, che lo ha instradato alle pratiche spiritiste. Subito capisce che la sua visita non è gradita perchè imputano a lui le passioni spiritiste dello zio e poi quanto ne è derivato.  
Ad un certo punto si sentono tre forti colpi, che sembrano a Durblin il vecchio maggiordomo, i tre colpi che il vecchio Ormesley soleva fare con un bastone per richiamare la sua attenzione. Nessuno sa capacitarsi chi li abbia fatti e da dove vengano. Cicely è rientrata ma Stanley va a vedere che fine abbia fatto Harold. Non vedendo nè Harold nè Stanley, mandano a cercarli Francis.
Harold non trova meglio che ubriacarsi in un bagno del primo piano mentre suo fratello Philip entra nello studio alle 22.00. Francis intanto torna dicendo che non ha trovato i due, ed è trascorso qualche minuto che si sentono di nuovo  i tre colpi provenienti questa volta da dentro la stanza seguiti da un orribile gemito, cosa che fa rizzare i capelli a tutti. I 5 minuti terminano e Philip non esce. Battono alla porta, lo chiamano ma nessuno risponde. Intanto scende Francis dicendo che non ha trovato Harold, e sapendo la notizia, avendo provato ad aprire la porta invano, Francis propone di fare il giro e cercare di entrare dalle finestre:lui, Hallerton e Desmond fanno il giro e trovano i battenti della finestra chiusi. Desmond rompe con una gomitata il vetro e quindi penetrano nella stanza rischiarata dalle quattro candele poste agli angoli del catafalco: agli angoli di uno dei cavalletti, appoggiato ad uno di essi è seduto Philip, con una corona di fiori in testa ed una fotografia del vecchio Ormesley posta sul petto. E’ morto ucciso da un colpo di lancia alla schiena, e l’arma si trova per terra invece che in una panoplia sul muro, con la lama giocciolante di sangue. Per terra un fazzoletto di John  Ormesley. 
Philip è stato assassinato. In una stanza ermeticamente chiusa.
Intanto arrriva barcollando Harold che dice di essere stato da Clara, e che vuole entrare nella stanza per non essere estromesso dall’eredità. Glielo impediscono e lo mettono al corrente della situazione.
Chiamano la polizia ed arriva l’Ispettore Lessington della Polizia di Contea, che si trova subito a malpartito: dalle testimonianze riscontra come tutti coloro che sono in casa erediteranno, e che nessuno avrebbe potuto avere a che fare col delitto perchè se Clara era in camera sua e Harold troppo ubriaco per camminare, Stanley era in casa di sopra a cercare harold e Francis a cercare loro due, e gli altri in libreria, chi mai avrebbe potuto uccidere Philip dato per di più che è avvenuto in una camera chiusa dall’interno e la cui fienstra era chiusa?
Al di là di questo trova delle testimonianze che mal si intrecciano: Harold dice di essere stato con Clara e lei invece afferma di essere stata sola; Harold sarebbe invece stato ad ubriacarsi in un bagno dove l’indomani mattina il personale di servizio ha trovato una bottiglia di whisky vuota; e Stanley mentre fa capire di esser stato sopra, perchè la testimonianza di Clara si intreccia alla sua, non sa come spiegare il fatto del suo ritardo. E del resto Francis è stato al piano di sopra perchè hanno trovato per terra il suo portasigarette.
Più va avanti più Lessington non cava un ragno dal buco tanto più che a delitti strano non è abituato chi al più ha arretato ladri di galline, e perciò non trovano di meglio che allertare Scotland Yard da cui mandano a supportarli l’Ispettore del C.I.D. Merton. 
Merton appena arrivato comincia ad interrogare tutti, nessuno escluso: persino Durblin, il maggiordomo, il Maggiore Repford e il medium che aveva partecipato alle sedute di Ormesley.
Viene a sapere tutta una serie di cose soprattutto su Philip, che non era certo amato: la moglie che gli era infedele non riusciva a sopportare la sua pedanteria; col fratello aveva avuto dei dissidi; teneva in scacco Francis che non ne poteva più di restare nell’azienda di famiglia da lui diretta (ma intanto non se ne andava); gi altri cugini non lo sopportavano; e persino il maggiordomo lo termeva per un fatto accaduto nel passato, quando si era scoperto che aveva sottratto degli spiccioli del vecchio Ormesley, che però lo aveva perdonato (ma Philip, cui era stato ordinato di non intromettersi, no). Poi nel luogo di lavoro era odiato per come aveva trattato le persone a lui sottomesse, compreso Francis, quando delle banconote erano sparite dal cassetto della scrivania, trattandole da ladri, salvo trovarle nell’intercapedine dietro al cassetto.
Tuttavia niente sembra muoversi. Eppure Merton comincia a pensare ad una eventualità, legata ad una stanza dietro al caminetto dove sono custoditi degli utensili da pesca. Poi è da annoverare che scompaiono Stanley, che va via senza avvisare nessuno, e Buckley, il medium. Quando si pensa che c’entrino qualcosa, rientrano e si mettono a disposizione. Si viene a sapere che Buckley la notte dell’assassinio era andato a casa del Maggiore e da qui era partito per “The Grange” (per trovarlo), dove era arrivato ed era stato visto dirigersi verso la casa, salvo poi in un secondo tempo andare via ; Stanley, interrogato da Merton separatamente, quando si pensi che c’entri con la morte, fornisce invece un altro chiarimento: i secondi tre colpi di bastone ed il lamento, li ha prodotti lui, al piano di sopra, nella camera del vecchio, battendo sul pavimento con le scarpe della vittima che sono state ritrovate dal vecchio Durblin buttate sotto una sedia invece che riposte come aveva fatto lui ordinatamente. Merton viene a sapere che nello studio erano stati accumulate molte corone di fiori in una parte dello studio al buio, laddove c’era una poltrona: quando si era entrati nella stanza non ci si era preoccupati di essi. Con Francis Merton formula la prima ipotesi, che l’assassino fosse dentro la stanza quando essi erano entrati, occultato sotto i fiori, e poi quando fossero usciti per chiamare la polizia, fosse riuscito a sgusciare via attraverso la finestra aperta.
La sera seguente, riuniti tutti, formulerà una seconda ipotesi che sconfesserà la prima, inchiodando un assassino astutissimo, disorientato da una teoria, la prima, formulata allo scopo precipuo di ingannarlo.
Romanzo bellissimo, si legge tutto d’un fiato. Si regge da solo su un’atmosfera allucinata, che presupporrebbe un intervento soprannaturale, perchè solo esso potrebbe spiegare la morte di un individuo colpito da un colpo di lancia alla schiena, dentro una stanza sigillata, in cui c’era solo una bara, con morto stecchito al di dentro. Come non pensare alla vendetta di un morto, arrivato dall’aldilà? Posto che la prima cosa cui si sarebbe dovuto guardare è che il morto ci fosse davvero nella bara e nessuno vi guarda fidandosi che il morto davvero vi sia (e c’è!) , e posto che nessuno, non sentendo che Philip non risponde, senta il bisogno che tutti sentirebbero, cioè abbattere la porta, interrogativo che si pone il buon Merton, anche qui la successione dei fatti, anche se l’assassino è uno solo, è spiegata e spiegabile solo riconoscendo come vi sia il concorso di due azioni, ognuna però a sè: l’assassinio e la produzione dei primi falsi tre colpi, la produzione dei secondi tre falsi colpi e lamento: Stanley e l’assassino non sono complici, ma hanno agito tutti e due in danno di Philip: il primo, volendo farlo spaventare , perchè non lo sopporta; il secondo per legittimare un intervento soprannaturale cui poi dovrà essere addebitato anche l’assassinio. Il bello è che anche l’assassino, quando sente i colpi provocati da altra persona, si spaventa a sua volta.
Quindi anche qui c’è una messinscena.
La soluzione è altamente spettacolare: mi ha ricordato in un certo modo quella di Whistle Up The Devil di Derek Smith, per un particolare della soluzione comune ai due romanzi, che è concernente il ruolo della finestra:  per come si è sviluppato l’assassinio, non essendoci altre uscite oltre porta e finestra, se la prima era sorvegliata da più persone ed era chiusa, è indubitabile che l’assassino sia entrato ed uscito dalla finestra: è ovvio! Ma come ha fatto? Il trucco è straordinario. 
In un primo tempo Merton controlla che la maniglia non possa essere stata fatta girare da sola, mettendola dritta in verticale e poi sbattendo la finestra dall’esterno, provocando uno scossone provocante la sua ricaduta orizzontale; poi capisce il trucco, mettendolo in connessione con la stanza delle canne da pesca, la cui finestra dava sul giardino vicino alla finestra dello studio. E’ evidente che sia stata preparata prima la finestra (non c’è nessun pannello staccabile con lo stucco, o scorrevole, nè tantomeno molle segrete, come in lavori di Carr) e solo uno poteva farlo, uomo o donna.
Del resto, alla riuscita di questa Camera, è funzionale anche l’orario: alle 22 di sera c’è buio ed il buio ha giocato a favore dell’assassino, che ha rischiato grosso pur aiutato dalla poca luce, approfittando che chi era presente alla rottura del vetro non vedesse quello che avrebbe visto con più luce (sgombro tuttavia da ogni dubbio il fatto che il battente il cui vetro era stato rotto fosse effettivamente sano prima dell’intervento).
Mi vien da dire, che come ha detto anche Alberto nella sua recensione su Anobii, questo romanzo è immeritatamente sconosciuto e tale risulta anche nelle maggiori liste; e che risale al 1948, un periodo in cui la grande tradizione degli anni ’30 era già dimenticata, e si stava affacciando la nuova messe giallistica, basata non più su enigmi cervellotici ma anche e soprattutto psicologici. E qui di psicologia ce n’è tanta, e tanta deduzione! Solo Bob Adey e Jack Adrian riportano l’esistenza di questo romanzo nel loro Locked Room and Other Impossible Crimes, pur senza fornire alcuna notizia di carattere biografico.
E’ tuttavia un romanzo della fine degli anni ’40 che potremmo dire chiuda in bellezza una serie, di cui vorremmo leggere altri titoli o avere notizie in merito. E’ come se fosse stato inteso come una chiusura di un’epoca con un enigma super anni trenta, in un periodo però che nonostante le nuove spinte editoriali, vedeva titoli ancora di grande respiro: come non ricordare che proprio il romanzo di Derek Smith (il più conosciuto, che poi è stato il primo ad essere pubblicato ma non il primo ad essere stato scritto) è del 1953, e grandi successi di Carr sono di quegli anni: He Who Whispers del 1946, The Sleeping Sphynx del 1947, Below Suspicion del 1948? E che A Graveyard to Let, con H.M., è del 1949  ed è uno dei migliori romanzi con Merrivale (ne parleremo prossimamente)? E che The Woman in the Wardrobe dei fratelli Shaffer è del 1951? Mentre What A Body! di Alan Green è del 1949?
La cosa che mi sembra assolutamente vergognosa, e lo rimarco, è come questo autore avrebbe meritato ben altra notorietà ed invece anche in Inghilterra è praticamente uno sconosciuto. E quindi devo riconoscere ancora una volta come la lungimiranza di chi mise in piedi la Serie  de “I Grandi Gialli” Pagotto fosse davvero grande (ancora maggiore quando vedo che il romanzo è del 1948, e la pubblicazione italiana è di un anno dopo, segno che chi stava dietro la serie o aveva il privilegio di leggere ottimi autori o aveva dei grandi consulenti stranieri)!
Tanto più che nello stesso meccanismo della soluzione c’è un’idea geniale  che al tempo stesso è di una semplicità disarmante. Che in ultima analisi mi fa dire che proprio quelle soluzioni più semplici di enigmi insolubili, fanno rimanere più abocca aperta e riflettere su un fatto:
Ma come ho fatto a non pensarci prima? Perchè la bravura dello scrittore sta ad evitare che il lettore pensi proprio a quello.
SENSAZIONALE.

Pietro De Palma

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I GRANDI GIALLI PAGOTTO: una serie leggendaria

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La prima volta che sentii parlare della collana I Grandi Gialli Pagotto, fu da Igor Longo.

Mi parlò di questa collana dei primissimi anni ’50 (poi ho scoperto che cominciò alla fine degli anni ’40) in termini assolutamente entusiastici, e non per le traduzioni, oneste ma non credo sempre integrali al 100%, ma per i termini della proposta: infatti, diversamente da tutta la produzione conseguente e successiva a quella Mondadori de I Libri Gialli – che sancì il successo straordinario del genere poliziesco in Italia – imperniata quasi esclusivamente sulla produzione anglo-sassone (autori provenienti dal Commonwealth e dagli Stati Uniti d’America), la collana de I Grandi Gialli Pagotto si appuntava a sua volta, quasi esclusivamente, sulla produzione di classici francesi, concentrandosi soprattutto su opere di Stanislas-André Steeman, e proponendo, in seconda battuta, opere di altri autori.

Molti ancor oggi non sanno di cosa si tratti. Più volte ho cercato di allertare amici miei collezionisti che saltuariamente per scambi hanno avuto tra le mani libri gialli dei tempi passati, ma in rare occasioni sono riuscito a venirne in possesso. Mi ricordo che anni fa Stefano Serafini, a Natale se ben ricordo, me ne regalò uno proprio di Steeman, La maschera rossa (Le lévries bleu, 1934).

Perché proprio su Steeman si appuntò la proposizione massima di Pagotto? Perché l’autore belga era il più famoso in Italia assieme a Simenon, in quel tempo. Ora, se si dovesse chiedere a qualche lettore il nominativo di un famoso scrittore belga di polizieschi, sicuramente direbbe Simenon; eppure ci fu anche Steeman, la cui influenza, per il Mystery propriamente detto, forse fu superiore a quella di Simenon. Di Steeman, la pubblicazione e la proposizione di sue opere in Italia, era stata massiva soprattutto durante gli anni ’30 e ’40, per cui è chiaro che gran parte delle opere proposte dalla collana Pagotto, era stata già precedentemente proposta da altre case editrici con altri titoli. A questo proposito il lettore potrà farsi un’idea, consultando il database proposto nella scheda dedicata a Steeman, dal sito Genovalibri:

http://www.genovalibri.it/steeman/index.htm

Questo pone un serio problema al collezionista: infatti, volta per volta, per non incappare in doppioni, pur di case editrici diverse, dovrebbe segnarsi i romanzi in possesso e quelli ancora mancanti, tenuto conto anche che nel passato, escluse le pubblicazioni de I Libri Gialli Mondadori (tutti volumi rilegati e sovra-copertinati, e la maggior parte, sino al primissimo inizio anni ’40, con copertina rigida, e quindi tutti di un certo costo per i tempi di allora) e quelle dell’Editrice Ariete, e quelle di pochissime altre (ma proprio sulle dita di una mano), le restanti proponevano in larga parte, traduzioni spesso accorciate, quando non addirittura riassunti. Anche per questo è da apprezzare la collana de I Gradi Gialli, le cui traduzioni erano per l’epoca molto buone (sono facilmente leggibili ancor oggi).

Su un tallone costituito quindi da romanzi già pubblicati da altre collane, vennero proposti da Pagotto, per la prima volta, altri Steeman inediti (non tutti: infatti i primi quattro della sua produzione sono tuttora inediti in Italia!):  come non ricordare La casa del mistero  (Peril,1930); o Il demonio di Sainte-Croix (Le dèmon de Sainte-Croix, 1932), un autentico capolavoro, e uno dei primi romanzi fondamentali sui serial killer ?

E furbescamente, affiancandoli agli Steeman, autore già collaudato, vennero proposti romanzi di altri autori, alcuni conosciuti (Jacques Decrest, Pierre Boileau o Pierre Very), altri meno (Valentin Maldestamm, Pierre McOrlan, Geo Duvic), o in un caso, addirittura sconosciuti (Charles Ashton).

La collana terminò  con una riedizione de La casa del mistero, di Steeman, nel 1952. Da allora l’oblio calò su questa collana e sui pezzi pregiati che aveva proposto. Basti pensare che a tutt’oggi, le opere proposte di Boileau, Ashton, McOrlan, Very , Duvic, sono le uniche ad esser state tradotte in Italia.

Mi ricordo di quando, sulla scorta di quello che mi aveva detto Igor, cercai di allertare la Sig.ra Tecla Dozio, proprietaria al tempo de “La Libreria del Giallo” di Milano, casomai le fossero capitati dei romanzi, e lei mi rispose che aveva già una cliente affezionata che glieli acquistava ad occhi chiusi.

Già.

Da allora devo dire che qualche colpo l’ho messo a segno anch’io, aiutato da un amico a cui in passato erano passati sotto gli occhi dei numeri, e quindi mi sono assicurato alcuni pezzi pregiati di Steeman (soprattutto Sainte-Croix ma anche altri), Boileau (Il quadro maledetto, e altri), Very (Il testamento diabolico), McOrlan (Il baule infernale), Geo Duvic (Lo spettro della morta). Sono stato sul punto di acquistare tempo fa dei Decrest, ma mi sono sfuggiti, e non credo avrò più l’occasione di beccarli a meno che non si attivi qualche amico.

L’unico rimpianto è che, approntando questa collezione, nessuno pensò a pubblicare opere di Vindry, Lanteaume, o Letailleur o altri più rari ancora.

Oggi come oggi, che si possa pubblicare un’opera di un francese, dell’età dell’oro, è solo un’illusione.  

Pietro De Palma                                                                    

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C. Daly KING : LA MALEDIZIONE DELL’ARPA (The Episode of the Vanishing Harp,1935) – trad. Dario Pratesi – I Bassotti, Polillo, N.54, 2008

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Quando uscì, non lo presi. Il motivo è semplice: è un racconto, seppure lungo, e 8,90 euro (in pratica 9) a parere mio non giustificavano quella spesa, tanto più che allora un Classico del Giallo costava la metà (ora non più). Tuttavia la ragione vera eraun’altra: speravo che prima o poi l’intera collezione dei Racconti di Mr. Tarrant sarebbe stata disponibile ad un prezzo inferiore, cioè nella Collana de I Classici del Giallo Mondadori, in cui allora gli inediti del Mystery uscivano non di rado.

Poi scomparve dalle librerie, e io, anche se avessi fatto un passo indietro e avessi nutrito la velleità di acquistarlo, non avrei potuto; e così è stato fino ad ora.

Perchè comprarlo ora, allora? Per due motivi: innanzitutto perchè mi si è offerta la possibilità di prendere parecchi volumi che mi erano sfuggiti alcuni e altri li avevo un po’ messi da parte preferendo degli altri, ad un prezzo irripetibile (oltre la metà) per una svendita operata da una Libreria di Firenze; e poi perchè, nonostante una presa di posizione – a cui ho contribuito io stesso dando una mano sul Blog del Giallo Mondadori – di Mauro Boncompagni, che alle richieste circa la scomparsa nei proclami di inzio anno della pubblicazione dell’antologia di Daly King, ha risposto con un atto di fede nelle promesse passate di Forte, io non credo più a questa possibilità.

Nonostante dovunque si registri una renaissance nei confronti della letteratura poliziesca della Golden Age, dagli USA dei romanzi pubblicati da Crippen & Landru e John Pugmire, all’Inghilterra della recente vittoria di uno scrittore e critico come Martin Edwards che ha affrontato di nuovo la Golden Age, dopo che già Joihn Curran con Agatha Christie e Curtis Evans ( statunitense) ancor prima con Connington e Rhode avevano posto l’accento sul rinnovato interesse dei lettori e degli sudiosi sul fenomeno Golden Age, in Italia si è restii ancora a condividere questo motus. Soprattutto in casa Mondadori. Soprattutto nelle collane da edicola.

Oramai mystery se ne vedono sempre più col lanternino : questo mese c’è un Freeman inedito (dovrò chiedere di nuovo ad Alberto Cottini che acquisti una copia per me e me lo spedisca, giacchè dalle mie parti, Bari, i Classici non arrivano più ), ma oramai quando vedi un Mystery uscire in Mondadori non c’è l’entusiasmo di una volta ma una specie di disincanto.. E’ per questo, che non credendo che esca più la traduzione italiana integrale di The Complete Curious Mr. Tarrant (o almeno in fondo in fondo auspicandolo ma non credendovi molto), ho afferrato al volo almeno l’occasione di leggere uno dei racconti di Daly King (un altro, pure pubblicato da Polillo, era stato raccolto nell’antologia “I Delitti della Camera Chiusa”: L’episodio del chiodo e del requiem)

Tarrant, che è un investigatore molto particolare, che ricorda molto Philo Vance (non a caso Daly King è un vandiniano della prima ora), e infatti si interessa di archeologia, psicanalisi (guarda caso come lo stesso Daly King che ne era un affermato studioso), pittura, fisica, e altri piaceri intellettuali, e che vive di rendita, presta gratis i propri servigi a chi possa solleticargli la curiosità sottoponendogli quegli enigmi così astrusi e così pazzeschiche nessuno riuscirebbe a risolvere. A patto che tuttavia lui, l’investigatore, sia libero di fare quello che voglia pur di arrivare alla soluzione. Del resto il fatto di non essere pagato è conditio sine qua non per cui Tarrant si ritenga scevro da qualsiasi contratto e da qualsiasi imposizione. Lavora secondo i propri metodi, che non sono quelli della polizia, che non sopporta, nonostante finisca spesso per agevolare con le sue collaborazioni.

Qui il narratore, che parla in prima persona e presenta Tarrant in terza, rimanendo nell’ombra (come nei romanzi di Van Dine, guarda un po’…) introduce Daben Donatelli, suo compagno più grande di due anni di College, favolosamente ricco, e sposato con Molla, una donna bellissima e ricca e di origini irlandesi, possiede un’arpa antichissima, parecchio simile alle arpe “nanga” egizie, la cui storia affonda nella leggenda quasi e che è legata alle vicende del clan di cui è discendente Daben. A tal punto che qualcuno nel XII secolo aveva buttato giù una profezia legata al destino dell’arpa, in base a cui quando di nuovo il matrimonio che si era tenuto al tempo tra un antenato di Darben e la sua sposa si fosse ripetuto, e l’arpa fosse scomparsa per poi apparire e di nuovo scomparire, la casata dei Daben si sarebbe estinta per sempre.

Ora il fatto saliente è che l’arpa è scomparsa. Da un bunker in cemento armato, in cui è posta la biblioteca di casa, fatto costruire all’interno della villa in cui vivono Daben e sua moglie (discendente della moglie dell’avo di Daben), cui si accede per tramite di un pannello segreto, l’ubicazione del cui meccanismo di apertura è noto solo a Darben stesso, e in cui non vi sono finestre, ma solo è presente un impianto per il condizionamento dell’aria, le cui aperure sono tali che non potrebbe passarvi neanche un topo.

Tarrant accetta di recarsi alal villa di Daben, ma quando arriva, neanche il tempo di prendere coscienza dei luoghi, e…l’arpa viene trovata, nella gioia di tutti, compreso il padrone di casa. Alla sua villa non si trovano solo lui e la moglie, ma il segretario Stuart (quando c’è un uomo ricco o una donna ricca, c’è sempre il segretario), Brinkerstall un finanziere tutore della moglie di Daben, il dottor Turpington e sua moglie, e il personale di servizio. Per un puro caso, mentre sta per scendere a cena, Tarrant capta sul suo piano un colloquio tra Molla e Stuart, da cui capisce che tra i due c’è del tenero,

La presenza di Turpington e di sua moglie è legittimato dal fatto che Molla è preda di crisi nervose: la sparizione dell’arpa connessa con la maledizione espressa dalla profezia, per lei che è molto legata alle tradizioni di famiglia è divenuta ulteriore forma di frustrazione psicologica ed emotiva, e per questo Turpington, che è un amico di famiglia, l’ha invitata ad accompagnare lui e sua moglie in crociera, per “staccare” dall’atmosfera che si vive in quelal villa.

Oltre questo…nulla che possa spiegare la ricomparsa dell’arpa, inspiegabile, come tale era stata la scomparsa. Chi mai sarebbe riuscito a far scomparire un’arpa, cioè un oggetto voluminoso, di legno, simile ad una specie di cetra, ma dalla forma a goccia, da una stanza impenetrabile?

Tarrant entra con Daben nella stanza e la esamina a fondo, ma non trova nulla: solo libri, e modelli di imbarcazioni, nella cornice in alto, sopra gli scaffali della libreria. Esamina le pareti, esamina il tappeto, esamina gli scaffali, ma non trova nulla.

Intanto la vita va avanti nella villa tra cene e partite a bridge. Ma proprio una sera che c’è stata un partita e Tarrant ha visto il pannello davanti a lui aprirsi e chiudersi e poi aprirsi e chiudersi quando Daben è passato avendo sotto le braccia un modello di barca che deve riparare, sul più bello, quando Molla vuole vedere ancora una volta l’arpa al suo posto…l’arpa non c’è più. Inutile guardare dappertutto e riesaminare scaffali e quant’altro: l’arpa non compare. Tarrant giunge persino a vedere se vi siano impronte, sulla teca di cristalloc he dovrebbe contenerla, non trovandone neanche una.

Dopo un viaggio a New York, e dopo che si è barricato una notte nella biblioteca, temendo che qualcuno attenterà alla sua vita, se è vero quel che pensa, l’impossibile avviene: a mezzanotte inoltrata Tarrant perde i sensi e chi entra silenziosamente si accerta che lui sia morto. Quando però Daben entra di mattina e si accorge che Tarrant è esanime, corre sopra a chiamare il medico; ma quando tornano precipitosamente, trovano Tarrant vivo e vegeto che impugna una pistola, che impone ai due di raccogliere i presenti, e alla loro presenza  individua il colpevole, rivela come l’arpa sia scomparsa e ricomparsa, e infine concede una via “di fuga” al quasi omicida, ponendogli come alternativa all’arresto, il suicidio col veleno.

Notevole racconto, si impone subito per la struttura narrativa che non è “da racconto” classico: quando pensiamo ad un racconto “anni trenta”, pensiamo a qualcosa che per forza di cose deve rinunciare ad una introduzione, ad una descrizione approfondita dei personaggi e delle loro avversioni tale da introdurre ad un delitto, ma deve introdurre subito, senza preamboli approfonditi, al delitto. Beh, questo nel racconto di Tarrant non c’è, perchè è un romanzo in miniatura: ha una introduzione in cui il narratore (dicevamo in prima persona) introduce il personaggio chiave, Mr. Tarrant, descrivendolo; descrive colui che si rivolge all’investigatore, il suo milieu e la ragione pratica per cui lo fa, cioè l’arpa; descrive l’arpa ed il momento storico a cui si riferisce, che a sua volta deve poi legittimare la profezia su cui si basa la maledizione; infine passa allla  descrizione dei personaggi  e dei luoghi in cui si svolge l’azione, e all’azione vera e propria.

L’azione che è il cloux del racconto, lo assimila al genere della Camera Chiusa. Non è però la Camera Chiusa che troviamo nella maggior parte della produzione, cioè in cui in un camera chiusa o in uno spazio delimitato (i puristi americani si oppongono a questa seconda possibilità parlando di Delitto Impossibile: neve, sabbia, polvere, isola in mare aperto) avviene un delitto, bensì è solo la sparizione di qualcosa che tecnicamente è impossibile che scompaia (e in questo caso ricompare per scomparire di nuovo) da uno spazio chiuso senza che qualcuno se ne accorga. Carr vi ricorse nelle ultime opere con Merrivale (The Cavalier’s Cup per es.) e in alcuni racconti o radiodrammi: per es. quello in cui una persona viene pugnalata a morte in una piscina, mediante un pugnale che svanisce, come invisibile parrebbe che fosse l’assassino (The Dragon in the Pool, 1944). Anche altri autori vi sono ricorsi: per es. la sparizione impossibile di una spada, in The Bishop’s Sword di Norman Berrow. Per certi versi, la sparizione dell’arpa, la ricomparsa e la nuova sparizione, sono molto simili al pugnale che è scomparso da una camera senza lasciare traccia: è evidente che se non è uscito, deve essere lì. Ma dove? L’abilità di King è proprio lì, piuttosto che nella scoperta del colpevole che è più semplice. Oltretutto, c’è un dato riconoscibile che assimila il racconto proprio al suo creatore: il movente è da ricercarsi in una personalità distorta, la cui affezione è spiegata in quanto  patologia psichiatrica. In questo dato, riscontriamo un’ulteriore vicinanza della copia col suo archetipo, che è Van Dine: al di là dell’evidente caratterizzazione dell’investigatore privato che sa tutto (Mr Tarrant è molto vicino a Philo vance), e alla presenza del narratore amico che narra in prima persona ma rimane sempre nell’ombra, un’ulteriore prova che Daly King fosse un vandiniano, in questo racconto, è dato dalla personalità dell’assassino (perchè non ha esitato a uccidere Tarrant) di cui l’investigatore trova un indizio leggendo un libro, proprio come in The Greene Murder Case: lì leggendo Handbuch für Untersuchungsrichter di Gross, qui Emozioni nelle persone normali, di A.M. Marston. E come in quel caso, Philo Vance concede all’assassino la possibilità di uccidersi, così fa Tarrant qui

P. De Palma

 

 

 

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Ngaio Marsh : Ricevimento col morto (False Scent, 1959) – trad. Mario Lamberti – I Gialli Garzanti “Le tre scimmiette” N. 198 del 1961; I Classici del Giallo Mondadori N.914 del 2002

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Pubblicato nel 1959 per la prima volta, il New York Times nella sua rubrica di recensioni librarie definì il romanzo di Ngaio Marsh False Scent  una “delightfully witty and vivid novel of the London theatre”.

E’ il ventiquattresimo romanzo con protagonista Sir Roderick Alleyn, di origini nobili, prima Ispettore e ora Sovrintendente di Scotland Yard. E anche questa volta, come in altre passate, ha a che fare con un delitto maturato in una comunità teatrale.

Mary Bellamy è un’attrice di teatro molto nota, che recita con un contratto esclusivo, per la Compagnia di Marchant. Il marito, Sir Charles Templeton è maggiore azionista della società di Marchant, ed è lui che in un momento di difficoltà della Compagnia, immediatamente dopo il secondo conflitto mondiale, è venuto incontro a Marchant sorreggendone le possibilità e permettendo alla sua compagnia di reagire ed affermarsi. E Mary Bellamy recita solo per loro.

Il giorno del compleanno di Bellamy, viene organizzata una sontuosa festa a casa sua e oltre a molti invitati importanti della finanza e dell’aristocrazia, vi sono gli amici più stretti: il regista Timon Gantry; il costumista Bertie Saracen; l’attrice più giovane e partner sulle scene di Bellamy, Pinky Cavendish; il figlioccio di Bellamy e Templeton, Richard Dakers, commediografo; la sua fidanzata Anelida nipote di Octavius Brown, antiquario e libraio, e il colonnello Warrender, amico intimo dei Templeton. Tuttavia il Fato bussa alle porte, perché proprio in quel giorno in cui tutto dovrebbe andare bene… Bellamy prima litiga con Bertie e Pinky nella serra, dopo che lei gli ha regalato il costosissimo profumo “Indifesa”, per ragioni di gelosia (Bellamy vuole essere la Prima Donna della compagnia e non permette che altre possano insidiare la sua posizione di prestigio e predominio nella Compagnia e al tempo stesso pretende che tutti anche i costumisti debbano vestire bene solo lei), poi litiga con Timon, Richard e Anelida, quando viene a sapere che l’ultima commedia scritta da Richard non è stata come le altre dedicata a lei, ma alla fidanzata ed è lei che dovrebbe recitarla, mentre regista ed impresario si darebbero da fare per farla affermare: anche questi passi vengono intesi come un tradimento ed una congiura, per cui bene preso l’atmosfera si arroventa e Anelida e lo zio vengono messi alla porta: se ne va Richard, accompagnando la ragazza e lo zio, e tutti gli altri manifestano segni di insofferenza nei confronti di Mary.

La festa va avanti, e tra i flash dei fotografi ufficiali e i cocktails preparati dai barman, la tragedia si consuma: poco prima dell’apertura dei regali, Florence, la cameriera personale di Mary, grida che la padrona sta molto male e chiede un medico: l’ha trovata per terra agonizzante ma ancora viva. Il tempo che arrivi un dottore presente in sala, ancora brillo, e la tragedia è finita: Mary Bellamy viene ritrovata morta, con il volto distorto in una smorfia orribile, con la lattina dello Slaypest, un insetticida estremamente efficace ma anche estremamente pericoloso, vicino. Sul volto, sul vestito, dappertutto, tracce  e rivoli di insetticida, come se la morta se lo si fosse spruzzato per disattenzione addosso. Ma è evidente che questo non sarebbe potuto mai accadere perché Mary era innamorata di se stessa: piuttosto l’avrebbe spruzzato addosso ad altri. L’Ispettore Fox, subdorando qualcosa, chiama immediatamente il suo diretto superiore e amico, il Sovrintendente Alleyn, che comincia col conoscere l’ambiente e poi prosegue interrogando i presenti, mentre Fox si occupa invece della servitù. Emerge che pochi istanti prima che venisse udito dalla governante Old Ninn e dalla cameriera Florence, prima un sibilo e poi un tonfo, era uscito di corsa dalla camera della madre adottiva Richard visibilmente scosso, che poi era scappato via di casa.

E’ inevitabile che i sospetti si appuntino su di lui, anche se non ci si capacita per quale motivo avrebbe ucciso la tutrice; e soprattutto come, visto che dopo la sua andata via,  la madre era rimasta avvelenata, e non prima. Tuttavia ben presto Alleyn deve cominciare a districarsi da una foresta di bugie, di mancate ammissioni e di strani comportamenti: innanzitutto benchè prima fossero molto intimi, dopo il ricevimento e prima della morte di Mary, Warrender e Richard da una parte e Templeton dall’altra rifiutano di vedersi in faccia; Old Ninn sospetta di Florence e Florence sospetta di Old Ninn; Florence sospetta anche e soprattutto di Richard; Gantry, Cavendish e Saracen sarebbero esclusi perché erano innanzitutto d’abbasso e per di più non avevano conoscenza degli ambienti della casa; Templeton dopo la morte di Mary ha un collasso e il dottore che aveva rilevato la morte  di Mary, il dottor Harkness, che è il medico di Templeton , lo assiste perché non abbia altri più pericolosi attacchi di cuore.

Alleyn sospetta che non possa essere altro che un omicidio, supposizione già espressagli dal suo fido Fox: potrebbe essersi trattato in alternativa di un incidente, ma di suicidio proprio no. Manca infatti una qualsiasi lettera di addio, e del resto perché avrebbe dovuto farlo nel bel mezzo di una festa organizzata da lei per il suo trionfo? Restano in piedi le due ipotesi del delitto e dell’incidente: la seconda supposizione per quanto possibile, non raccoglie tuttavia le simpatie dei due funzionari di polizia. Infatti l’insetticida che ha determinato la morte dell’attrice non è stato irrorato semplicemente ma è stato spruzzato da vicino, quasi reiterando con uno spruzzo continuo l’azione. Ricadremmo così nel suicidio, che abbiamo eliminato con altro ragionamento. Ne consegue che la sola ipotesi attuabile è l’omicidio: solo che manca l’assassino. Infatti la presenza delle due donne sul pianerottolo, a meno di non considerarne una delle due l’effettivo omicida, rende la cosa inattuabile e impossibile.

Roderick è quindi ad un punto morto.

Ci sono poi delle cose che non capisce: sulla toeletta viene ritrovato un mazzetto dio violette, fiori che la morta detestava, e nessuno degli invitati afferma di aver portato, perché tutti sapevano che non piacevano a Bellamy; prima che la morte arrivasse, è stata udita la frase “Il che ti dimostra quanto ti sbagli. Te ne puoi andare quando ti piace e più presto lo farai meglio sarà” pronunciata ad alta voce dall’attrice in modo che tutti sentissero: ma a chi era rivolta?

 In più una delle due donne di servizio afferma che il vecchio Templeton è entrato in un certo momento, mentre la moglie era già morta, nella loro camera da letto, cosa che lui si è scordato di dire, per fare qualcosa in bagno (probabilmente per usare il WC), dato che la cameriera ha sentito il rumore del lavandino.

Viene ritrovato nello studio la carta copia di una lettera di Richard che lui si ostina a negare di avere scritto e che Roderick Alleyn ricostruisce con il suo acume; nello studio di casa viene ritrovato un volume sui veleni, in cui è segnata l’informativa sullo Slaypest; Mary Bellamy, prima di scendere giù dagli invitati si era fatto spruzzare addosso il profumo che le aveva regalato Pinky, in gran quantità non dal marito, ma da Warrender, di fronte a lui: perché? Perché Warrender e non il marito? Inoltre, perché sulla toeletta era stato ritrovato il profumo quasi del tutto finito, quando in occasione dell’episodio appena citato, ce n’era ancora parecchio nel flacone?

E soprattutto, come è stato perpetrato l’omicidio, se di omicidio si è trattato?

E quale è stato il movente dell’omicida? Soldi? A ereditare sarebbe il marito, che purtuttavia è favolosamente ricco di suo. Gelosia? Il marito stravedeva per la moglie e le soddisfava tutti i capricci. Malvagità ? Sì indubbiamente. Ma malvagia era diventata lei, la vittima. Anche in questo caso ci troviamo infatti dinanzi ad una vittima che è più malvagia di l’ha uccisa, perché il movente qui è la rabbia, l’odio puro. Scaturito tuttavia da una manifestazione della vittima: se lei non si fosse comportata in un certo modo, se non avesse spifferato una verità tenuta troppo tempo dentro, l’assassino non l’avrebbe soppressa.

Tuttavia il quid maggiore perché si possa arrivare ad individuare l’omicida è l’arma oltre che il movente: qual è stato il mezzo usato per uccidere la donna?

Quando Alleyn capisce di cosa si tratti, lo invierà alla polizia scientifica, che accerterà consistenti tracce dell’insetticida. Ovviamente, a questo punto l’indagine andrà avanti più spedita, perché l’acquisizione dell’arma eliminerà dalla lista dei sospetti alcune persone e ne aggiungerà altre. Finchè in un colpo di scena finale, dopo che è stata data ai lettori in pasto un’altra falsa pista,  Alleyn rivelerà il nome dell’assassino.

Romanzo splendido.

Mi stupisco ancora della maestria della Marsh nel riuscire a trattare in maniera tanto sapiente tanti personaggi, dando ad ognuno un suo rilievo e una sua funzione: qui, anche quelli che per la stessa azione della tragedia, e per i paletti imposti dalla sceneggiatura, non prendono parte attiva all’azione delittuosa anzi ne sono estromessi sin dall’inizio, ossia Gantry, Cavendish e Saracen, hanno una loro parte ben precisa nel definire la personalità  di Mary e le sue peculiarità in quanto dirigente della compagnia: infatti, le azioni che deteneva all’inizio Charles, sono state da questi, per le sue precarie condizioni cardiache, trasferite alla moglie, temendo di morire, lasciando sulla strada Mary. Quindi è lei ad influire sulle scelte della compagnia, e quelle che sembravano delle bizze e delle prese di posizione da Prima Donna, alla fine, proprio per l’atteggiamento di  Gantry, Cavendish e Saracen, e per l’intervento tardivo di Montague Marchant, vengono definite nella giusta luce. E hanno anche loro la loro importanza nel far schiarire i contorni del dramma.

E’ un romanzo più classico che non si può, sempre nell’ottica dei romanzi della Marsh: c’è una introduzione in cui vengono presentati i vari personaggi del dramma, poi l’azione vera e propria in cui si delineano le linee guida dell’azione delittuosa; e qui termina la prima parte. La seconda comincia con l’entrata in scena di Alleyn e comincia l’indagine:  viene adombrato un primo colpevole e presentata una prima falsa pista, poi si punta sulla presenza di due persone sul pianerottolo e quindi vengono presentate altre due false piste, per arrivare quindi ad insinuare che l’omicida possa essere un altro ancora, fino ad arrivare all’individuazione del vero. Tuttavia la catarsi, come ogni tragedia, qui non c’è, o meglio non c’è un secondo finale più sereno: qui il secondo finale (il primo è coinciso con l’individuazione dell’assassino) coincide con la cerimonia del funerale, e il romanzo finisce con una nota mesta ma d’effetto.

Mike Grost, uno dei più grandi critici americani, lo definisce il capolavoro della Marsh: “It combines a well constructed, intricate plot with a delightful look at theater people”. Io non so se sia il migliore, ma sicuramente è uno dei migliori. Possiede un plot molto intricato, in cui gli indizi sono di natura psicogica più che reale, e cosa interessante, ha una struttura che ricorda un altro romanzo basato su un ambiente teatrale, ma di Crispin: The Gilded Fly. Anche lì la vittima che è la prima donna, è un mostro in grado di fagocitare e distruggere tutti, finche uno dei tanti, un cane di paglia, che non avrebbe mai fatto quello che fa se il mostro non avesse suscitato in lui la rabbia, prende fuoco ed elimina il mostro. E l’azione fino al delitto è molto simile, seppure con tutti i distinguo: è l’assassino che è diverso, e quindi anche l’indagine.

La caratteristica tuttavia che mi sembra più interessante è quella del ritorno dell’erede, una peculiarità che è tipica dei romanzi classici britannici: da Heyer a Christie, ad altri autori, fa sempre capolino l’elemento dalla doppia personalità che pertanto entra al momento opportuno nella scena, condizionando la risoluzione. Qui la particolarità risiede nel fatto che non c’è il ritorno dell’erede, perché il figlio acquisito c’è già, quanto invece il ritorno dei genitori, i due Dakers, che ritenuti morti, invece…non lo erano affatto. Il bello è che nessuno dei due è l’assassino, ma proprio l’apparizione degli effettivi genitori scatenerà la rabbia e l’odio dell’assassino.

L’assassino in fondo è un personaggio molto umano: la Marsh è come se lo scusasse, perché, come in molti altri romanzi di altri autori, forse l’assassino è meno colpevole della sua vittima, e la sua stessa azione riprovevole (la morte con un veleno quale il tetrafosfato di esaetile è rapida ma estrememente dolorosa) in fondo viene vista come un’azione necessaria e derivata dalla peronalità disturbata della Bellamy. E mai come in questo romanzo, l’assassino è il personaggio meno presente e la cui personalità è la meno pronunciata dell’intero parco dei personaggi. E come un cane di paglia che prende fuoco ma consuma se stesso, così l’assassino oltre a determinare l’altrui distruzione completerà la sua, consumandosi.

Un ultima nota riguarda la cattivera e la caustica ironia della Marsh nell’aver scelto lo Slaypest quale arma di morte: come lo Slaypest viene usato nel romanzo per eliminare gli insetti che possano infestare le azalee, così Mary Bellamy viene eminata perchè non infesti l’ambiente delle persone che la circondano. In sostanza Mary Bellamy viene paragonata ad un insetto infestante.

Pietro De Palma

The post Ngaio Marsh : Ricevimento col morto (False Scent, 1959) – trad. Mario Lamberti – I Gialli Garzanti “Le tre scimmiette” N. 198 del 1961; I Classici del Giallo Mondadori N.914 del 2002 appeared first on La morte sa leggere.

John Dickson Carr : Una croce era il segnale (Below Suspicion, 1949) – trad. Maria Antonietta Francavilla – I Classici del Giallo Mondadori -1^ edizione, 1988, 2^ edizione 2016

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Pare che sia quasi un luogo comune ricordare con nostalgia il passato ed esclamare: “Quelli sì che erano bei tempi!”. Però un fondo di verità c’è sempre: sarà che è legato ai nostri ricordi di gioventù e quando uno ha passato la cinquantina ricorda sempre con piacere i tempi di quando aveva vent’anni, però è anche vero che una volta tutto era diverso. Prendiamo i Gialli Mondadori per esempio: Forte, Altieri e compagnia bella qui non c’entrano nulla, ma è anche vero che nel 1969 (io avevo sei anni) per festeggiare un Classico Oro che presentava un romanzo di Carr ritenuto un caposaldo della sua produzione, Il Mostro del Plenilunio (It Walks by Night), venne pubblicata un’intervista rilasciata a Gian Franco Orsi dallo stesso Carr, in cui, tra altre facezie, l’autore esprimeva le proprie preferenze tra i romanzi da lui pubblicati. Erano 4, lo ricordo molto bene: The Emperor’s Snuffbox, The Crooked Hinge, Below Suspicion e He Who Whispers.

Francamente non so sulla base di cosa lui avesse fatto codesta scelta, ma è anche vero che Carr non è che fosse molto sicuro di cosa valesse più o meno della sua produzione: io ho il sospetto che se lui avesse voluto salvare dei libri, avrebbe cercato di salvarli quasi tutti. Non è un caso che nel 1963, come ricordava Boncompagni sul Blog del Giallo parecchi anni fa, Carr in una letta a Broberg, uno scrittore e critico svedese, ricordando quali per lui fossero i romanzi più cari, ne citava altri quattro: Till Death Do Us Part,  He Who Whispers, Fear, Burn!, Curse of the Bronze Lamp. A ragione possiamo affermare, quindi, che almeno He Who Whispers, deve aver rivestito tra le sue opere, una particolare importanza. Ma siccome mancava da molti anni, recentemente è apparso in edicola uno dei romanzi citati nell’intervista a Orsi: Below Suspicion (“Una croce era il segnale”).

Alcune volte, quando sono stato chiamato ad esprimermi, ho detto la mia su questo romanzo: a me non è mai parso un capolavoro. Rileggendolo, devo dire in tutta franchezza che, pur avendo riguadagnato qualche punto, il giudizio di fondo non è mutato.

Ellis Joyce è stata accusata della morte della Sig.ra Taylor di cui lei è stata dama di compagnia. La Sig. ra Tayor assumeva medicine di qualsiasi genere e usava molto i Sali di Nemo e i Sali Epsom (solfato di magnesio): senza i Sali Nemo non riusciva a stare. Era accaduto che una notte che la ragazza fosse andata a letto e non si fosse svegliata, che la vecchia fosse morta avvelenata:  la vecchia aveva assunto antimonio puro al posto di solfato di magnesio in un bicchiere d’acqua. L’antimonio era contenuto in una vecchia scatola di Sali di Nemo nella stalla: come ci fosse finito nella stanza della vecchia nessuno lo sa; l’unica cosa certa è che sulla scatola sono state trovate solo le impronte digitali della vecchia e di Ellis.

Ellis proclama la sua innocenza: dice di non aver ucciso la vecchia. E per quale motivo poi? Per ereditare 500 sterline? Fatto sta che la condanna pare certa e così Charles Denham, procuratore legale su cui gli occhi e le forme sinuose della ragazza hanno fatto colpo, chiede all’amico Patrick Butler, avvocato penalista di grido e principe del foro, di occuparsene e salvare la ragazza dall’impiccagione. Butler con un capolavoro di difesa, insinuando il dubbio nel personale di servizio, in particolare in Emma (la cuoca) e in Griffith (il cocchiere), per di più marito e moglie, che qualcuno quella notte fosse entrato dal di fuori e avesse ucciso la vecchia, basandosi sulla porta del retro che sbatteva nella notte e sulla chiave del portone che invece di essere solo girata per aprire la porta, pare fosse stata raccattata dalla ragazza da terra, come se qualcuno l’avesse lasciata cadere per terra, salva la ragazza.

Tutto finito? No, perché qualche tempo dopo, qualcuno uccide nel medesimo modo, versando dell’antimonio puro in una bottiglia d’acqua posta sul comodino assieme ad un bicchiere, Dick Renshaw: guarda caso l’uomo, che è agente di cambio ma ha ben tre conti corrente e una doppia vita di cui nessuno è a conoscenza, è marito di Lucia renshaw nipote a sua volta di Mildred Taylor, la vecchia rimasta avvelenata con l’antimonio. E’ un po’ troppo! Due avvelenamenti con antimonio! Lucia è accusata di aver ucciso il marito, ma lei si proclama innocente: Denham propone a Butler di adoprarsi per la difesa della donna. Questa volta Butler accetta la difesa non per il prestigio personale ma per amore: si è innamorato della bellissima Lucia e pare che la cosa, man mano che i due si vedono, nella prigione in cui lei è detenuta in attesa del processo, sia condivisa da lei. Il fatto è che Butler questa volta è fermamente convinto dell’innocenza della donna, mentre nel caso della Joyce era invece convinto della sua colpevolezza e come fosse invece “una bugiarda nata”: fatto sta che Butler ancora una volta dà il meglio di sé e riesce a farla assolvere.

Tuttavia a completare il quadro è anche Gideon Fell chiamato da Denham, in virtù dei suoi successi precedenti: egli è preoccupato in quanto inquadra queste due morti in una serie di almeno 9 morti per avvelenamento, che hanno tutte caratteristiche comuni: quello che sarebbe il colpevole più accreditato in realtà ha sempre un alibi di ferro, anzi se ha comprato qualcosa che potrebbe esser stato utilizzato per uccidere, si sta sicuri che la vittima non morirà per effetto di quel veleno ma di altro con cui il sospetto non può esser messo in relazione in alcun modo: Fell in altre parole sospetta l’esistenza di una società segreta, volta a procurarsi i veleni per chi volesse sopprimere una persona per un qualsiasi motivo.

Mettere in relazione questi sospetti con certe cose che sente lui da parte di personale in servizio nelle due case in sui sono avvenuti gli avvelenamenti, è cosa da poco: Fell, capisce da certi segni fatti distrattamente nella polvere (croci rovesciate), da candelabri sporchi di cera nera poi puliti misteriosamente di notte cosicchè i residui non possano venir rilevati, e da certe cose dette e non dette dal dottor Bierce, medico della signora Taylor, che cioè nella casa della vecchia l’aria fosse malsana, che la signora Taylor e Dick Renshaw fossero dediti al culto satanico, e che Renshaw stesso, sulla base dei lasciti enormi di cui disponeva e di cui non si riesce a venire a capo, fosse addirittura il capo di questa setta. Fell sospetta che la setta si riunisse in una vecchia cappella, ereditata ora da Lucia assieme alla casa della signora Taylor e a quella in cui abitava lei, chiamata Il Priorato: Fell, Butler, Lucia e Bierce scopriranno che sotto la cappella propriamente detta, ve n’è un’altra dedita al culto di Satana.

In un turbillon di situazioni anche avventurose, di cui è protagonista Butler anche in compagnia di Lucia (spacciarsi per il fratello ipotetico di Renshaw per avere informazioni da Luke Parsons, agente investigativo di cui si era servito Lucia per sorvegliare il marito temendo una relazione extramatrimoniale dello stesso, circa dei ceffi che avevano pestato a sangue un dipendente dell’agenzia investigativa di Parsons; entrare in contatto con tali ceffi, capeggiati da un certo Denti d’Oro, un picchiatore che è a capo di una banda di cui si servono i satanisti per togliersi di mezzo gli spioni; trovare i documenti della setta in una parodia di confessionale contenuto nella cappella satanista e poi ingaggiare un incontro di pugilato proprio con Denti d’Oro, mentre la cappella dell’Anticristo brucia), Parson verrà ucciso, Denti d’Oro verrà anche lui ucciso e Butler rischierà anche lui di essere immolato come vittima sacrificale al culto satanista da parte del vero omicida, salito ai vertici della setta dopo l’omicidio di Dick Renshaw, in un finale al cardiopalmo, in cui la sua identità sarà rivelata.

Il romanzo non è male, ma non è un capolavoro e in questo concordo pienamente con Nick Fuller e come lui ritengo che uno dei motivi sia quello da lui addotto:Although Dr. Fell is present, he does very little; the hero of the mystery (as opposed to a detective-story) is the intolerable Patrick Butler, arrogant and colossally stupid, who, after functioning tolerably well in court, calls the judge an “old swine” and engages in bouts of fisticuffs in a burning Satanist chapel with a common or garden thug he believes to be “a real sportsman…the finest breed in the world”. In un romanzo in cui uno si aspetterebbe di vedere Fell districare la matassa, e torreggiare lui in tutte le situazioni, ecco che il protagonista a sorpresa diventa Butler che però non riesce mai a smarcarsi, e quindi il romanzo stesso non decolla: per di più, la mancanza di situazioni impossibili propriamente dette (l’avvelenamento da antimonio non lo è, semmai la genialità di Carr è connessa nel mettere l’omicida in relazione alla morte di Renshaw), la presenza di elementi diversificati come la marijuana, gli elementi satanisti, la banda di malfattori, l’agenzia di investigazioni private, l’azione che non è statica ma invece è dinamica, spostandosi da sale da biliardo a locali malfamati, da aule di tribunale a cappelle blasfeme, fa sì che invece del mystery che ci aspetteremmo, ci venga propinato un romanzo avventuroso se non un vero e proprio thriller, un genere assolutamente poco praticato da Carr, che però a sua volta non ha un’atmosfera vera poiché l’omicida è molto facile da individuare. L’indagine di Fell sembra quasi campata in aria: dare la colpa a **** della morte del nipote acquisito della sig.ra Taylor, mi sembra velleitario, e non così aderente ad un ragionamento perfettamente logico come in altre sue prove, perchè si basa non su prove inoppugnabili ma su indizi. E nel momento in cui Fell occupa l’attenzione di tutti (Carr utilizza la descrizione del personaggio, gigantesco non solo per occupare lo spazio in cui i personaggi si muovono, ma anche l’attenzione dei presenti e del lettore), ecco che Carr sposta la macchina da presa su Butler, perché dovrebbe essere lui, nelle sue intenzioni, il vero protagonista: ma in questo suo voler imporre un nuovo personaggio nella sua storia narrativa, non unico visto che un altro romanzo è basato sulle gesta di Butler, Richard Butler for the Defense del 1956, quasi a immaginare che volesse creare un’altra serie basata sull’avvocato penalista, Carr non se la sente di mettere in ombra Fell , il suo personaggio più famoso, e a lui affida la parte di rivelatore dell’arcano. Così in sostanza, il romanzo rimane un tentativo a metà, e non riesce veramente mai a smarcarsi, perché non ha un vero e proprio protagonista ma due a metà; l’unica originalità è il finale, che, in forma epistolare, ha una sua intrinseca forza (son d’accordo con Mauro).

Se tuttavia di protagonisti “buoni” ve ne sono due a metà, quello che si contrappone e rappresenta l’avversario malvagio ha un suo spessore non indifferente,  anzi ambiguo nella sua doppia identità e nella sua volontà di uccidere che fino all’ultimo non si capisce se sia finalizzata al solo ottenimento di vantaggi connessi alla sua leadership dei satanisti oppure se sia la risultanza del delirio di una mente malata. E tanto più il capo dei satanisti che ha ucciso Luke Parsons, Denti d’Oro e Dick Renshaw, ha forza, è perché attraverso il suo fascino personale, che modifica in funzione di chi gli sta davanti, riesce a restare nell’ombra, e farsi degli alleati (Kitty Owen, la cameriera di casa Renshaw, satanista anche lei e a lei devota).

Il romanzo a mio modo di vedere ha parecchi punti di contatto con l’Agatha Christie di Poirot a Styles Court e con l’Ellery Queen di Siamese Twin Mystery, e ne ha anche per certi versi con Anthony Berkeley, col Berkeley che utilizzava fatti di cronaca nera veri come base per le proprie storie oppure che nelle sue citava. Infatti, non tutti sanno che Carr, nella realizzazione di questo romanzo, si basò su un famoso avvelenamento avvenuto a metà ottocento: quello di Charles Bravo, avvocato londinese, morto dopo tre giorni per avvelenamento da antimonio contenuto in un barattolo nella stalla, tutti elementi che ritroviamo nel romanzo di Carr, ovviamente mutati alcuni elementi, assieme anche alla località dove l’avvelenamento avvenne, The Priory (Il Priorato); e guarda caso The Priory esiste anche nel romanzo di Carr. Del resto questo non fu l’unico caso in cui Carr si servì, come Berkeley, di un vero caso di cronaca nera come base di una sua opera: come non ricordare il suo studio a metà tra il mystery e l’indagine storica in cui cercò di individuare il colpevole in The Murder of Sir Edmund Godfrey ? E del resto pare che anche Agatha Christie, nel suo romanzo Ordeal by Innocence (Le due verità), fosse stata ispirata dal “Caso di Charles Bravo”.

Pietro De Palma

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Agatha Christie : La sagra del delitto (Dead Man’s Folly, 1956) – trad. Paola Franceschini – Oscar Gialli 47, Mondadori, 1979

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Su Agatha Christie non c’è nulla da dire; semmai lo possono i suoi romanzi, uno diverso dall’altro.

Quelli che mi restano più impressi, devo riconoscerlo, sono quelli che trattano di veleni (Se morisse mio marito, Tragedia in tre atti, Due mesi dopo, La parola alla difesa), ma uno, fra tutti, è esemplare per come è impostato: La sagra del delitto .

Qui infatti, mentre in altri la struttura del plot è fissa, perché molto spesso si è partiti da uno spunto di cronaca servito per imbastire il romanzo, qui è libera. Come dice giustamente Stefano Benvenuti nella prefazione al romanzo (lo ritengo il più grande critico che abbia avuto la Mondadori), “il delitto in origine è una finzione letteraria che poi si avvera, seppure in forma di finzione letteraria, più ampia, quella del romanzo”. In sostanza qui Agatha Christie può spaziare in lungo e in largo creando un romanzo a sé, giocando coi ruoli e le testimonianze: ne scaturisce quello che ritengo un romanzo perfetto, nonostante parecchi lo inseriscano nella produzione secondaria. Forse perché negli ultimi suoi testi, sovente Agatha Christie sente la necessità di affacciarsi nel romanzo attraverso un suo avatar, la scrittrice di gialli Ariadne Oliver, presente anche qui, quasi a sottolineare un approssimarsi della sua fine e la volontà di lasciare un segno. Agatha Christie quando scrisse questo romanzo, nel 1956, aveva sessant’anni. Non è quindi un romanzo della sua produzione esplosiva, ma testimonia quanto, anche sessantenne, la Regina del Giallo non avesse perduto per nulla lo scettro, anzi.

Comunque sia, la genesi fu tormentata. Infatti anche in questo caso, il romanzo è l’espansione di un racconto, o meglio di un romanzo breve: The Greenshore Folly (datato 1954). I proventi della pubblicazione di tale lavoro sarebbero dovuti essere impiegati, per volontà della scrittrice, nella realizzazione delle nuove vetrate della Churston  Ferrers Church, la chiesa che frequentava Agatha Christie. Tuttavia, per l’impossibilità che un tale lavoro potesse essere facilmente pubblicato in magazine, per saltare l’ostacolo, Agatha  Christie realizzò un racconto ex novo The Greenshaw Folly mentre il vecchio fu usato come canovaccio per un romanzo, appunto Dead man’s folly (vd. pag. 147 di  John Curran: I Quaderni Segreti di Agatha Christie, Oscar Mondadori, 2010).

Il romanzo nasce – come introduce Benvenuti – da una finzione, da un gioco: a Nasse House, vasta proprietà di Nassecombe, di proprietà di Sir George Stubbs, si è voluto fare una festa. Inizialmente sarebbe dovuta essere una Caccia al tesoro, ma poi qualcuno ha pensato ad una variazione più elettrizzante: una caccia all’assassino. In sostanza un cluedo, non giocato in una casa, bensì in una proprietà, all’aperto. Tutto qui niente di male. E soprattutto come mai Poirot vi capita? Non casualmente. E’ Ariadne Oliver, famosa scrittrice di gialli, a chiamarlo, perché ha avuto l’impressione di essere stata manipolata: è a lei che si sono rivolti gli organizzatori per creare questa originale caccia all’assassino, e lei aveva imbastito gli indizi, l’assassino e la vittima. Solo che qualcuno, trincerandosi dietro persone insospettabili, ha fatto modificare delle cose, che poi a mente fredda, hanno dato modo alla scrittrice di pensare di essere stata usata “per scopi loschi”: Ariadne in sostanza ha paura, una paura che scaturisce da una sensazione, che qualcuno al cadavere falso ne voglia sostituire uno vero. Ecco il perché della presenza di Poirot, annunciato dalla Oliver, da tutti accolto bene, a cui almeno sulla carta viene offerta, come si fa ad una personalità, la mansione di consegnare il premio al vincitore. In realtà lui, comincia a parlare, a far parlare, perché proprio dalle chiacchiere spera di ricavare, come sempre, degli utili indizi, delle tracce da seguire.

In realtà accumula solo degli interrogativi cui al momento non sa dare risposta: perché la vecchia Amy Folliat (i Folliat erano stati i proprietari di Nasse House dall’epoca della Regina Elisabetta I), che ora vive in affitto nella vecchia portineria, dopo aver venduto la proprietà a Sir George Stubbs, dopo aver perduto i figli in guerra e suo marito successivamente, in due occasioni dice a Poirot, prima che “Tante cose sono dolorose, Monsieur Poirot, e poi che “E’ un gran brutto mondo, Monsieur Poirot. E c’è al mondo gente ben cattiva. Probabilmente lo sa anche lei”? Perchè  il vecchio del molo (nella proprietà c’è una darsena provvista di un piccolo molo, ed è proprio nella darsena che dovrà essere trovato il cadavere), Murdle, quando Poirot riporta l’ultima asserzione della vecchia Folliat,  guardandolo stupefatto, riconosce che l’altro deve aver scoperto qualcosa? In realtà Poirot sa di non aver scoperto nulla e si chiede come mai gli altri pensino il contrario.

Perché Lady Stubbs, una ragazza orfana un po’ ritardata di cui si è presa cura la vecchia Folliat, che poi ha convinto Sir Stubbs a sposarla, aprendo una lettera si mostra sorpresa e anche spaventata dall’arrivo di un suo lontano cugino, Etienne de Sousa, che arriverà nel pomeriggio a bordo del suo panfilo? Perché dice a Poirot che Etienne “..è cattivo. E’ sempre stato cattivo. Mi fa paura. Fa cose cattive”? Quali sono queste cose cattive? Qualcuno dirà più in là, Stubbs, il marito, che “ammazzava le persone”, sulla base di indiscrezioni avute dalla moglie. Perché Marlene Tucker, la vittima designata, una ragazza scout figlia di gente di modesta condizione, presentata a Poirot, lamenta di non essere stata prescelta per essere pugnalata ma strangolata, e chiede all’investigatore belga se ne abbia “..visti tanti di assassinii”?

In realtà Ariadne aveva concepito ben altra vittima: sarebbe dovuta essere Sally Legge, la moglie di Alec Legge, ad esserlo. I due che sono degli sposini venuti ad abitare sei mesi prima a Nassecombe, hanno conquistato tutti, soprattutto lei, mentre lui è schivo e misantropo. Ariadne aveva pensato a lei come vittima, ma poi siccome la ragazza aveva stupito tutti con la sua lettura delle carte, qualcuno aveva pensato ad altra vittima, per poi ancora una volta ripiegare su altra persona, perché lei, Sally, avrebbe dovuto impersonare Zuleika, una maga lettrice di carte che predice il futuro. E lo stesso luogo di rinvenimento del cadavere, un capanno per attrezzi di lavoro, era stato cambiato nella vecchia darsena, a cui si accedeva per mezzo di una chiave Yale in possesso di sole tre persone: Ariadne, Stubbs (in un cassetto dello studio), la persona che arriva a trovarla nascosta tra le ortensie nel viottolo (ma al momento del ritrovamento del cadavere di Marlene, è ancora nascosta laddove l’aveva nascosta Ariadne Oliver).

Fatto sta che lo spettacolo comincia e tutto sembra andare nel verso giusto; e Poirot si sente sempre più di troppo, si sente vecchio, per essere stato chiamato da una vecchia amica a prevenire qualcosa che invece non sa se e quando accadrà, anche perché dell’ambiente non ha ancora capito nulla. Sembra un gioco di società come tanti altri: vi sono a corollario pesche di beneficenza, gare di lancio delle noci di cocco, vendita di confetture e marmellate, gare di birilli. Ma accadono anche delle cose strane: intanto arriva Etienne, che vuole riabbracciare la cugina, ma proprio lei non si trova, mentre avrebbe dovuto presiedere una manifestazione di bambini; Zuleika, cioè Sally legge, invece di stare nella tenda a predire il futuro scompare (dice di essere andata a prendere il tè ma è sbugiardata da una testimonianza di Amy Folliat) e guarda caso uno dei ciondolini d’oro che pendono dal suo braccialetto, verrà scoperto da Poirot in una fessura della piattaforma di calcestruzzo della Follia, una sorta di padiglione nel giardino: perché era andata lì e con chi si era incontrata ? Amanda Brewis, la governante, segretamente innamorata di Stubbs, che neanche si accorge della sua presenza, dice di essere stata incaricata di portare a Marlene dei pasticcini e una bibita, ma a tutti pare una cosa strana perché Lady Stubbs non si è mai interessata agli altri ma solo a se stessa. E’ vero che è andata lì?

Tanti interrogativi che si porranno poi ampliati a Poirot dopo che lui e Ariadne, camminando insieme, si saranno diretti alla darsena per salutare Marlene, e qui, invece di trovare la  ragazza in attesa di essere uccisa per finta, troveranno la ragazza uccisa per davvero. Per di più strangolata.

Ecco appressarsi e concretizzarsi le paure di Ariadne: qualcuno, approfittando della sua impostazione, ha ucciso per davvero la ragazza; qualcuno che ha usato la chiave Yale per aprire la porta, oppure qualcuno che si è fatto aprire la porta, quindi pur sempre qualcuno che la ragazza conosceva, uno del suo entourage; qualcuno che dopo aver strangolato la ragazza l’ha messa nella posizione in cui sarebbe dovuta essere per gioco!

Figurarsi Poirot! Non solo non ha capito gli indizi ma non è riuscito neanche a capire chi potesse essere la vittima reale! Però pervicacemente si mette ad investigare,

Intanto Lady Stubbs proprio non vuole rientrare: è scomparsa. Tutti la cercano, ma nessuno l’ha vista più da quando è stata vista camminare sul prato con delle scarpe dal tacco altissimo, un gran cappello e un abito appariscente: dove mai sarebbe potuta andare con un simile vestiario? Eppure nessuna l’ha vista uscire! Deve essere lì a Nasse House, da qualche parte. Il marito, Stubbs, è fuori di sé; la moglie del deputato di Nassecombe, Masterton, vorrebbe che la polizia usasse i segugi. Insomma tutti cominciano a fare delle supposizioni, che più passa il tempo, più si avvicinano all’inevitabile: anche Lady Stubbs è stata uccisa. E a questo punto acquisterebbe un senso anche la morte della ragazza: può essere stata uccisa perché aveva visto o sentito qualcosa che non avrebbe dovuto vedere o sentire? Quindi la morte della ragazza avrebbe seguito quella di Lady Stubbs.

Passano i giorni, le settimane, e Lady Stubbs non si trova, cioè non si trova il suo cadavere. Poirot non si da vinto, e prosegue la sua caccia, sicuro che se volesse, la vecchia Folliat potrebbe fornire più di un indizio alle indagini, perché lei sa benissimo che Lady Hattle Stubbs è stata uccisa.  O almeno lo pensa. Ma la vecchia non parla. Fino a quando Poirot non saprà di un terzo omicidio, la morte creduta incidente del vecchio barcaiolo Murdle, e lo stesso era il nonno di Marlene. E capirà tante cose: perché mancava dalla vecchia darsena un fumetto, di quelli che leggeva Marlene, con annotato in calce un altro indizio, che diceva di guardare dentro un sacco; perché Marlene aveva ricevuto tanti regali e perché lo stesso Murdle aveva dei soldi di cui nessuno riusciva a spiegarsi l’origine; perché Lady Stubbs non voleva incontrare il cugino Etienne; perché Etienne diceva di avere spedito la lettera che annunciava la sua venuta tre settimane prima, mentre invece risultava che era arrivata solo la mattina della lettura da parte di Lady Stubbs; perché nello sguardo infantile e vacuo di Hattle,  Poirot aveva creduto di vedere un lampo di perspicacia; che era  Michael Weyman, l’architetto che stava realizzando un campo da tennis nella tenuta, colui con cui si era incontrata furtivamente nella Follia, Sally

Legg alias Zuleika

In un drammatico confronto, Poirot rivelerà anche a Amy Folliat, dopo averne parlato all’Ispettore Bland e al Capo della Polizia, il nome degli assassini e una macchinazione giunta da lontano, di cui la vecchia sapeva qualcosa: in un certo senso lei si potrebbe definire colpevole di favoreggiamento personale, perché non parlando ha in qualche modo causato la morte di Marlene anche se non poteva prevederlo, e di suo nonno.

Francamente mai come in questo romanzo, il lettore può riuscire a capire il filo logico degli eventi e a dare un nome al colpevole, prima della rivelazione da parte di Poirot, perché – ed è per questo forse che questo romanzo è uno dei miei preferiti – alla base di tutto c’è una macchinazione, una messinscena messa a punto nei minimi dettagli: non vi è un assassino, ma due, che agiscono in comunione di intenti, insieme, anche se uno dei due è fuori gioco, o almeno sembra esserlo, dall’inizio del dramma. Niente è come sembra. La stessa sparizione di Hattle Stubbs potrebbe configurarsi in un omicidio impossibile, perché nessuno l’ha vista allontanarsi dal Nasse House, eppure è sparita, e non c’è nessun posto dove qualcuno avrebbe potuta farla sparire così…su due piedi, neanche nel boschetto che confina con la proprietà, da cui molto spesso delle turiste sconfinano in Nasse House, per andare più facilmente al fiume.

Per di più uno dei due omicidi precede l’altro di molto, il che non sembrerebbe in un primo tempo; e la stessa morte di Murdle acquista una spiegazione quando si capisce che stava ricattando qualcuno, e doveva aver rivelato qualcosa alla nipote, ragazza un po’ tarda che non aveva capito la pericolosità delle rivelazioni. Lo stesso Poirot commenterà ad Amy Folliat che un assassino che ha ucciso tre volte, non è detto che si fermi, mettendola in guardia su una sua possibile uccisione.

Il luogo della sepoltura di Hattle risulterà essere la Follia, e in ciò, quando l’ho riletto questo romanzo (lo lessi per la prima volta quasi quarant’anni fa), ho ricordato qualcosa che quarant’anni fa non avevo visto: un film di George Marshall con Glenn Ford e Debbie Reynolds, Gazebo (1959). La storia di uno scrittore di gialli che ricattato uccide il ricattatore e ne seppellisce il corpo sotto un gazebo, una struttura simile alla Follia: mi ricordo la scena della tempesta quando il vento distrugge il gazebo e scopre la tomba improvvisata del ricattatore. Possibile che la sceneggiatura, basata su un lavoro di Alec Coppel,  avesse preso qualcosa dal romanzo di Agatha Christie?

E assodato questo, ovviamente anche il resto avrà uno sviluppo diverso: innanzitutto l’identità vera di Lady Stubbs e le sue vere condizioni economiche iniziali, e quelle di Etienne; e perché fosse stato fatto sparire il fumetto con l’ultimo indizio alludente al sacco.

Inoltre ancor una volta – sembra davvero essere questo il leit motive ricorrente nell’opera della Christie – compare un soggetto che si credeva morto (il ritorno di una persona che agisce sotto mentite spoglie), a cui qui fa da contr’ altare  un’azione del tutto opposta concernente altro soggetto (una specie di originalità, che complica ancora di più il plot). Nel momento in cui Poirot avrà scoperto tutto, avrà un senso la battuta del Capitano Warburton a lui, all’inizio del romanzo quando, interrogato  circa una foto, lui aveva ipotizzato essere una finestra con le sbarre, mentre era in effetti un particolare ingrandito di una rete da tennis: “Dipende da come si guarda la cosa”. In altre parole: sotto una diversa prospettiva, una cosa acquista un significato che prima non aveva.

Cosa che metterà in pratica Poirot.

Anche se i dialoghi non sono il massimo in Christie, il romanzo è uno dei più sensazionali per plot e soluzione. E anche uno dei più cattivi di Agatha Christie: gli assassini sono cattivi entrambi, ma veramente! Uccidono (due omicidi uno, uno ) per avidità, non esitando a farlo nei confronti di persone ritardate mentalmente (Lady Stubbs e Marlene Tucker, una ragazzina) e recitano la loro parte così magnificamente, da portare la polizia e inizialmente Poirot, su una falsa pista: saranno le testimonianze di Brewis su Lady Stubbs, la sua sparizione, la sparizione del fumetto con l’indizio, le asserzioni di Murdle, e il suo ricatto e quello che saprà interrogando la madre di Marlene ad aiutarlo a squarciare il velo degli eventi.

Notevole.

Pietro De Palma

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Rex Stout : I Quattro Cantoni (Prisoner’s Base, 1952) – trad. Gianni Montanari – I Classici del Giallo N. 730, Mondadori, 1995

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i quattro cantoni 001Siccome io sono fondamentalemnte un  amante del mystery classico, i Nero Wolfe che adoro sono quelli che arrivano alla fine della seconda guerra mondiale. Quindi: La traccia del serpente, La guardia al toro, Sei per uno, La scatola rossa, Alta cucina, etc…: ci siamo capiti! Ma non è detto che qualche Stout più posteriore non mi piaccia. Tempo fa per esempio ho recensito qui un buon Nero Wolfe che si snocciola con delle partite di scacchi (Gambit), mentre oggi parlo di un Nero Wolfe del 1952: I Quattro Cantoni.

Innazitutto è uno di quei romanzi di Stout con Nero Wolfe che si pensò fosse necessario rinverdire, affidandolo per la nuova traduzione a Gianni Montanari (traduzione integrale pertanto).  E poi ha una introduzione interessante firmata da William De Andrea, scrittore statunitense vincitore di ben 2 Edgar Awards, di cui la Mondadori pubblicò tutti i romanzi all’inizio degli anni ’90.

Priscilla Eads, giovane ereditiera, per motivi propri sbarca a casa di Nero Wolfe e senza che lui lo sappia, vuole sistemarsi nella sua casa, pagando per vitto e alloggio 50 dollari al giorno per una settimana. Archie Goodwin la metterebbe alla porta, se non si trattasse di una avvenente fanciulla, per cui ne sposa i motivi che l’hanno portata lì e dopo averla sistemata al primo piano in una stanzetta, sottopone semmai la cosa a Nero Wolfe, che vorrebbe in un primo tempo metterla alla porta, salvo poi ripensarci quando si precipita in casa sua, tale Perry Helmar, avvocato e legale della Softdown Incorporated, una industria che crea e distribuisce salviette. Questo Perry Helmar gli chiede di ritrovare una ereditiera, e quando mostra la foto, Archie riconosce in lei la giovane che è al piano di sopra. Dopo averlo liquidato e aver capito chi sia la giovane, Wolfe per accondiscendere alle sue pretese, chiede diecimila dollari, che la giovane si rifiuta di accordargli. Qualche ora dopo Archie viene a sapere che la giovane, al suo arrivo a casa è stata strangolata. Ma prima che ciò accadesse, l’assassino ha prima strangolato la  cameriera personale di Priscilla rubandole le chiavi di casa Eads per tendere alla giovane un agguato in casa sua.

Archie si sente coinvolto in prima persona: aveva assicurato alla giovane che Wolfe l’avrebbe ospitata ed invece così non è stato; per di più se l’avesse messa alla porta subito, la stessa avrebbe potuto trovarsi altra sistemazione congeniale e quindi si sarebbe salvata. Nero Wolfe invece non si sente minimamente toccato dalla morte della giovane.

Accade però che sulla borsa abbiano trovato le impronte di Goodwin: aveva aiutato a giovane a portarla quando era a casa di Wolfe. Viene quindi arrestato, anche perchè è andato ad interrogare qualcuno dei consiglieri, dicendo di essere un investigatore e contando che gli altri avrebbero pensato che fosse un poliziotto; però viene  poi scagionato. Tanto basta però per Nero Wolfe, a scendere in campo, per il suo cliente: Archie lo ha assunto.

Archie si reca quindi ad interrogare quelli che  avevano un qualche motivo per ucciderla: i componenti del consiglio di amministrazione della società alla cui direzione sarebbe andata Priscilla quando sette giorni dopo, il 30 giugno, avrebbe compiuto 25 anni. Alcuni collaborano altri no. C’è anche Sarah Jaffee, la figlia di un altro componente del consiglio, Arthur Gilliam, che però era morto tempo prima e alla quale l’ex padrone dell’azienda aveva lasciato il dieci per cento del pacchetto azionario della società da lui fondata.

Un ulteriore siviluppo si ha quando si viene  a sapere che l’ereditiera anni prima si era sposata all’estero e aveva divorziato tre mesi dopo; tuttavia nel frangente dei tre mesi aveva fatto una sciocchezza: aveva firmato un pezzo di carta nel quale autorizzava il marito  ad ereditare  la metà delle sue sostanze, all’atto in cui le avesse ereditate, e che probabilmente aveva valore anche dopo il divorzio.

Quindi in sostanza, coloro che avrebbero avuto un qualche vantaggio dalla sua morte, sarebbero stati: l’ex marito Eric Hagh (rappresentato dal suo avvocato, tale Albert M. Irby, detto Irby Il Rugiadoso), e i componenti del consiglio di amministrazione, che per un motivo o per l’altro non vedevano di buon occhio la salita di Priscilla “alla direzione della baracca”: Jay L. Brucker, Olivier Pitkin, Perry Helmar, Viola Duday, Bernard Quest. Però il marito avrebbe avuto la sua parter anche se lei fosse stata in vita; anzi, così, diventa più difficile far valere le proprie velleità, perchè chi aveva firmato è morta, e gli altri negano la veridicità dell’atto.

Wolfe, siccome non ha elementi in mano, per capirci qualcosa, convince la Signora Jaffee, grazie alla persuasione di Goodwin, ad intentare causa agli altri affinchè il tribunale, finchè non riesca a catturare l’assassino delle due donne, posto che probabilmente sia uno degli eredi (tutti erediterebbero un gran bel po’ di azioni della compagnia), neghi a tutti di utilizzare anche un solo cent della loro eredità. Lo scopo di tutto, è riuscire a convincere tutti ad andare in casa sua ed essere da lui interrogati, per scongiurare la richiesta della Jaffee al Tribunale. Dopo che tutti hanno risposto alle sue domande, Wolfe dice a Goodwin che qualcosa l’ha ricavata anche se gli pare una debole traccia. Tuttavia quella notte anche Sarah Jaffee, nonostante si sia rivolta in extremis nel cuore della notte a Goodwin per avere aiuto (si è accorta che qualcuno nello studio di Wolfe gli ha sottratto le chiavi di casa e teme che anche lei possa essere in pericolo di vita), viene uccisa.

Questa volta sono gli organi di polizia a rivolgersi a Goodwin, che ha chiesto di collaborare con l’Ispettore Cramer, perchè acconsenta a prestare casa sua per una ripetizione dell’incontro della sera prima con tutti coloro che erano lì presenti (compreso Andy Formos, il marito della cameriera che Priscilla voleva entrasse in un nuovo consiglio dia mministrazione che lei avrebbe presieduto dopo la sua elezione, che pertanto vuole ricavarci qualcosa, oltre a capire chi abbia ucciso la consorte). In quell’occasione Wolfe, con un ragionamento sbalorditivo, inchioderà l’assassino delle tre donne.

Almeno questo romanzo un dubbio me lo ha eliminato: avevo ben impressa in mente la figura di Archie Goodwin, interpretata da Paolo Ferrari (sornione, accattivante, attratto dalle belle donne) e la applicavo all figura di carta dei romanzi di Rex Stout. Francamente, non ero ben sicuro che tale decalcomania fosse ben adatta a lui, ma dopo aver letto questo libro, posso dire di no: Archie Goodwin segretario, factotum di Nero Wolfe, non è minimamente conformabile alle altre spalle della letteratura poliziesca. L’unico che supera in sagacia è il Capitano Hastings, ingenuo compagno di Poirot, ma per il resto…Qui ne combina di tutti i colori per esempio, e per giunta la sua improvvisazione e la sua mancanza di ragionamento hanno un effetto nel primo delitto mentre favoriscono il secondo. Neanche a farlo apposta, ne pagano le conseguenze due avvenenti donne: una di venticinque, l’altra di ventinove anni. Inoltre, per troppa implicazione personale nei fatti, non riesce a dare il contributo che in altre occasioni avrebbe assicurato.

Wolfe invece è al top della forma. E nonostante in questo romanzo manchino alcune caratterizzazioni presenti altrove (la parte del cuoco Fritz Brenner è ridotta all’osso, e siccome non si parla di orchidee, manca del tutto quella di Theodore Horstmann, giardiniere di Wolfe), tuttavia Saul Panzer, investigatore privato fidato di Wolfe ha una parte rilevante perchè grazie a lui Wolfe acquisisce le informazioni vitali che gli servono per smascherare l’assassino.

Tuttavia è bene indicare che qui, come ricorda De Andrea nella Prefazione, è presente uno dei rari casi di finale fenomenale, nella carriera di Wolfe, in cui in virtù di un ragionamento scoppiettante, tutti i tasselli vanno al loro posto, e l’assassino viene smascherato cin una trovat geniale: tutto si incentra sul furto delle chiavi. Perchè nel caso dello strangolamento della cameriera, non aveva rubato la borsa ma aveva sceltro la strada più difficile andando a rubare le singole chiavi? E perchè l’aveva uccisa? Non perchè lei l’avesse riconosciuto, e quindi lui si fosse trovato nella necessità di ucciderla, ma per il motivo opposto, cioè perchè lui sapeva che lei non l’avrebbe riconosciuto.

Ragionamento non capibile? Sì è vero, ma lo è anche perchè non si è letto il romanzo. Ecco perchè qui è necessario procacciarselo. Per gustare cioè la rivelazione finale che è  davvero sbalorditiva, in funzione di quello che abbiamo riferito.

A di là di questo, l’andamento del romanzo mi è sembrato, stilisticamente troppo lento e talvolta anche tedioso, fatto anche di una inutilità di dettagli che mi sono parsi più rallentare che velocizzare l’azione; a questo contribuisce anche il fatto che l’azione è portata avanti in prima persona, da parte di Goodwin, che ha una parte rilevante nella tenuta del romanzo. Tuttavia, l’incentrare quasi tutta la  sostanza e il movimento del romanzo sulla sua persona – con movenze che talora ricordano il romanzo Hard-Boiled -che nel romanzo peraltrò è insignificante per la sua risoluzione, anzichè su quella di Wolfe, che nei suoi gusti culinari e nelle sue passioni connesse alla floricultura, costituisce un personaggio da gustare ogni volta nelle sue sfaccettature, toglie nerbo alla storia; e l’azione molto spesso è solo una ripetitività di gesti e di situazioni, che hanno sì la funzione di testimoniare lo svolgimento delle cose accadute in giornata, ma anche tolgono talora mordente all’azione vera e propria.

In sostanza, forse qui, una traduzione più snella, sarebbe stato un montaggio più efficace mi sembra allo svolgersi della storia.

Pietro De Palma

 

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PROSSIMAMENTE UN ROMANZO DI ANTHONY BOUCHER


UN RITRATTO DI ANTHONY BOUCHER

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Data l’esiguità di fonti in italiano a riguardo di Boucher, la presente introduzione è stata approntata ricavando notizie anche da un editoriale scritto anni fa da Giuseppe Lippi (le parti in corsivo, citate integralmente, sono di Lippi), e dal Dizionario delle Letterature Poliziesche di Claude Maspléde .

anthony-boucher-studyAnthony Boucher (pseudonimo di William Anthony White) nacque il 21 agosto 1911 a Oakland, California. Perse suo padre quando non aveva compiuto ancora un anno, e pertanto crebbe con la madre, anche lei medico, Mary Parker, e con il nonno materno, William Owen Parker. Assumendo il cognome materno comemiddle name”, secondo una pratica diffusa negli Stati Uniti, il rampollo si affacciò al mondo come William Anthony Parker White, che resta il suo nome ufficiale. Tuttavia lo pseudonimo Boucher derivò anch’esso dal milieu materno: infatti la seconda moglie del nonno si chiamava Annie Boucher Hine. Gli amici lo chiamavano Tony (per es. Dannay e Mannay: Ellery Queen).

Fin da ragazzo soffrì di asma e pertanto frequentò scuole non con regolarità. Nonostante questo ottenne il diploma di scuola superiore alla Pasadena High nel 1928, mentre nel 1932 ricevette il Bachelor of Arts (laurea breve) dall’University of Southern California a Berkeley, il Phi Beta Kappa, cioè il diritto a far parte del circolo riservato agli studenti che si sono diplomati con il massimo dei voti, e un incarico di fellow presso la stessa università. Mentre studiava per ricevere il Master of Arts incontrò Phyllis Mary Price (1915-2000), la donna della sua vita, che avrebbe sposato nel 1938. Per supplire alla mancanza di tempo, imparò a leggere più in fretta del normale, e tale sua peculiarità gli servì per la sua attività di critico, riuscendo a leggere sin da fanciullo un libro in tre ore e riuscendo pure e a dibatterne. Lo interessarono sempre soprattutto romanzi polizieschi e fantascientifici, opere liriche e teatrali. Da adulto utilizzò lo pseudonimo per scrivere narrativa gialla e fantascienza, i  suoi nome e cognome autentici, per la produzione seria.

Cominciò a scrivere recensioni per il San Francisco Chronicle e per il Los Angeles Daily News , poi scrisse racconti e romanzi. Il suo primo racconto in assoluto, fu “Ye Goode Olde Ghoste Storie”,  pubblicato nel 1927, mentre il suo primo romanzo poliziesco fu  I sette del Calvario (The Case of the Seven of Calvary, noto in Italia anche come Sette volte sette), pubblicato nel 1937. L’anno dopo Boucher si sposò e dal matrimonio nacquero due figli maschi.

Siccome la sua malattita cronica, l’asma, non gli consentiva un impiego stabile, dati i suoi periodi anche di degenza, Boucher anche dopo il matrimonio continuò a fare lo scrittore, critico e consulente editoriale. Dal 1945 al 1947 scrisse soggetti radiofonici, prima di Sherlock Homes, poi di Ellery Queen, e contemporaneamente cominciò a curare una serie di collaborazioni prima il “New York Herald Tribune” e poi per il “New York Times”, per cui dal 1949 al 1968 pubblicò ben 852 puntate della celebre rassegna sulla “New York Review of Books” e questa attività, unita alle recensioni che avrebbe scritto a più riprese per l’”Ellery Queen Mystery Magazine”, “Manhunt” e altri periodici, avrebbe finito col procurargli più di un premio Edgar nel settore della critica, l’Oscar del giallo.

Nel 1945 fu tra i fondatori del MWA , Mystery Writers of America.

Dal 1947 in poi ricominciarono le difficoltà finanziarie per la fine dell’epoca d’oro degli sceneggiati radiofonici. Tuttavia dal 1951 Anthony Boucher fu eletto presidente degli MWA. Dal 1949 cominciò a tenere conversazioni radiofoniche su opere liriche.

Uomo colto e versatile, ricco di acume e sensibilità, fece della critica e dell’attività editoriale un’arte vera e propria, guadagnandosi la stima dei colleghi scrittori. Non fu mai commerciale, né come autore né come curatore di collane; caso raro se non unico nell’editoria americana, fece l’editor come si fa il romanziere e il giornalista come si fa il critico letterario, sempre dalla parte degli autori, dei lettori e del buon gusto. Di mente aperta e spirito rinascimentale, non vedeva alcuna differenza tra arti “alte” e popolari: purché  l’ingegno e lo standard qualitativo fossero elevati, avevano ai suoi occhi pari dignità.

Gli ultimi anni della sua vita dovette alternare la sua memorabile attività di critica letteraria e musicale a molte degenze ospedaliere. Morì ad Oakland, nel 1968 morì per un cancro al polmone.

Fu il primo traduttore in inglese di Jorge Luis Borges.

Nel 1970  la convention mondiale del giallo, creata in suo onore, fu chiamata da lui  Bouchercon (Anthony Boucher Memorial World Mystery Convention)

Dei sette romanzi che pubblicò, cinque furono firmati come Anthony Boucher ( e in quattro di questi agì il detective Fergus O’ Brien): I sette del Calvario (The Case of the Seven of Calvary, noto in Italia anche come Sette volte sette), Il fante di quadri (The Case of the Crumpled Knave, 1939), Gli irregolari di Baker Street (The Case of the Baker Street Irregulars, 1940), La chiave del delitto (The Case of the Solid Key, 1941), L’enigma del gatto persiano (The Case of the Seven Sneezes, 1942); altre due come H.H.Holmes (Nine Times Nine, 1940; Rocket to the Morgue, 1942).

In parecchi racconti fece agire il personaggio Nick Noble, un ex poliziotto alcoolizzato che aiuta un poliziotto a risolvere casi inestricabili: come in Crime Must Have a Stop. Oppure Suor Ursula, che appare in The Stripper, o addirittura Arsené Lupin, in un pastiche intitolato Arsené Lupin vs Colonel Linnaus. Specialista di Sherlock Holmes, in suo onore scrisse pastiches, soggetti radiofonici, articoli e il romanzo The Case of the Baker Street Irregulars (1940), dove l’indagine è condotta da alcuni fan di Holmes; scrisse anche due racconti con S.H. con commistione fantastica, apparsi in The Science Fictional Sherlock Holmes (1960)

 Bibliografia Gialla

7 Romanzi Pubblicati

I sette del Calvario (The Case of the Seven of Calvary, noto in Italia anche come Sette volte sette), Il fante di quadri (The Case of the Crumpled Knave, 1939), Gli irregolari di Baker Street (The Case of the Baker Street Irregulars, 1940), Nove volte nove (Nine Times Nine, 1940), La chiave del delitto (The Case of the Solid Key, 1941), L’enigma del gatto persiano (The Case of the Seven Sneezes, 1942), Sorella Ursula indaga (Rocket to the Morgue, 1942)

1 Romanzo Inedito (anche in USA)

The Case of the Toad-in-the-Hole

Racconti pubblicati in USA

Exeunt Murders (antologia postuma), 1983

1 Romanzo di Horror, pubblicato in USA

The Marble Forest, 1951 – con lo pseudonimo di Theo Durrant[1] di cui Boucher scrisse un capitolo -  da cui fu tratto il film Macabre (1958). Boucher si occupò anche di riunire, rieditare e pubblicare i dodici capitoli. Theo Durrant fu in origine un assassino giustiziato in Usa nel 1898.

                                                                                                Fine 1^ parte

P. D. P.

 

 


[1] Sotto questo pesudonimo agirono altri 11 autori che scrissero gli altri11 capitoli del romanzo: Terry Adler, Eunice Mays Boyd, Florence Ostern Faulkner, Allen Hymson, Cary Lucas, Dana Lyon, Lenore Glen Offord, Virginia Rath, Richard Shattuck, Darwin L. Teilhet and William Worley (da  http://www.tcm.com/tcmdb/title/26950/Macabre/articles.html     e http://www.tcm.com/tcmdb/title/26950/Macabre/notes.html )

 

 

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Anthony Boucher : Gli Irregolari di Baker Street (The Case of the Baker Street Irregulars, 1940) – trad. Grazia Maria Griffini – I Classici del Giallo N.647, Mondadori, 1991

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The Case of the Baker Street Irregulars, “Gli Irregolari di Baker Street”, romanzo pubblicato nel 1940, fu un omaggio chiarissimo di Anthony Boucher a Sherlock Holmes. In esso operano cinque membri di una associazione, “Gli Irregolari di Baker Street”, ognuno svolgente una professione diversa dagli altri, accomunati dalla stessa dedizione e dall’erudizione circa le gesta del grande detective britannico.

La storia è presto detta.

F.X. Weinberg, produttore a capo della Società Cinematografica Metropolis, ha assunto Stephen Worth per scrivere la sceneggiatura cinematografica di un adattamento del racconto L’Avventura della Banda Maculata. Senonchè l’assunzione è stata improvvida. Infatti lo sceneggiatore, con alle spalle un passato di detective e di scrittore di romanzi Hard-Boiled, vuole utilizzare la sceneggiatura per riscrivere la figura di Sherlock Holmes, ciò che suona come un’offesa, agli orecchi dell’Associazione “Gli Irregolari di Baker Street”, che si batte per una difesa ad oltranza del sacro nome di Sherlock Holmes. Detta associazione riunisce cinque nomi di assoluto rilievo: un medico, un autore poliziesco, un editore, un giurista fuggito dalla Germania per motivi politici, un professore universitario.

Apro una parentesi: leggere questo libro mi ha riportato alla mente quello scontro che ci fu sul Blog Mondadori sette-otto anni fa tra difensori del Giallo Classico (io diventai il portabandiera) e difensori del romanzo Hard-Boiled (Stefano Di Marino elemento di spicco), con gente che stava in mezzo (Luca Conti), gente che prendeva le mie parti e cercava di fare da paciere (Fabio Lotti) e gente appartenente ai due schieramenti che se le dava di santa ragione. Lo spirito era quello alla base di questo romanzo, a significare che il contrasto tra le due anime del romanzo poliziesco c’è sempre stato. Chiusa la parentesi.

Weinberg ben presto capisce quali seccature possa dargli questa sua avventata avventura, per cui non potendo licenziare Worth a meno di non adire alle vie legali e perdere, grazie ad una clausola pro-Worth, su consiglio della sua segretaria Maureen O’Breen, assume i cinque irregolari con le funzioni di supervisori, scatenando le ire di Worth e avendo il plauso dei cinque.

Ben preso l’incandescenza della situazione produce già i suoi deleteri effetti: il Professor Drew Furness viene malmenato dallo stesso Worth e fatto oggetto di una beffa atroce, ad opera di un attore pagato da Worth, tale Vernon Crews, un caratterista abile transformista, che è specializzato in burle ad Hollywood.

Ma Worth vuol fare di più. Vuole utilizzare una ricevimento che darà Weinberg per tramutarlo in un’occasione di sfottimento nei confronti dei cinque e allo scopo si è presentato sbronzo, con una cartella da cui non si vuol separare, in una sala gremita di reporters. Ben presto gli insulti innescano la reazione di Furness che rifila una manata e la risposta di Worth, che lungi dal centrare il bersaglio, instabile per l’alcool tracannato, becca all’occhio proprio l’ispettore Jackson che è lì anche perché suo fratello lavora per gli studios, ottenendo come risposta un Uno-due, che lo manda al tappeto. Il tutto si conclude con Worth che viene accompagnato di sopra e messo su un letto.

A questo punto c’è Furness che aspetta in macchina la sig.na Maureeen per accompagnarla a casa, ci sono Evans lo scrittore e Federhut il giurista che cercano assieme al tenente Jackson di venire a capo della sequenza di pupazzetti disposti sul retro di un cartoncino, un crittogramma, che ripete un po’ la sequenza già ne I pupazzi ballerini, un racconto con Sherlock Holmes. Quando la risolvono capiscono che è una minaccia di morte. Poi c’è la busta vuota contenente solo cinque semi di arancia secchi, che Maureen dice che un fattorino le ha consegnato per Worth. Maureen dice queste cose dopo che è stata trovata svenuta al piano di sopra nel corridoio: racconta che qualcuno ha sparato a Worth in sua presenza, riparato dalla porta della camera, e che Worth colpito al cuore ha sanguinato parecchio. A questo punto si succedono tante cose, e gli indizi raccolti uno per ciascuno indirizzano le indagini verso ciascuno dei cinque irregolari, attraverso le citazioni di alcune avventure di S.H.: anche i cinque semi di arancia sono la citazione di una. Tuttavia non tutti gli indizi sono chiari: c’è per es. un frammento di vetro con incise delel lettere che Jackson trova nel cestino della carta straccia della camera di Worth, che nessuno riconosce né tantomeno sa accoppiare ad una avventura sherlockiana; e così anche la tacca vicino al davanzale, almeno prima che qualcuno non la colleghi a Il Ponte sul Thor, e non trovi la rivoltella legata ad un libro penzolante fuori dal davanzale della finestra. Anche la lista coi numeri che trovano nella cartella di Worth, non si riesce a capire cosa sia e a cosa si riferisca. Poi accade un’altra cosa importante: scompare il cadavere di Worth.

Che ci fosse lo dimostra la macchia importante di sangue, e la scritta “Vendetta” tracciata col sangue sul muro; ma il cadavere è scomparso. A questo punto l’indagine passa al tenente Finch, amico di Jackson, perché lui è stato preso a pugni da Worth e quindi ipoteticamente figura anch’egli tra i sospettati.

A questo punto,  i cinque irregolari, che si provano di aiutare le forze dell’ordine, e purtuttavia sono annoverati tra i sospetti e quindi tenuti sotto osservazione, vivono cinque avventure che nondimeno racconteranno alla presenza di Jackson e Finch, e da cui risulterebbero accuse specifiche contro alcuni di loro. Anche quattro di queste cinque avventure, sono riconducibili ad avventure di Sherlock Holmes:

“Il caso della stampella d’alluminio”, narrato da Furness, richiama L’avventura dei progetti Bruce-Partington; “L’avventura del capitano stanco” narrata dal dott. Bottomley, richiama L’avventura della scatola di cartone; “La follia del Colonnello Warburton”, racconto narrato da Harrison Ridgly III, richiama Il vampiro del Sussex; ne “Il caso straordinario della lucertola velenosa”, narrato da Otto Federhut,  c’è un richiamo a La banda maculata;  infine L’avventura della vecchia donna russa, narrata da Jonadab Evans, non ha alcun riferimento apparente a casi di S.H.

In ciascuno dei cinque racconti c’è inoltre un riferimento ad un altro dei 5 Irregolari di Baker Street, tale che appaia in cattiva luce.

Alla fine delle cinque narrazioni, i cinque vanno a fare cose diverse: alcuni escono, altri no. In casa rimangono solo Ridgly III e il sergente Watson. Ad un certo punto Ridgly richiama l’attenzione del sergente sul fatto che qualcuno abbia sottratto la sua rivoltella, e insieme perquisiscono le stanze della casa. Quando ritorna Finch, chiede al sergente cosa sia accaduto nel frattempo, e in quel mentre si sente un colpo di pistola: sopra viene trovato nelle stesse ipotetiche condizioni di Worth, Ridgly III, solo che questa volta il corpo c’è ed è in un lago di sangue, sui muri è riportata di nuovo la scritta Rache, c’è una fascia nera per terra, e una tacca sul legno del davanzale della finestra. Solo che Ridgly, seppure molto grave, si salva perché il proiettile ha sfiorato il cuore, deviato da una costola.

A questo punto urge però trovare Stephen Worth: Jackson ipotizza una certa cosa, Evans e Maureen un’altra, partendo dalla lista di numeri trovata bella cartella di Worth: scoprono trattarsi di codici di dischi. In un negozio li trovano tutti, e in base ai loro titoli, e ad altri numeri indicanti altri dati (parole), scoprono il nascondiglio di Worth. Tanto per trovarsi assieme a Jackson laddove un omicidio è stato appena commesso: Worth. Cioè Worth che sarebbe dovuto essere morto, è stato appena ucciso. Si scopre così che Worth aveva finto di essere morto per fare una burla ai cinque ma che poi uno di essi probabilmente lo ha ucciso.

Tuttavia accanto a Worth è stato trovato solo un foglio con un altro crittogramma formato dai pupazzi ballerini: una metà viene trovata sul pavimento e reca la frase tradotta “REMEMBER THE POLICE”, mentre in un’altra, trovata accartocciata nelle mani del morto, si legge “AND AMY GRAY”. Un indizio ?

In un finale ad effetto, dopo che ancora una volta ciascuno dei cinque ha dato una propria ipotesi circa l’assassino e che anche Finch abbia dato la propria, sarà inaspettatamente il sergente Watson (da notare che anche qui come nei casi di Holmes c’è un Watson) a fornire la soluzione, riprendendo l’accusa di Evans, che aveva posto l’accento sulla metà del foglio, dando alle due parole AMY GRAY un significato diverso, in relazione al suono fonetico simile ad esse di un’altra parola che indica l’assassino.

Dico subito che il romanzo è un monstre di 281 pagine. Lo sottolineo perché nelle sue dimensioni già rilevo un primo limite: se in un romanzo di tali dimensioni (la lingua inglese di solito ha una forma più concisa di quella italiana) di altro autore, ad es. il Carr di Delitti da mille e una notte, che a memoria, dovrebbe attestarsi sulle 320 pagine o giù di lì, ha una forma tale che il numero di pagine non inficia la lettura, qui lo stile è volutamente ampolloso e ridondante, tale che la lettura è fortemente condizionata. Questo perché questo, più che essere un romanzo giallo, è un romanzo sul romanzo giallo. O meglio, è un vero e proprio Divertissement, con cui Boucher giocò con S.H. e la sua opera, confezionando una sorta di parodia, in cui le sue letture, la sua conoscenza dell’opera di Conan Doyle, si legano a tante altre di altri autori, realizzando in ultima analisi un’opera fuori dai righi, che può anche essere considerata “una presa per i fondelli”. Non mi ha stupito pertanto sapere ieri sera, conversando con Mauro, che lui era d’accordo con questa mia interpretazione e anzi che lo stesso Carr, a cui Boucher aveva dato una copia, dopo averla letta, l’aveva restituita infastidito per il tono del romanzo, lui che era davvero un biografo di Conan Doyle.

Al di là dello stile, che è ampolloso come in una dissertazione, ma è anche leggero e raffinato (talvolta anche troppo) quando Boucher introduce delle osservazioni proprie che vanno al di fuori del romanzo in sé per sé, per es. quando, dopo aver inquadrato Maureen che dopo essersi fatta una doccia, dice “avvolta in un lenzuolo di spugna e gocciolante  (per quanto ce ne dolga, questo non è il genere di libro che continuerà a descriverla più dettagliatamente)”,  a me pare che ironicamente si riferisca a quel genere di libri pornografici che imperversava nell’America puritana degli anni ’40 (una letteratura tipo Opus Pistorum dell’Henry Miller di Sexus, Plexus, Nexus, e di Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno).

I riferimenti a S. H. come detto sono tantissimi e vanno oltre quelli da me riportati: quest’altra cosa rallenta ulteriormente la lettura, e la tensione, che dovrebbe essere l’elemento cui ogni romanzo giallo sia mystery o hard boiled dovrebbe puntare, viene inaspettatamente rallentata dalle cinque narrazioni, che poi alla fine si rilevano un’ulteriore burla di Worth attuate tramite il suo amico trasformista Vernon Crews, che prende le sembianze dei cinque soggetti principali delle cinque storie, allo scopo di insinuare delle verità da lui scoperte, sui 5 Irregolari di Baker Street. Francamente, se invece che essere inserita all’interno del romanzo, la sezione delle 5 narrazioni fosse stata messa in appendice al romanzo, forse la tensione non sarebbe stata toccata, perché allora finiscono, riprende, seppure rallentata.

Mike Grost, grande critico statunitense, parla di Boucher come un vandiniano, in relazione al fatto che i suoi romanzi cominciano con la dicituta “The Case of” come in quelli di Van Dine, e per il fatto che come lì le ambientazioni sono colte (qui lo è al massimo grado). Io invece che Van Dine, ravviso una somiglianza più che netta coi romanzi di Ellery Queen: lo stile richiama i primi romanzi di Queen, con una struttura del romanzo fortemente bizzarra, e indizi strani; per di più, chiarissimo in Boucher, è il fare proprio l’elemento più queeniano in assoluto, il messaggio del morente, “The Dying Message”, un indizio con cui la vittima indica il suo assassino, che è qui dato dalla metà del foglio con il crittogramma dei pupazzi ballerini (e ne Il caso del fante di quadri, dalla carta di un fante di quadri  nella mano della vittima ).

Una citazione è anche quella del sergente Watson che risolve il caso: come non ricordare il Sergente Beef che risolverà Case for Three Detectives (1937) di Leo Bruce, mettendo in ridicolo tre investigatori più nomati di lui: Sir Simon Plimsoll (Lord Peter Wimsey), Monsieur Amer Picon (Hercule Poirot), Monsignor Smith (Padre Brown) ?

Un’altra caratteristica che si richiama ad altri autori (e romanzi) è quella della scomparsa del cadavere, che un po’ una caratteristica che troviamo applicata in alcuni romanzi della metà degli anni’30 e degli anni ’40: The Lady in the Morgue (1936) di Jonathan Latimer, anticipato da Dead Men Leave no Fingerprints, di Elwyn Whitman Chambers (1935); The Bourning Court di John Dickson Carr (1937); anche Case Without a Corpse, di Leo Bruce (1937) potrebbe essere inserito in questo novero; No Coffin for the Corpse, di Clayton Rawson (1942); The Corpse Steps Out (1940) di Craig Rice; The Vanishing Corpse di Anthony Gilbert (1941), etc..

Altra caratteristica ancora del romanzo, è il pericolo nazista e l’uso di cifrari, presente in romanzi degli anni ’40 come in  N or M, di Agatha Christie (1941) e Panic (1944) di Helen McCloy.

Insomma più che un romanzo, è una summa sul romanzo giallo, scritta più che dal Boucher scrittore, dal Boucher critico. E la trovata finale del vero significato di AND AMY GRAY , veramente notevole, non salva il resto. Che è troppo in quantità, tanto da stufare. Insomma, come dice il proverbio, “il troppo stroppia”!

Ciò che è  secondo me il limite di questo romanzo..

PIETRO DE PALMA

 

 

 

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E.B.Ronald : Morte per procura (Death by Proxy, 1956) – trad. Ignazio Pulcinelli – I Gialli del Secolo, N°275, del 23 giugno 1957

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ronald 001Il diretto antagonista del Mystery classico è stato, fin quasi dall’origine, l’Hardboiled americano: nato nel gangsterismo degli anni ’20, arrivò al suo massimo splendore negli anni ’30 , 40 e ’50 , per poi scomparire e riapparire negli anni successivi.

Il suo splendore e la sua caduta furono, a pare mio dovuti, al ripetersi di clichè affermati: il detective privato duro, con atteggiamenti da macho, che non a che fare con moglie e bambini, che usa i cazzotti contro chi lo ostacola e la pistola contro i criminali, che beve solo whisky e caffè nero, che mangia solo uova fritte o cibo da strada, perennemente al verde, talora ex poliziotto, che lotta contro il marcio delle metropoli;  la donna fatale e quella perfida; poliziotti corrrotti, il nemico implacabile, atmosfere fumose se non prevalentemente notturne.

Variati, ma comunque presenti, se caratterizzavano in un certo senso l’Hardboiled dal Mystery, alla fine ne decretarono la fine o almeno l’appannamento, per una certa ripetitività che era figlia del loro stesso affermarsi: un romanzo harboiled in sostanza non variava mai. Un certo rimescolamento di carte lo dette Mickey Spillane, che pur mantenendo invariato lo schema classico, inserì come fattori anche il sesso e un’azione sostenuta, cosa che gli arrise un successo esplosivo per l’epoca, anche negli anni successivi . Tuttavia ad un certo punto anche questo fattore, copiato innumerevoli volte, sancì la fine dell’esperimento. Perché oltre a quello che si voleva leggere nei romanzi con Mike Hammer (le donne quando apparivano erano sempre a letto perché la loro esistenza serviva solo ad appagare il desiderio sessuale), di altro ce n’era poco. E dopo un po’ stancava (io con estrema fatica sono riuscito a leggere qualche altro romanzo dopo  I, the Jury e My Gun is Quick ).  Negli anni ‘sessanta l’hardboiled si trasformò in una specie di poliziesco sociale: dal crimine radicato di Jim Thompson, alla narrativa di Ed McBain, si passò ai romanzi degli anni settanta e ottanta di Crumley ed  Elmore, fino a quelli di Lansdale, Bazell, Ellroy e Woodrell dei giorni nostri. Il romanzo hardboiled è anche chiamato pulp. Si può dire che il genere western sia cinematografico che letterario, sia nato da una sua costola: troviamo guarda caso anche qui clichè simili (vedete Johnny Guitar di Nicholas Ray, e poi non ditemi che il pistolero Johnny che beve caffè nero e fuma, e mangia le uova fritte che Vienna gli fa, e che combatte i cattivi dalla facciata buona, e soprattutto la malvagia Emma, invidiosa di Vienna di cui si era invaghito l’uomo da lei amato, il bandito Dancin’ Kid, non sia parente stretto di Marlowe o di Sam Spade) : non a caso i grandi autori di romanzi Hard boiled sono (stati) anche grandi autori di Western: Elmore e Gischler, per esempio.johnny_guitar3

Orbene, quando si parla di Hardboiled, si parla di America. Ma… di Hardboiled inglese avete mai sentito parlare? Sarebbe un controsenso, vista l’immagine dell’Inghilterra regalataci da tanti autori Mystery. Eppure…

Un romanzo, vorrei dire uno dei pochi romanzi, uno dei pochissimi romanzi che hanno interpretato e applicato le atmosfere delle metropoli americane a quelle londinesi, è quello che presento oggi: Death by Proxy, di E.B. Ronald. Un nominativo assolutamente sconosciuto ai più, ma lo era anche al sottoscritto.Ronald

Un primo indizio sullo pseudonimo (se non si trovano notizie, deve essere per forza pseudonimo), lo trovai in A Dictionary of Literary Pseudonyms in the English Language di T.J. Carty: E.B.Ronald (Death by Proxy, Cat and Fiddle Murders), fu lo pseudonimo con cui firmò alcuni romanzi Ronald Ernest Barker, editore britannico, romanziere , anche di polizieschi, nato nel 1920 e morto nel 1976.

Altre e fondamentali notizie le ho tratte dal blog americano del mio amico John Norris. Infatti, solo nei risvolti o in appendice ai romanzi in lingua originale, si possono trovare notizie biografiche originali non presenti altrove, soprattutto per quanto attenga agli scrittori poco conosciuti. Recensendo altro romanzo dello stesso autore, veniva descritto come di nascita scozzese ma vita inglese. Al tempo della pubblicazione dell’unico mystery da lui scritto, era a capo dell’associazione degli editori britannici. Con lo pseudonimo di E.B. Ronald, firmò alcuni romanzi di atmosfere hardboiled, trasferendo i clichè americani a quelli britannici, tra cui appunto Death by Proxy.

Altri dettagli si trovano altrove. Per esempio che alla metà degli anni ’50, scrisse un libro sull’industria del libro, commissionatogli dall’UNESCO: A Study of International Book Trade. Altri ancora sulla pubblicazione “Who Was Who”.

Rupert Bradley, un investigatore privato londinese, perennemente al verde, è contattato da Veronica Hedley, per rintracciare il marito Philip, scomparso da alcuni giorni. Non si è rivolta alla polizia perché sospetta che l’assenza possa essere dovuta a motivi non puliti, giacchè il marito negli ultimi tempi portava a casa forti somme di denaro, incompatibili con le sue mansioni professionali di consulente commerciale. Veronica è la sorella di William Carmichael, industriale del cordame (soprattutto marittimo), che ha i magazzini al porto sul fiume Tamigi. I cui uffici occupano il primo piano del palazzo dove ha lo studio Philip. L’unica che forse avrebbe potuto sapere qualcosa di più, è Miss White, la segretaria privata di Philip, che però non è la sua amante: è proprio una segretaria, che ignora che fine abbia fatto il suo principale. Tuttavia Rupert non demorde e perciò chiesta la chiave dell’ufficio alla moglie, di notte, penetra negli uffici per cercare prove, finendo per trovare in una stanza, un cadavere caldo caldo, legato ad una sedia, sparato alla nuca, cosa che gli ha deformato i lineamenti facciali, e con le punte delle dita bruciate dalla fiamma di una candela (torturato?).

La moglie, che aveva precedentemente ritirato l’incarico a Rupert affermando che il marito si era messo in contato con lei (ma l’investigatore pensava che stesse mentendo), riconosce il marito all’obitorio.

Da qui comincia l’indagine serrata Rupert, che contando sull’amicizia di Marshall, un’Ispettore di Polizia, riesce a svolgere un’indagine a contatto con la polizia, che lo porterà prima a conoscere coloro i cui nominativi erano stati trovati tra gli appunti di Philip (persone che lo temevano per cose esterne ai loro rapporti commerciali, oppure lo conoscevano solo professionalmente), poi Peggy Hedley, la bella sorella di Philip che s’invaghisce di lui (ricambiata…poco), poi a transitare per il Belvedere Arms, un locale notturno, dove un capocameriere “John” lo indirizzerà, tramite una falsa cabina telefonica, che ha una porta segreta nel suo fondo che si apre a scatto, ad un’ala del palazzo, destinata a bordello, e in cui vi sono camere in cui microfoni e macchine da presa, filmano le rivelazioni e gli atteggiamenti intimi di facoltosi clienti che poi vengono ricattati. Al terzo piano del palazzo, accederà ad una camera da letto con vestiario da donna e da uomo, che identificherà in quella di Carmichael, l’industriale cognato di Philip e fratello di Veronica. Carmichael dalla doppia vita: industriale di cordame e tenutario di bordelli, in cui probabilmente si spaccia e si fuma hashish e canapa indiana, di cui Rupert ha sentito il profumo salendo nel bordello.

Indagando sulla vita di Carmichael, anche recandosi presso l’abitazione sua ed interrogando la moglie Carole, arriverà al magazzino, scoprendo un traffico di canapa indiana e venendo salvato da morte certa da un agente assicurativo, tale Radcliff, che opera sulla base di una polizza vita accesa poco tempo della scomparsa e morte di Philip. Tuttavia Rupert pensa che Philip non sia affatto morto, e lo testimonierà il corpo ripescato nel fiume, questa volta davvero di Philip.

In un finale convulso in cui il finto architetto di tutto morirà apparentemente suicida, ma in realtà costretto ad uccidersi, sostituendo una innocua pillola per la gastrite con una contenente cianuro, il vero assassino preferirà uccidersi non prima che sia stata rivelatala vera identità del cadavere senza nome.

Un hardboiled strano, che mischia clichè consolidati (detective squattrinato, duro ma sensibile alle donne, coinvolto in scazzottate e pestaggi, una dieta a base solo di Whisky e uova e patate fritte, la frequentazione di sordidi ambienti) ad alcuni meno (ambientazione in strade note del centro londinese, bordelli con frequentazioni altolocate, traffico internazionale di hashish sulla base di contatti ereditati da militari britannici di stanza in Africa Settentrionale), in un insieme nient’affatto scontato, che forse talora fa sorridere, ma per nulla annoiare. Il ritmo è scorrevole, anche mutuato dal montaggio estremo della traduzione parecchio tagliata, che se perde molto in atmosfera e in dialoghi, finisce però per donare un ritmo incalzante, talora anche confusionario, in quanto deve necessariamente talora più che riportare la prosa originale, un sunto articolato. Nonostante si perda molto del “parlato”, tuttavia i pochi dialoghi ci consegnano un detective, che pur mutuando clichè consolidati da ambiti già storicizzati, di marca hammettiana e chandleriana (in The Cat and Fiddle Murders parla di un traffico di diamanti, ma pietre preziose si trovano per esempio associate a Il Falcone maltese di Dashiell Hammett; in Death by Proxy, il traffico è di stupefacenti e il ricatto tramite prostitute compiacenti, e in Chandler si trovano sia ricatti, che traffici, che prostitute e bordelli), parla come parlerebbe un inglese e non il classico Philip Marlowe, nonostante Rupert si affretti a dichiarare alcune volte che egli ha vissuto  in America ed un certo accento americano dell’Alabama, gli è rimasto addosso, connotazione da falso yankee di cui si serve per le sue indagini.

Il finale non è per nulla scontato ed anzi ci consegna un  assassino diabolico, senza alcun freno inibitorio, assolutamente amorale, che a me ha ricordato un altro romanzo di Chandler, Farewell, My Lovely, anche per la fine che fa l’assassino. Questo tipo di assassino, dico il suo genere, è molto presente nei romanzi di Chandler: basta leggere oltre che Addio mia amata (Farewell, My Lovely), anche La signora nel lago (The Lady in the Lake)  e Il lungo addio (The Long Good-bye) per capire cosa voglia io dire.

Pietro De Palma

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James Ronald: Promessa mantenuta (They Can’t Hang Me, 1938) – trad. Dario Pratesi – I Bassotti N°172, Polillo, 2016

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James Ronald, nonostante la cospicua produzione letteraria destinata anche a delitti impossibili e camere chiuse, non è molto conosciuto: nè nel mondo anglosassone, dove si può dire solo due romanzi figurano nelle classifiche, nè tantomeno in Italia, dove nessun suo libro, prima d’ora, era stato pubblicato. A questo ultimamente ha sopperito Polillo, pubblicando They Can’t Hang Me, romanzo che, assieme a Six Were to Die , ha sfidato il tempo, finendo addirittura nella speciale classifica stilata da Lacourbe alcuni anni fa.

James Ronald nacque nel 1905 in Scozia a Glasgow. Fu in Gran Bretagna che cominciò a pubblicare i suoi romanzi. La sua prosa molto fresca fu lodata da autori del tempo, tipo August Derleth. Nel 1938, quando era già uno scrittore con un suo seguito, si trasferì in USA a Fairfield (Connecticut) dove rimase fino al 1955. 

Pur avendo scritto 38 romanzi originali, uno solo è il personaggio ricorrente nei suoi romanzi: Julian Mendoza, un giornalista del London Morning World, che apparve per la prima volta in Death Croons the Blues, del 1934. 

Firmò romanzi anche con due pseudonimi: con quello di Kirk Wales ripropose, nel 1941, Six Were to Die, con diverso titolo: The Dark Angel; con l’altro di  Michael Crombie firmò sei romanzi. Infine con il suo nome effettivo, James Ronald, firmò trentuno  romanzi. . Dal romanzo This Way Out del 1940, fu tratto il film The Suspect (1944) diretto da Robert Siodmak, con Charles Laughton.

L’ultimo romanzo risale al 1953, Sparks Fly Upward. Fu un romanziere legato al periodo d’oro del giallo che non riuscì a scrivere molto dopo la fine della seconda guerra mondiale. L’ultimo suo scritto giallo, fu un racconto A Tired Hearth, pubblicato nel 1958 su E.Q.M.M.

Da allora, fino alla morte, avvenuta nel 1995, non scrisse più nulla.

They Can’t Hang Me parla di un giuramento di vendetta.

Lucius Marplay è un editore di successo. Ha fondato e diretto l’Evening Echo, il giornale più letto di Londra, portandolo al successo. A quel punto sposatosi e divenuto padre, abbandona progressivamente il suo impegno nella testata, delegandolo a quattro suoi collaboratori, che, invece che rafforzarla, la distruggono, portandolo la testa giornalistica alla rovina. E con essa anche il suo fondatore che, oppresso dai debiti e dalle incombenze, si becca un esaurimento nervoso tale da dover essere ricoverato in una clinica psichiatrica. Dove rimane per vent’anni.

La figlia è divenuta una bella ragazza nel frattempo e ignora che il padre sia vivo: infatti, morta la madre di crepacuore, e affidata ad un tutore, per delicatezza nei suoi confronti non le è stata rivelata l’amara verità, ed invece le è stato detto che il padre è morto. Tuttavia apprende per caso la verità e vuole incontrarlo e qui il suo tutore deve uscire allo scoperto e confessarle perchè suo padre è ancora tenuto in osservazione: è preda di una mania omicida. Ritiene infatti che i suoi collaboratori, che ne lfrattempo hanno rilevato la testata portandolo all’antico successo, lo abbiano raggirato e abbiano provocato tutte le sue digrazie, e perciò ha ordito dei dettagliatissimi piani per ucciderli. Tuttavia, finchè rimangono nella mente del folle, nulla può nuocere. Ma quando Marplay scappa dalla clinica e fa perdere le sue tracce, rifugiandosi nella vecchia sede abbandonata del giornale , in una camera segreta di cui lui solo conosce il meccanismo di apertura, le minacce di tanti anni sembrano risvegliare le paure dei quattro soci. Tanto più quando, uno ad uno, essi muoiono effettivamente di morte violenta: ogni volta viene ritrovato un biglietto di Marplay che conferma di aver mantenuto la promessa.

La prima volta è la volta di Ellis, ucciso con tali violenti colpi di manganello da sfondargli il cranio; la seconda volta è Partridge, in una camera ritenuta sicura al cento per cento, un guscio di cemento senza posti dove nascondersi, e all’esterno vigilata da poliziotti, a venir ucciso con un colpo di pistola, da un fantasma, visto che Marplay sicuramente non è entrato, ma ha lasciato il secondo messaggio; con la polizia che non sa che pesci prendere, il terzo socio, il viscido Craven, la cui occupazione è adescare le segretarie promettendo loro una vita facile in cambio di attenzioni sessuali, e che ha tentato di adescare Joan, la figlia di Marplay, fattasi assumere per intervento dell’aitante Lord Nigel – estensore di una rubrica di gossip sul giornale e innamorato segretamente di lei – allo scopo di procurarsi prove sul comportamento sleale e doloso dei quattro a danno del Lucius Marplay di vent’anni prima, ma gli è andata male (Joan si era anche procurata un disco di dittafono con incisa la confessione di Craven estorta mentre lui era ubriaco, ma è stato rubato da un ex giornalista ora alcoolizzato perso, che verrà a sua volta ucciso dopo aver tentato un improbabile ricatto),viene a sua volta avvelenato con acido cianidrico, senza che sia stato ritrovato il mezzo usato per l’avvelenamento. 

Insomma tre omicidi impossibili: il primo, per impossibilità dell’assassino di aver superato lo sbarramento dei poliziotti (ma superato dall’eventualità che lo stesso si fosse nascosto nella camera segreta della vecchia sede, unita alla nuova da ballatoi); il secondo per manifesta impossibilità, essendo riuscito l’assassino a svanire nell’aria assieme all’arma utilizzata; il terzo per l’assenza dell’arma , anche se Craven è morto in presenza dei poliziotti, dello stesso Ispettore Wrenn e del quarto socio, Peters, dopo essersi spruzzato un profumo, che poi è risultato all’analisi assolutamente privo di gas cianiìdrico.

Il quarto omicidio è nell’aria: viene annunciato, come i precedenti, tramite un trafiletto nei necrologi del giornale, stante l’impossibilità che ciò possa avvenire visti i controlli esercitati. Avverrà per accoltellamento. Tuttavia questa volta l’omicidio sembra andare storto, perchè Marplay verrà fermato e cadrà in acqua. Verrà tuittavia tratto in salvo da uno strano personaggio Alistair McNab, che si è ritagliata la figura di investigatore, cosa che non è nella vita, ma che al momento opportuno, trae d’impaccio la polizia, rivelando i fili conduttori della vicenda e provocando la confessione e il suicidio dell’assassino.

Romanzo molto godibile, è scritto con uno stile molto arioso e leggero, che delizia il lettore.
La storia è risaputa: una vendetta ed una promessa di uccidere. L’espediente non ha una validità solo per la trama della storia, ma anche per la creazione di una tensione narrativa, che riguarda un personaggio non cattivo ma pazzo, reso folle proprio dall’infedeltà dei suoi quattro collaboratori: Mark Peters, Ambrose Craven, Sinclair Ellis e Nigel Partridge in cui lui aveva riposto la sua fiducia. 

Si viene a creare inconsciamente (ma io credo che la cosa sia stata voluta dallo scrittore) una sorta di partecipazione del lettore alle vicende che vede narrate: il lettore, anche se in realtà dovrebbe stare dalla parte di chi persegue il bene e aborrisce  il male, finisce per fare il tifo per Marplay e quasi augurarsi che, nonostante tutte le misure prese per evitare che possa portare a termine i suoi propositi omicidi, egli vada avanti nella sua vendetta. Anche perchè il lettore sa che, nella finzione letteraria, ad ogni omicidio impossibile è legato il piacere da parte del lettore amante dei delitti impossibili di carta, che questi avvengano. In questo, il lettore e il pazzo, sono legati dal medesimo filo conduttore: un testo, trovato nella camera segreta in cui egli si è rifugiato: L’assassinio come una delle belle arti, di Thomas De Quincey.

Il romanzo pertanto è un curioso frullato formato da elementi di Thriller (la promessa di uccidere, portata a termine ogni volta con pervicacia, fredda determinazione ed ingegno) e di Mystery, che sembrerebbe essere un Howdunnit (ricerca del come sia sia svolto l’omicidio) stante la evidenza di chi sia l’assassino. Tuttavia alla fine si vede che il Mystery era anche un Whodunnit, perchè l’assassino non era quello che si pensava fosse, ed invece era altra persona.

Interessante è anche la presenza di tre investigatori sul campo: l’Ispettore Wrenn, Joan e Alastair McNab. Questa particolarità potrebbe essere stata mutuata forse dal successo del romanzo di Leo Bruce, tenuto conto che qui  lo sdoppiamento di McNab in preteso investigatore e reale giornalista qual’è, fa sì che si venga a creare la condizione presente nel romanzo di Bruce: tre investigatori che agiscono ed un quarto (il sergente Beef) che da la soluzione.

Nonostante sia un crogiuolo di trovate e il ritmo non si abbassi e la lettura sia piacevole e agevole, il romanzo non è però un vero capolavoro in quanto risente di idee espresse altrove e anche la scoperta del colpevole non è così ardua come in altri romanzi (come quelli carriani e queeniani per esempio), anzi è piuttosto semplice. Il fatto è che l’espediente alla base del preteso thriller (la promessa di uccidere e la conoscenza dell’assassino) che dovrebbe innalzare la tensione, in realtà se la mantiene alta per quanto concerne sia l’estrinsecazione degli omicidi sia l’individuazione di determinati soggetti, McNab per esempio, non è effettiva per l’omicida, perchè non avendo creato le condizioni perchè più soggetti possano essere accusati, ne deriva che “se non è zuppa è pan bagnato”, ed eliminato il soggetto primo, il secondo dev’essere per forza quello. Questo perchè il romanzo segue il filone dell’Howdunnit classico (anche se qui c’è un elemento whodunnit mascherato) che punta al sensazionalismo e alla spettacolarizzazione della messinscena, come nei romanzi francesi, laddove, come qui, vi è assenza o comunque poca presenza di elementi psicologici e comunque pochi elementi da sospettare. 

Le idee espresse altrove invece sono da ricercare in espedienti narrativi già utilizzati da altri romanzieri in auge negli anni ‘trenta: per esempio i vari omicidi attribuiti a qualcuno già certo in partenza e invece compiuti da altra persona, mi richiamano alla memoria The A.B.C. Murders del 1935 di Agatha Christie, dove c’è anche l’elemento dell’omicida folle a cui si da la colpa di vari omicidi,  preannunciati, come in questo caso. E ancora : Carr e Queen, accomunati dall’espediente del falso colpevole che distoglie l’attenzione da quello vero. Potremmo trovare una certa similitudine in It Walks By Night del 1930, dove tutti pensano che l’autore degli assassini sia Laurent fino quando si scopre che Laurent è stato precedentemente ucciso e la sua identità presa da altra persona. Sembrerebbe, perchè il riferimento più diretto mi pare quello di Ellery Queen, di The Egyptian Cross Mystery: in quel romanzo c’è la promessa di vendetta, come nel nostro caso; la vendetta che si realizza tre volte, come qui; una vittima sacrificale, tenuta segregata e poi uccisa per far credere una certa cosa, mentre qui tale espediente si realizza in parte. Comunque tutto il resto ricorre.

Infine c’è un altra idea espressa altrove, anche se questa volta è dello stesso autore: infatti la promessa di uccidere, ricorre in un romanzo precedente a questo e come questo parecchio famoso: Six Were to Die, del 1932, dove un criminale minaccia di morte i sei responsabili della sua rovina avvenuta dodici anni prima, e anche lì si assiste alla gara tra chi deve mantenere la promessa e chi deve impedirlo. Come dice John Norris, anch’io lego l’ingegno nella creazione delle trappole mortali, ad esempi altrove espressi da altri: infatti il ricordo immediato è quello di John Rhode e dei marchingegni usati da lui per far uccidere nei suoi romanzi, anche se quello inventato nel caso della Camera Chiusa (omicidio Partridge) mi sembra veramente un’arrampicata sugli specchi: un metodo cioè francamente troppo cervellotico, quando il rumore della mano sbattuta con violenza sulla scrivania, avrebbe benissimo potuto mascherare il rumore attutito di uno sparo col silenziatore, cosa che viene eliminata a priori, invece che tutto il resto. Anche il dialogo falso tra l’omicida e la vittima, mi richiama qualche romanzo e racconto di altro autore, dove per esempio l’espediente del ventriloquismo (che non esiste qui) viene utilizzato per far credere che la vittima al momento giusto, fosse ancora in vita: per es. Problem at Sea di Agatha Christie (1936) o The End of Justice, 1927di John Dickson Carr.

Insomma non un capolavoro, ma purtuttavia un romanzo estremamente godibile.

PIETRO DE PALMA

 

 

 

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Pierre Boileau : La pietra che trema (La pierre qui tremble, 1934) – trad. Aldo Albani – I Grandi Gialli Pagotto, Anno II, N.8, del 29 agosto 1950

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la pietra 001La Pierre qui tremble è il primo dei romanzi di Boileau. E lo si vede subito:  è un romanzo che narrativamente parlando è più vicino ai romanzi  anni venti che a quelli successivi.

Comincia con Andrè Brunel (il personaggio che animerà tutti o quasi i romanzi di Boileau) che qui appare per la prima volta, che nel treno che lo sta portando in villeggiatura, si accorge che un individuo sospetto sta aprendo uno dopo l’altro gli scompartimenti del vagone dove lui si trova per guardare dentro.  Lo osserva e lo sorveglia con discrezione ma abbastanza da vicino da sventare un’aggressione probabilmente mortale ai danni di una giovane fanciulla, Denise Servières. La giovane, appena ventenne, si sta recando in Bretagna dove dopo una settimana è previsto il suo matrimonio con il Signore Jacques de Kervarech, al suo castello chiamato “La Pietra che trema”, in virtù della pietra che costrituisce la chiave di volta dell’arco che introduce nel castello, che sembra cadere, trema, ma non cade.

Brunel capisce che l’aggressore proveniva da Brest, avendo raccolto il biglietto che gli era caduto nella colluttazione: cioè aveva organizzato le cose per partire da Rennes e ritornare a Brest dopo aver eventualmente ucciso la giovane. Si strugge perché è da dove lui è in villeggiatura, sul mare, che l’aggressore è partito per uccidere la giovane. Chissà se riuscirà nuovamente nel suo intento.. Per questo Brunel si ripromette al più presto, dopo essersi riposato qualche giorno, di raggiungere la giovane al castello. Cosa che fa invero, in tempo per sventare un altro tentativo di assassinio, questa volta perpetrato nel bosco che circonda il castello, sempre  ai danni della giovane donna.

A questo punto, promette a lei e al suo fidanzato di stabilirsi al castello finchè lei non sarà sposa di Jacques: conosce anche il dottor Nicol, il medico del conte, ed il Conte stesso di Kervarech, tutore di Jacques.

I misteri non cessano: mentre Denise, Jacques, il Conte e Brunel stanno nel salone dove Denise sta suonando il pianoforte, Brunel vedendo in direzione della porta, prima la luce attraverso la toppa della porta e poi il buio, capisce che qualcuno, al di là della porta socchiusa, ha spento la luce ed è lì in agguato: Capisce di dover agire. Da istruzioni agli altri là presenti e poi con un balzo apre la porta, in tempo per vedere un’ombra che fugge al primo piano del nuovo castello. Non avendo altra via di fuga, si rinchiude nel bagno. Il bagno ha due entrate: una nel corridoio e una nella camera di Jacques. Ma pur presidiando tutt’è e due le uscite, e stando il conte al di fuori armato (che ha sparato allorchè il fuggiasco si è affacciato alla finestra), l’intruso, dopo aver aperto i rubinetti della vasca, fugge. Da dove? Attraverso lo scolo dell’acqua? Fa tto sta che quando si irrompe nella stanza. Non si trova nessuno. E l’altra uscita è ancora chiusa all’interno. Il Conte è sempre lì nel giardino, ha sparato la prima volta e scruta le finestre, per cui quando gli dicono che il fuggiasco è svanito, non crede alle sue orecchie. Brunel non riesce a capire come sia potuto fuggire. Non è però la sola cosa che non riesce a capire.

Denise poi racconta a Brunel di come qualche notte prima, non trovando sonno e tornandole alla mente la brutta esperienza vissuta in treno, aveva voluto respirare un po’ l’aria della notte, e nel parco aveva trovato Jacques tutto vestito che si aggirava furtivo e che alle richieste di spiegazioni della giovane aveva risposto parlando un segreto minaccioso del quale non poteva rendere edotta la fidanzata.

Brunel vuole capire cosa ci facesse Jacques a quell’ora nel parco e pertanto decide di sorvegliarlo di notte, scoprendo che di notte si allontana in direzione della vecchia torre, l’unico resto dell’antico castello, che accompagna la nuova costruzione in cui la famiglia vive. Riuscitosi ad arrampicare, assiste ad una stranissima scena: nella torre Jacques si è incontrato col Conte e lì ripete una serie di frasi, assolutamente identiche a quelle che pronuncia il suo interlocutore:ò. Il tutto poi si risolve con una gran risata ed un brindisi finale.

Brunel è sempre più attonito: non capisce nulla di quello che gli accade intorno.

Le cose a questo punto si ingarbugliano: scompare un domestico, il cameriere personale di Jacques, Yvon. E’ Annette, la sua fidanzata, altra domestica , a dare l’allarme. Lo trovano riverso, in gravi condizioni, sulla scogliera, pugnalato. Yvon è in fin di vita, ma tuttavia fissa il castello e ad un certo punto la sua facci e si contrae per il terrore: ha visto Jacques affacciato alla finestra: teme che lui possa ucciderlo. Un lampo e Brunel, temendo il peggio, si lancia verso la casa: Jacques non è più lì. Non ci sono altre uscite se non quella attraverso cui Brunel sta salendo al primo piano: eppure di Jacques nessuna traccia.  Visto che nella sua stanza non c’è e la porta del bagno è bloccata questa volta dalla parte della stanza, decide di andare nel corridoio che porta all’altra porta del bagno, ma neanche qui c’è Jacques. Ritorna indietro non capendo da dove possa essere uscito. Trova poi giù, il povero Jacques col cranio spaccato da una bastonata ma ancora vivo. Tuttavia non capisce come possa essere arrivato lì, su lui era arrivato alla casa in men che non si dica  e certamente non aveva visto uscire il giovane, né tantomeno il suo aggressore da dove lui era  entrato.

Poi..l’affare della lettera.  E’ stata spedita una lettera che è arrivata, indirizzata a Brunel. Annette l’ha vista, il conte pure, ma..la lettera è scomparsa. Il misterioso aggressore fantasma se ne deve essere impossessato. Perché? Era importante? Tuttavia chi l’ha scritta, tale Marie Calvez, aveva avuto l’accortezza di inviarne un’altra, uguale alla prima, al dottor Nicol. Così i due vengono a sapere che quella donna forse è a conoscenza di qualcosa che possa spiegare il tutto. E’ colei che ha visto nascere Jacques. Promette di dire tutto. Ma prima che avvenga, qualcuno, sempre lui, il fantasma misterioso cerca di ucciderla. Non prima che però lei riveli qualcosa a Brunel. Ora Brunel è in grado di cominciare a ricostruire l’arcano, ma ancora una volta il nemico è in agguato nell’ombra: appena l’auto con  Brunel alla guida arriva al castello, “La pierre qui tremble” che ha resistito per centinaia d’anni alla gravità, scalzata dal criminale e posta in equiolibrio, appena il rombo della macchina è sotto di lei, cade pesantemente, appresso alle altre pietre del portale sulla macchina di Brunel, che per un miracolo resta solo ferito:.

Ci sarà ancora un tentativo di aggressione a Jacques ferito, prima che il colpevole non venga individuato e messo nella condizione di non poter nuocere:  tenterà l’impossibile, cadendo poi sulle rocce. Prima che egli cada sulla scogliera, se ne vede il viso sconvolto dalla furia: è Jacques. Jacques?

Brunel ricostruirà la storia di un terribile segreto, ed una infame macchinazione.

Romanzo pieno di tensione, a metà potrei dire tra un thriller, tanto l’angoscia pervade le pagine, ed un mystery, per gli interrogativi, veramente stuzzicanti che pone (una Camera Chiusa nel bagno ed una al contrario, quando Jacques scompare dalla casa per essere ritrovato poi ferito dabbasso alla casa per una bastonata al cranio: al contrario perché a determinare l’impossibilità non è una porta chiusa all’interno di una stanza ma una chiusa all’esterno della stanza, che quindi non può essere stata usata per entrare nel bagno ed uscire poi nel corridoio), è interessantissimo per la questione che pone, che poi è alla base della soluzione.

Comunque mi pare di poter tranquillamente affermare che qui, pur essendoci un tipico ambiente da Belle Epoque ( innamorati teneri, donne indifese, ingenue, incapaci di atti abominevoli, assassini sempre uomini, turpi e avidi ) e una trama che evidenzia tempi che furono e che mai più saranno e tematiche che oramai stanno scomparendo (onore, scandalo) e pur essendoci anche una scrittura che denota la datazione , per esempio  le frequenti invocazioni, che nella scrittura contemporanea sono del tutto o quasi scomparse, e i commenti coloriti:  Ah! Il Mostro! , oppure Tutto no! Una parte…Ah! È straordinario! Oppure ancora  Ah! Lo sporcaccione (non per atti libidinosi ma per aver ferito Brunel alla mano durante la colluttazione nel treno) o Ah! Non domandarmi il perché, è orribile!  O Ah! Capire, capire… o ancora Su! Rimettiamoci ora! Ormai tutto è finito! …Oh! È orribile!…Orribile? che cosa dirà allora quando saprà tutto?…Parli mio buon amico, parli. Io divento pazza!, ci troviamo dinanzi ad un eccellente romanzo.

Tuttavia dii quelle espressioni invocative, i dialoghi sono zeppi. Testimoniano che il romanzo è datato, che lo stile lo è ancor più (frequenti le sdolcinature, tipo due persone che si salutano amorevolmente e poi si abbracciano, o invece atti opposti, come se colei che sembra buona non potesse sentire sentimenti malevoli oppure che colui che è malvagio non potesse nutrire anche sentimenti buoni) e una certa semplicità psicologica applicata alle persone: le donne sempre indifese, gli uomini sempre spavaldi o truci. Quindi, in un ambiente siffatto, ha uno stridore notevole il fatto che il romanzo presenti rispetto ad altri dello stesso periodo, caratterizzati da misteri che attengono quasi esclusivamente alla natura materiale dell’impossibilità (sono quasi tutti howdunnit), una componente psicologica elevatissima: qui il doppio mistero della camera chiusa (notevole il rumore dei rubinetti aperti e l’assassino che svanisce, o una camera chiusa all’incontrario per effetto della porta del bagno nella camera di Jacques non chiusa dal di dentro, come nella camera chiusa precedentemente accennata, ma dal di fuori, che impedisce pensare che l’aggressore sia potuto entrare da lì) è spiegabile non con espedienti meccanicistici o empirici, ma ricorrendo alla natura psicologica delle persone: è proprio il dialogo incoerente tra il Conte e Jacques (che fa dubitare il lettore di ciò che stia leggendo), unito allo strano incontro notturno nel parco tra Denise e Jacques, e alla rivelazione di Marie Calvez, a risolvere tutto, anche le Camere Chiuse. Che non c’entrerebbero nulla con una storia fatta di onore macchiato, disonore, una ragazza madre, un figlio non riconosciuto, soldi a buttare, una eredità di cui si godeva e che poi è stata tolta e che si agogna anche ricorrendo all’omicidio. Ma che poi c’entrano eccome!

Tuttavia il nocciolo della soluzione è nella natura ambivalente di un personaggio come Jacques che è capace di tutto e del contrario, che si trova laddove non potrebbe essere e che non si trova laddove dovrebbe stare, e di un suo doppio. Perché il nocciolo è proprio questo:  due fratelli, di cui uno sa dell’altro, mentre l’altro no. Il famoso tema del doppio. Che qui è trattato devo dire in maniera superba.

Solo così qualcosa viene spiegata. Il resto no, perché solo leggendo il romanzo e la spiegazione si capisce tutto. E io non lo spiego altrimenti il lettore che ha la possibilità di comprare il romanzo su ebay, e gustarselo (perché io me lo sono gustato, come non mai) poi che lo compra a fare? La soluzione è una di quelle che ti appagano, non c’è che dire! Boileau ha questa particolarità: crea dei palazzi su basi che non sarebbero capaci di resistere ad una baracca, però crea delle fondamenta così forti, da sfidare la forza di gravità. Soprattutto perché crea attorno un sistema di indizi e di fatti che trovano perfettamente la loro spiegazione solo alla fine, quando viene spiegato il tutto. Prima non sarebbe stato possibile spiegarlo.

Mi piacerebbe pensare che Boileau abbia preso qualche cosa dai due magnifici cugini Queen, che abbia tratto ispirazione da The Siamese Twin Mystery,  che è del 1933 e quindi pubblicato un anno prima che lo venisse questo primo romanzo di Boileau, ma poi in realtà è altrettanto possibile che Boileau avesse tratto ispirazione da una narrativa tipicamente francese, precedente alla sua: come non pensare a due romanzi di Alexandre Dumas come  Le Vicomte de Bragelonne  o Les freres corses, in cui è presente il dilemma di due fratelli gemelli monozigote? O sempre di Alexandre Dumas, a Les deux étudiants de Bologne, un lungo racconto? Ma se pensiamo a Queen, indubbiamente il tema della sostituzione di un fratello con l’altro, cosa che non è presente in The Siamese Twin Mystery, lo ritroviamo, in una storia che risente in certo modo dell’impostazione di Boileau, in The Finishing Stroke di Ellery Queen, un vero capolavoro, poco letto e ricordato di cui parlerò prossimamente.

La bellissima la scena in cui il cattivo dei due sta per pugnalare l’altro, già precedentemente da lui colpito ma non ucciso, mi serve per ragionare anche su un altro aspetto del romanzo: come non pensare che l’eliminazione dell’altro, sia anche il riappropriarsi dell’unicità di una identità sdoppiata in due? Perché se uccidi quello, uccidi anche te, o meglio una parte che è in te. E diventi tutt’uno?

Del resto, a ben vedere, tutto avrebbe avuto un valore solo se nessuno si sarebbe accorto della sostituzione.  Così l’elemento che scardina tutto il piano dell’assassino e del suo complice (perché senza il complice, la sparizione nel bagno non si sarebbe potuta spiegare !) diventa la mancata sostituzione. E chi ha ancora una volta un’importanza notevole in un romanzo giallo francese? Un domestico! Come ne La maison interdite di Herbert & Wyl !  L’uccisione di Yvon, il servo fedele, ha una valenza fondamentale, più fondamentale di quello che sembri e che appaia: Yvon ha visto l’alter di Jacques, e per questo deve morire! Se non si fosse accorto che esisteva un doppio, il doppio malvagio si sarebbe sostituito al doppio buono, opportunamente eliminato precedentemente e fatto sparire, avrebbe sposato la fanciulla, si sarebbe impossessato dell’eredità e Brunel sarebbe rimasto a scervellarsi sull’impossibilità di una sparizione dal bagno. Vedete ora quale sia l’eredità del Visconte di Bragelonne su questo romanzo?

Invece, l’estremo anelito di vita di Yvon permette di concentrare l’attenzione su Jacques affacciato alla finestra e su un fantomatico piano per eliminarlo e solo per questo Brunel corre alla casa, non lo trova dove dovrebbe trovarlo – perché ci mette un tempo troppo esiguo per permettere qualsiasi altra cosa, cioè trascinare il corpo di Jacques per le stanze e per le scale, in un tempo ancor più esiguo perché lui non li noti – e poi lo trovi laddove non dovrebbe essere! Se Yvon non si fosse accorto del doppio, se il doppio non avesse dovuto ucciderlo, se Yvon non fosse sopravvissuto perché ci si fosse accorti della sua mancanza, se questi non avesse indicato la camera d Jacques e Jacques stesso, tutto sarebbe andato come secondo i piani dell’altro Jacques. Invece…

Il bene trionfa. Per una serie di fatti assolutamente casuali.

La grandezza di Boileau.

Pietro De Palma

 

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LA MORTE SA LEGGERE RADDOPPIA

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Avete letto bene: dal mese di dicembre prossimo, cioè tra pochi giorni, il mio storico blog italiano di cultura poliziesca raddoppierà la propria presenza su altra piattaforma.

Devo dire in verità che in un primo tempo avevo anche pensato di sopprimere il presente blog. Le ragioni erano principalmente due :

- l’impossibilità di poter vagliare il numero dei lettori dei miei articoli, cosa che era invece possibile quando la piattaforma myblogit non era agganciata a wordpress

- la difficoltà da parte dei lettori di potermi raggiungere o inserire commenti, cosa segnalatami in più occasioni da amici che avendo blog su piattaforma google, quando indirizzavano commenti a blog della stessa piattaforma o ad altre che non fossero myblog.it , ci riuscivano; in caso contrario invece accadeva non sempre o di rado. In particolare mi avevano segnalato l’impossibilità di potermi contattare direttamente via blog e pertanto lo facevano in forma privata, contattandomi via email (ma bisognava anche che io avessi loro fornito il mio indirizzo).

Poi in un secondo tempo, ragionando sul fatto che avrei fatto un torto a chi da tanto tempo mi aveva seguito sul presente blog, per di più non sapendo se gli stessi lettori mi avrebbero seguito altrove (ho visto per esempio, che a seconda delle piattaforme, gli utenti cambiano), e ragionando anche sul fatto che avrei generato un po’ di confusione, ho deciso di lasciare operativo questo blog e nello stesso tempo raddoppiarlo con analogo con stesso titolo ma piattaforma diversa, su cui posterò gli articoli nuovi, che appariranno anche qui ovviamente, ma anche via via tutti gli articoli già qui postati, in modo da allargare la fruibilità degli stessi presso fasce di lettori prima non raggiunti.

Un arrivederci a tutti, con un augurio di trascorrere serenamente le prossime festività natalizie (oramai quasi alle porte).

 

Pietro De Palma

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Pasquale Pede : Le radici del Noir fra letteratura e cinema – Fondazione Rosellini, 2009

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Noir 001Alla metà di novembre 2016 mi è arrivato un pacco a casa. Quando sono arrivato a casa dopo il lavoro, ho notato sul piano di faggio della cucina un pacco seminascosto da altre cose. Alla mia richiesta in merito a cosa fosse, mia moglie mi ha guardato fisso e mi ha detto che aveva dovuto vestirsi per scendere a firmare la raccomandata. Quando dice così è perché è arrivato un pacco di Gialli, che lei brucerebbe con molto piacere (le donne di solito hanno la fissazione di voler per forza fare spazio in casa e le cose di proprietà dei mariti passano sempre o quasi in seconda linea). Il fatto è però che io non aspettavo nulla. Per cui sono rimasto interdetto. Poi ho visto il mittente: Tiziano Agnelli. Ohibò! Ho aperto il pacco e vi ho trovato… il saggio di Pasquale Pede sul Noir, un librazzo delle dimensioni di un atlante geografico;  e bello corposo!

Ammetto di non sapere cosa fosse. Se fosse stato un testo sul Mystery, avrei saputo subito dire cosa fosse, ma siccome il Noir per me se non è cosa sconosciuta, non è neanche pane quotidiano, sono andato a vedere il risvolto e qui ho capito cosa c’entrasse Tiziano e perché mai me ne avesse fatto dono, almeno l’ho supposto: il volume è della Fondazione Rosellini, una Fondazione che si occupa di diffusione di cultura popolare, e lo fa attraverso pubblicazioni varie. E Tiziano vi collabora, allo stesso modo di come anni fa ha collaborato con Pirani per il Dizionario Bibliografico del Giallo in Italia. Per esempio, mi ricordo che la Fondazione Rosellini, anni fa approntò una pubblicazione per celebrare l’attività di Carlo Jacono, il famoso disegnatore delle edizioni da edicola della Mondadori; questa volta ha voluto rendere omaggio al Noir, cioè all’hard-boiled detto alla maniera francese.

Il volume è del 2009, va detto subito, e non si trova in libreria, ma va ordinato alla Fondazione Rosellini:  http://www.fondazionerosellini.it.

Tiziano mi ha detto ieri sera che mettendo ordine a casa sua, cercando così di ottimizzarlo e trovare nuovi spazi, aveva trovato il volume a doppione, e pensando che sicuramente io non lo possedessi (non si è sbagliato) aveva pensato di farmene dono, visto che aveva trovato delle vecchie fotocopie di racconti di Commings che gli aveva fatto al tempo Robert Adey ( e io che tempo fa gli avevo richiesto), e non volendo spedirmi così quei fogli aveva trovato un modo elegante per inserirli tra le pagine di qualcosa di importante.

Passo a definire di cosa trattasi.

Il volume consta di  256 pagine, escluso il sommario, di grande formato. Nelle pagine sono comprese numerose fotografie, immagini di copertine e quant’altro in bianco/nero, escluso un corpus centrale di trenta pagine interamente a colori, lucide, con immagini anche di magazines americani specializzati in letteratura pulp.

La parte trattativa è preceduta da una premessa di Gianni Brunoro che volendo introdurre il saggio di Pede dice delle cose giuste ma poi è come se scoprisse l’acqua calda: riconosce a Pede l’originalità di aver individuato nella letteratura gotica il fondamento della letteratura noir. Mah! E’ cosa ampiamente acquisita che la letteratura del mistero derivi dalla letteratura gotica! Basta leggere un romanzo come It Walks By Night di Carr, il Carr infatuato di storie gotiche e di storie ghost, per trovare ampli stralci di letteratura derivante da quella gotica: sangue a fiumi, corpi decapitati, cadaveri murati. E sempre nel Carr giovane troviamo atmsosfere ancor più orrorifiche in Castle Skull. Quindi mi pare del tutto fuori luogo gridare quasi al miracolo per una cosa già acclarata. Se la letteratura mystery deriva da qualla gotica, vuoi che non possa derivare anche quella noir? Ma Carr non è il solo. Si trovano esempi anche in Boca, in Meirs, e ovviamente in Poe. Al di là di ciò, il testo offre numerosi spunti di riflessione: lo ha ammesso anche lo stesso Luca Conti qualche giorno fa, parlandone col sottoscritto.

Apro una parentesi su Conti: che peccato averlo perso! Da quando fa il direttore di Musica Jazz, l’editoria italiana del settore ha perso un numero uno: basti pensare a cosa siano diventate alcune collane cui lui collaborava in quanto traduttore,  dopo che  è sparito! Penso solo a cosa avremmo potuto avere, se invece che mettere gente che del Giallo Mondadori aveva una conoscenza sbarazzina, i capibastone della Mondadori avessero messo lui anni fa (dico prima di Forte e di qualcun altro) come editor del Giallo Mondadori! Non certo la situazione di ora, in cui Il Giallo Mondadori se non è morto è ormai in coma irreversibile: “Se domani chiudesse – mi diceva un mese fa Luca – non se ne accorgerebbe nessuno!”. Opinione che in più d’una occasione ho esternato anch’io altrove (almeno sui miei blog). Peccato che abbia buttato alle ortiche la sua preparazione! Chiusa parentesi.

Al di là di tali esternazioni, il volume  si suddivide in tre sezioni distinte: una prima parte che parla di questioni di ordine generale (la critica, la diversificazione tra mystery e hard-boiled, cosa sia letteratura hard-boiled e quando nasca quella noir, oltre che la classificazione dell’eroe e dello stile hard-boiled), una seconda che tratta la storia cronologica del genere noir dalle letteratura di appendice, passando per quella pulp americana, fino ad arrivare ai paperback, e al contempo analizzando i clichè di tale tipo di narrativa: la femme fatale, il gangster, il poliziotto, il detective, oltre che lo stesso ambiente cittadino in cui le storie nascono e muoiono; e infine una terza parte che propone delle succose e brevi introduzioni ai principali autori di hard-boiled, fino a proporre addirittura una esaustiva guida di quella letteratura che secondo l’autore bisognerebbe portare su un’isola deserta.

l-eta-del-noir-ombre-incubi-e-delitti-nel-cinema-americano-1940-60-9788806187187-renato-venturelli-libro-cinema-e-teatroMi chiederete cosa ne abbia io ricavato: beh, tralasciando qualche cosa che qua e là mi ha lasciato perplesso, cosette intendiamoci, e del resto un ‘opera per quanto possa essere esaustiva non lo sarà mai del tutto, il volume mi è sembrato estremamente ben fatto, e oltretutto mi ha informato su molte cose, non tanto i romanzieri o le opere (a quello vi arrivo!), ma soprattutto la cinematografia noir: su quello l’opera ha indubbiamente una sua valenza molto positiva. Tenuto conto  ovviamente anche di altri saggi, tra cui il fondamentale  di  Renato Venturelli, “L’Età del Noir: ombre, incubi e delitti nel cinema americano 1940-1960”, Einaudi. Il volume di Venturelli lo possiedo da alcuni anni, ma indubbiamente le immagini tratte dai film, contenute in gran quantità nel volume di Pede, rimangono maggiormente impresse.

A riguardo devo esprimere una mia riflessione, che ho esternato al telefono allo stesso Tiziano Agnelli: pur con le dovute avvertenze, mi sembra di poter dire che se è vero indubbiamente che il cinema Noir ha basato gran parte dei suoi film di maggior richiamo su romanzi precedenti (Il bacio della violenza, Il Falcone Maltese, Piccolo Cesare etc.) e i maggiori autori di hard-boiled  finirono per scrivere sceneggiature di pellicole (Raymond Chandler per esempio), è altrettanto vero che la stessa cinematografia nata sui romanzi avesse poi finito per fare da traino, rendendo il genere narrativo ancor più popolare di quanto non fosse già prima. Anche in considerazione del fatto che parallelamente alla cinematografia noir mietè grandi successi quella western, che è collegata alla prima da più di una costola, presentando gli stessi clichè (il cowboy buono, il pistolero, il bandito, la femmina fatale, la donna tutta casa e famiglia, lo sceriffo corrotto) di quella hard-boiled (il detective squattrinato sempre sfortunato con le donne, il poliziotto corrotto, il gangster, la femmina fatale e perversa opposta alla ragazza della porta accanto). Del resto se si va a vedere bene, i grandi attori degli anni 40 e 50 hanno interpretato magnificamente sia ruoli western che di “azione” (per es. Sterling Hayden protagonista di Giungla d’asfalto, lo fu anche di Johnny Guitar, famoso film western di uno specialista di noir come Nicholas Ray : come non ricordare il suo Neve Rossa del 1951, con Ida Lupino?).

Interessante la considerazione che differenzia l’hard-boiled dal mystery, narrativamente parlando: laddove il secondo porterebbe al centro del romanzo l’indagine razionale, il primo la decentrerebbe, riportando in auge invece i soggetti e l’ambiente e l’atmosfera.  La differenza afferirebbe in sostanza a due tipi di intendere il romanzo: come espressione della mente e della logica, il mystery fondandosi sulla deduzione, sarebbe più vicino a processi cerebrali, connessi al cervello; l’hardboiled nella sua forma sarebbe molto vicino alla forma più tradizionale di romanzo, basata sul sentimento. In altre parole avremmo il cuore opposto al cervello: chi può dire sia meglio? Proprio per queste sue peculiarità, di romanzo tout court, nelle librerie di romanzi noir ve ne sono una infinità, mentre i romanzi gialli (almeno in Italia) se non sono di Agatha Christie o quasi, sono riservati quasi esclusivamente alle edicole.

Noir 002Tuttavia, mi sembra di poter dire, da vecchio incallito portabandiera del mystery, che questo genere alla lunga vince sull’hard-boiled per una particolarità: nel romanzo mystery classico, se è vero che la fantasia e la ricerca di enigmi sempre più cervellotici ne decretarono un ridimensionamento ad un certo punto, favorendo altri generi di narrativa poliziesca, è anche vero che proprio l’assenza di clichè di riferimento (il noir o hard-boiled che dicasi non può esser tale se non v’è la femme fatale, il detective squattrinato ma puro, il poliziotto prevenuto, il politicante corrotto, la ragazza pura e dolce, il gangster brutale) ha portato il mystery ad affermarsi in continuazione anche se in sordina e a proporre suoi rappresentanti fino ai giorni nostri, mentre l’hard-boiled ha vissuto di ritirate e di avanzate, dopo la grande affermazione che va dal 1940-45 al 1960, a seconda che autori più o meno illuminati portassero dalla loro parte fasce di lettori.

L’ultima carrellata finale è dedicata ai grandi nomi dell’hard-boiled, da Hammett  a Chandler, da McCoy a Goodis, da Williams a Himes, da Woolrich a Spillane. Qui, essendo il volume del 2009, manca secondo me una sezione dedicata a Crumley che all’atto della pubblicazione del volume di Pede, era da poco passato a miglior vita. Inoltre manca un indice generale in cui siano riportati almeno tutti i film e gli autori trattati: avrebbe migliorato la fruibilità del testo. Inoltre anche se riportati in appendice, in quanto capolavori dimenticati, parecchi autori minori, se non mancano, sono solo frettolosamente elencati, quando invece autori che sarebbero potuti essere tralasciati, Vera Caspary per es. che non è esponente hard-boiled ma semmai di thriller nero, o Richard Matheson, che invece afferisce la filone del thriller-horror (da cui prende le mosse Stephen King) vengono invece trattati.

In questo io ravviso la potenza del saggio ed il suo limite: nell’aver cercato di mettere a confronto il genere nato in America e poi approdato in Europa grazie al modello francese, cercando le radici comuni in entrambi. Perché così facendo se è innegabile l’interesse del saggio, altrettanto fa dubitare l’aver trascurato, per l’ansia di voler parlare di entrambi e sottolineare le interazioni tra cinema e narrativa, una trattazione la più esaustiva possibile di entrambi, o almeno dell’Hard-boiled americano, che viene relegato a delle linee guida storicizzate, dimenticando i rami minori o quelli più vicini a noi. Tranne alcuni che non lo possono essere.

A sottolineare tuttavia che trattasi di uno dei migliori studi del genere, va detto che il volume costa solo 25 euro e che per averlo deve essere richiesto direttamente alla Fondazione Rosellini, non trovandosi in vendita nelle comuni librerie: se si pensa che circa venti euro costa un romanzo di Ken Follett, si può allora ben capire come il prezzo richiesto sia davvero una inezia, a fronte di un apparato anche iconografico di tutto rispetto, e del fatto che di questo volume siano state approntate solo mille copie (la mia è la N.407).

Pietro De Palma

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Prossimamente su La morte sa leggere 2, disamina della situazione editoriale nel corrente anno 2016

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Prossimamente, sul mio nuovo blog “La morte sa leggere 2″, http://lamortesaleggere.blogspot.it/ , apparirà una mia disamina sull’attuale stato dell’editoria italiana del settore gialli, e su quello che s’è fatto o non s’è fatto nel corrente anno 2016, che volge alla sua conclusione.

Quindi, tutti attenti e, se volete, partecipate con commenti!

Un saluto a tutti.

 

P. De Palma

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Peter Lovesey : La vacanza del Cappellaio Matto (Mad Hatter’s Holiday, 1973) – trad. Alda Carrer – Universale Sonzogno Avventura N.33 , Sonzogno, 1975

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Un altro romanzo di Peter Lovesey. Il primo ad essere stato tradotto in Italia.

La vacanza del cappellaio matto, Mad Hatter’s Holiday, fu pubblicato stranamente da Sonzogno nel 1975 nella sua collana Universale Sonzogno Avventura. Sottolineo “stranamente” perché questo libro uscì solitario, in mezzo ad altri esempi, tipo Le lettere di Scorpio, di Victor Canning, di romanzi di autori dimenticati o comunque poco conosciuti. Allora, nel 1975, Peter Lovesey lo era in Italia, in quanto nessuno dei suoi primi tre romanzi era stato pubblicato (ancor oggi Wobble to Death, The Detective Wore Silk Drawers, Abracadaver , della serie vittoriana con il Sergente Cribb e l’Agente Thackeray di Scotland Yard, sono inediti in Italia), e tale destino è ancora in essere per il quinto e il settimo della serie. Mentre per il sesto, Un fantasma per Cribb, già recensito da me, e per l’ottavo, La statua di cera, si dovette aspettare il 2002 per pubblicarli. Quindi bisogna riconoscere a chi lo scoprì nel lontano 1975, di aver avuto alquanto fiuto.

La vacanza del cappellaio matto è un romanzo delizioso.

Il tempo è quello della Regina Vittoria. Le prime sessanta pagine scorrono placide, anche un po’ troppo direi, tutte incentrate sulle manie vacanziere del Sig. Moscrop, un commerciante di strumenti ottici, soprattutto cannocchiali e binocoli, il quale passa le sue vacanze ad osservare la gente con un suo potente binocolo. Non gente qualunque, ma quella vacanziera che d’estate affolla la spiaggia di Brighton: una umanità fatta di dame con l’ombrellino per ripararsi dal sole, signori con la bombetta o la paglietta, bambini, bambinaie, venditori di pesce (anche quelli sulla spiaggia), villeggianti attratti dai bagni o dall’acquario con i famosi coccodrilli, e a fare corollario, soldati, domestiche, prostitute, clienti. Insomma un’ambientazione molto vivida, anche se sessanta pagine incentrate sulle manie di Moscrop, sarebbero un po’ troppe. E devo dire che quelle sessanta pagine sono difficili da leggere, proprio per la ricchezza delle descrizioni, ma anche perché non si riesce a capire cosa c’entrino queste manie con un romanzo giallo. Sembrerebbero inutili, se invece non fossero determinanti per la storia che da quel momento in poi si snoderà.

Moscrop tra le tante persone inquadrate, ha adocchiato una bella dama, Zena,  con un bambino molto piccolo, Jason, cui si accompagna un ragazzo di quindici-sedici anni, Guy, suo figliastro, e la bambinaia, Bridget. I quattro sono soliti stare sulla spiaggia: la bambinaia dovrebbe occuparsi del piccolo Jason, ma invece fa il bagno con Guy, svezzandolo sott’acqua con pratiche erotiche; in soccorso della nobildonna, che farebbe meglio ad occuparsi lei del bambino prima che lo stesso corra il rischio di cadere e farsi male, arriva lo stesso Moscrop, desideroso di rendersi utile e al tempo stesso desideroso di fare amicizia con qualcuno, giacchè è solo, nel suo mondo fatto di cannocchiali.

Attaccando bottone, si accorge che la donna è ben lungi da dargli un calcio nel sedere, cosa che qualsiasi donna di riguardo avrebbe riservato ad un impiccione, ma anzi è ben disposta ad aprirsi ad uno sconosciuto, visto e considerato che anch’ella è sola, nel suo mondo familiare. Non nasce una tresca ma una certa amicizia, fatta di passeggiate e chiacchierate, e così l’ottico viene a sapere che la donna è sposata col dottor Prothero, un medico, e che Guy, suo figlio, è lì, a Brighton, per curarsi e riposarsi, in vista di riprendere l’attività scolastica presso un istituto privato. E’ l’ultima moglie del dottore, che ne ha cambiate alcune. Questa strana condotta, e l’aver scoperto che a sua volta il dottore corteggia la bella rossa figlia del Colonnello Wittingham, una ragazza giovane, e che per avere possibilità maggiore di incontrarsi con la giovane, con la scusa di curare un preteso nervosismo della moglie, la cura propinandole una dose di sonnifero, convince Moscrop di stare all’erta. E chiede alla donna di fargli avere un campione del liquido che le viene propinato di sera, al fine di farlo analizzare.

Il giorno dopo, quando dovrebbe incontrarsi con la donna  per rivelarle se si tratti di veleno oppure no, gli si presenta dinanzi la bambinaia, che lo mette al corrente degli ultimi spostamenti del suo padrone e della rossa Wittingham, e anche dei suoi “corteggiamenti” alla signora Prothero. Una serva non certo solo licenziosa, ma anche furba.

E’ la sera dei fuochi artificiali, offerti alla cittadinanza per festeggiare l’arrivo in città di un reggimento dell’esercito.  Moscrop avrebbe detto alla dama che il liquido era una dose estremamente blanda di cloralio, un farmaco per addormentarla e farla rilassare.

Qualche giorno dopo, per un caso, un visitatore dell’acquario vede, al di là del cristallo della grotta dei coccodrilli, una mano femminile, mozzata all’altezza del polso. L’esistenza di residui di sabbia, convince la polizia a effettuare scavi sulla spiaggia al fine di ritrovare le parti mancanti di un corpo femminile al cui apparteneva la mano, per trovare alla fine, avvolti in pagine di giornale, i pezzi di un corpo femminile, al cui manca però la testa e qualche altro pezzo.

Il fatto di aver trovato anche una giacca di foca, posseduta dalla vittima, dalla quale un bottone saltato era stato ricucito in seguito, convince Scotland Yard, di cui son stati inviati sul posto il sergente Cribb e l’agente Thackeray, in seguito alle prime indagini svolte, che tutto giri intorno alla famiglia del dottor Prothero, e che i pezzi della donna ritrovati sotto 30 cm di sabbia, non siano appartenenti ad una prostituta fatta a pezzi con una mannaia, come suggerisce il buon giovane Guy, ma a persona conosciuta. E’ lo stesso Moscrop che si ricorda come un bottone era saltato durante una sua passeggiata assieme alla signora Prothero, dalla giacca di foca, e avendo ritrovato la polizia in un manica della giacca un foglietto con una ricevuta per analisi chimica di cloralio, è chiaro che il cadavere sia quello della signora Prothero.

Il sospettato numero uno diventa il marito, che ha però un alibi inattaccabile, avendo passato la notte del delitto assieme alla signorina Wittingham; e lo stesso Guy, che ha rivelato di aver passato la notte a casa della matrigna, ha l’alibi convalidato proprio da Moscrop; rimarrebbe la bambinaia, che secondo il marito della donna, avrebbe accompagnato sua moglie e Jason in città, ma ella non avrebbe avuto alcun movente per uccidere la padrona; a patto che non sia Moscrop, per un interesse oscuro. Moscrop avrebbe finto allora il suo aiuto a Scotland Yard. Ma…tutto cambia quando Moscrop, avendo osservato un contegno sospetto del dottor Prothero, convinto che quello nasconda qualcosa, lo segue fuori città, tanto per scoprire che si incontra con una donna, sua moglie. Che allora non è affatto morta.

Il dottore ha con sé uno zaino che ha passato a sua moglie e che poi viene sequestrato dalla polizia: contiene gli abiti di..Bridget. E’ lei la vittima. Tutto cambia allora!

Chi è l’omicida?

Il bello è che allorchè il sergente Cribb lo avrà inquadrato e starà per arrestarlo, l’omicida verrà a sua volta ucciso. E scoprire il secondo omicida sarà maledettamente difficile e soprattutto difficile da dimostrare che si sia trattato di omicidio, in quanto mascherato da crisi asmatica.

Bellissimo romanzo, lo diciamo subito. Affascinano le sue descrizioni di luoghi, tempi e persone appartenenti a tempi lontani. Lovesey ha una caratteristica, che è peculiare anche di Doherty: quando inserisce una storia in un contesto diverso da quello contemporaneo, ha la particolarità di renderlo familiare, tanto questo ambiente è ben descritto. E per togliere quella patina di vecchio, riesce a stemperare le varie atmosfere con una certa dissacralità, con battute e uno spirito tipicamente inglese. Se vi sono colonnelli e disciplina, ci saranno anche figlie che finiscono a letto con signori attempati, mogli che allegramente tradiscono i mariti e mariti che tradiscono le mogli, bambinaie e cameriere che invece di stare con bambini, finiscono per  farli, accompagnandosi a stallieri e autisti. Il tutto in un turbillon di situazioni e vicende che affascina e diverte. Come detto, le prime sessanta-settanta pagine sono invece piatte,  e anche difficili da leggere. Bisogna aspettare e avere pazienza: del resto lo stile rispetta anche il personaggio o i personaggi trattati. La prima parte del romanzo infatti è dominato da Moscrop che è un tipo ordinario, preciso, pignolo, e quindi anche la parte narrativa dominata da lui lo è; quando invece arrivano Cribb e Thackeray, due tipi frizzanti e per nulla ordinari, che anche coi modi contrastano palesemente con le convenzioni (Cribb che fa strage di bomboloni e che mangia mentre parla, opposto per esempio al dottor Prothero, l’immagine dell’educazione e della signorilità), ecco che comincia la seconda parte (non esiste una differenza tra parti nel romanzo, ma tra capitoli, eppure si nota fortissima e nettissima la cesura tra la prima e la seconda, proprio perché la prima parte che è quella in cui anche si consuma il delitto è volutamente più plumbea, mentre nella seconda, in cui il delitto è stato già consumato, si assiste ad un rilassamento dell’atmosfera che diventa talora anche ridanciana. Per esempio quando Cribb per agganciare Prothero che utilizza una sauna pubblica, arraffa il telo da bagno del primo sostenendo poi che sia il suo, e questo solo allo scopo di scusarsi successivamente e di avere l’occasione di offrirgli un pranzo per scusarsi, così da agganciare lui e il figlio, e interrogarli in modo informale.

Non sfuggirà a chi volesse procurarsi il romanzo, inserito anche in uno Speciale del Giallo di qualche anno fa, come Moscrop ricalchi l’atteggiamento dell’uomo in carrozzella che scruta i suoi vicini con un binocolo, protagonista del racconto di Cornell Woolrich, It Had to Be Murder, da cui fu tratto il film famoso di Alfred Hitchcock, “La finestra sul cortile”. L’atteggiamento dei due è molto simile: c’è la volontà proprio di impadronirsi della realtà altrui, di insinuarsi nella quotidianità attraverso il binocolo, una sorta di feticcio, più che scrutare dal buco della serratura. In Moscrop non c’è il piacere voyeuristico di guardare di nascosto una donna spogliarsi, ma guardare una donna con occhio interessato ma vigile, commentare e riflettere sul perché qualcuno inquadrato dal binocolo si comporti in un modo anziché in un altro. Ci si aspetterebbe ad un certo punto che fosse proprio lui a scoprire il cadavere; invece tocca lui osservare le evoluzioni amorose di un quindicenne e di una bambinaia ventenne, in costumi castigati primo novecento, nel mare, e chiedersi che ci faccia quel bambino lì vicino. E poi insinuarsi nella vicenda di una donna tradita dal marito e addormentata da lui ogni sera, allo scopo di procurarsi il tempo per adescare e corteggiare un’altra, così da carpirne l’amicizia. Lui e l’uomo sulla carrozzella sono uomini soli, prigionieri di una realtà che gioco forza  si è accettata, ma che nell’attimo in cui si osserva si riflette in quella degli altri. Ma sono anche degli imprestati detectives: non a caso Moscrop è il detective dilettante, imprestato, che domina con le sue osservazioni, la prima parte del romanzo; mentre nella seconda vi sono degli altri detectives professionisti, Cribb soprattutto, che risolveranno la faccenda.

Lovesey è attento al ritmo, e gli scombussolamenti si succedono senza sosta: quando ti aspetti che una cosa sia confermata ecco che poco tempo dopo un nuovo particolare la mostra sotto una luce diversa. E anche lo stesso omicidio e omicida diventano realtà mutevoli e fuggevoli .

Infine estremamente precisa tutta la esemplificazione sulle malattie asmatiche, sui rimedi e sulle varie pratiche atte a simularne gli effetti, conducendo a morte repentina.

Un libro che si legge con grande piacere.

E che nelle ultime quindici pagine si trasforma da un classico Mystery in un Thriller moto sostenuto, giacchè si deve scoprire prima quale sia il secondo omicida e poi come possa essere inchiodato alle sue responsabilità, visto che la causa di morte è il polline, di cui non si è trovata traccia, né tantomeno segni di iniezioni.

C’è pure un attimo di nostalgia a fine romanzo, quando Cribb si reca nel negozio di Moscrop per salutarlo, e poi si vede l’ottico che mette da parte in una scatola di legno un bel cannocchiale di ottone da inviare in regalo a Jason, il figlioletto di Zena Prothero, improvviso sole nella vita di grigiore quotidiano del povero Moscrop che non si è accorto come il fatto di rivolgersi a lui della Signora chiamandolo “tesoro” non era una simpatia personale, esclusiva, come lui ha pensato, ma un modo molto estroverso di rivolgersi a chicchessia.

Chi vive di speranze morirà disperato.

E’ quello che ho pensato di Mr. Moscrop

Pietro De Palma

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CONSUNTIVO ATTIVITA’ EDITORIALI IN ITALIA, SUL BLOG LA MORTE SA LEGGERE 2

Ngaio Marsh: Il morto che ascoltava la radio (Death on the Air, 1938 o 39) contenuto in DELITTI DI NATALE, trad. Dario Pratesi, I Bassotti, Polillo, 2004

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DelittiA 13 anni fa risale quella che io reputo una delle migliori raccolte di racconti in assoluto, proposte da Polillo: Delitti di Natale. Fu tale il successo di questa raccolta (7 edizioni) , che qualche anno dopo fu proposto un sequel dal titolo “Altri Delitti di Natale” che ebbe anche un discreto successo (3 edizioni).  E’ una riprova – se mai ce ne fosse bisogno – del fatto che  quando qualcuno ha le capacità e ha la voglia supportata dalla passione nel proporre qualcosa di valido, la fortuna e il supporto di chi riconosce le fatiche e anche gli investimenti, non mancano.

In questa raccolta furono raccolti molti celebri racconti: uno – Persons or Things Unknown di Carter Dickson, l’ho esaminato nel mio nuovo blog da poco aperto; un altro lo esamineremo ora. Si tratta di un  meraviglioso racconto di Ngaio Marsh, Death on the Air, tradotto in italiano col titolo inventato “Il morto che ascoltava la radio” (ma che fantasia che ha Marco Polillo!).

Il racconto dà il titolo ad una raccolta – di cui fanno parte altri due racconti già pubblicati in America (I Can Find My Way Out, 1946; Chapter and Verse: The Little Copplestone Mystery ,1974); cinque brevi storie (The Hand in the Sand, The Cupid Mirror, A Fool about Money, Morepork, My Poor Boy, Moonshine, Evil Liver, sceneggiatura di un episodio della serie Crown Court registrata in Inghilterra nel 1975),e due saggi inediti: Roderick Alleyn e Portrait of Troy – pubblicata nel 1995 per la prima volta in Gran Bretagna: Death on the Air and Other Stories. La raccolta è stata poi allargata, comprendendo oltre che i contenuti originali, anche una breve storia recentemente scoperta, The Figure Quoted.

radio-anni-30Dico subito che a mio parere, il titolo originario sarebbe stato ironicamente più efficace: morte nell’aria. Riferendosi alle onde elettromagnetiche che facevano sì che funzionasse la radio.

Il racconto curiosamente richiama altre opere : Into Thin Air di Winslow & Quirk, o Thin Air di Howard Browne, l’uno con un delitto Impossibile, l’altro che pur essendo un hard-boiled sembrerebbe ricorrere anche  in esso un delitto impossibile. Solo che qui delitto impossibile non vi è, semmai un delitto che nella forma quando viene scoperto sembra che sia almeno bizzarro: un morto stecchito, rigido come un baccalà, che sembra da morto che stia lì a sintonizzare la radio.

La magia del racconto non sta tanto nel fatto che il delitto avvenga la notte di Natale, ma che la vittima muoia mentre sta apprestandosi a cercare una stazione radio. La magia e l’evocazione di un oggetto oramai diventato un optional quasi senza valore oggi, ma che un tempo costava, eccome! Era il solo strumento che mettesse in comunicazione col mondo esterno, con l’estero anche, qualsiasi essere umano. Ora ci ridiamo sopra, ma un tempo la radio, e soprattutto la bella radio, quella da salotto, era un oggetto prezioso. Mi ricordo quella di mio nonno materno, con delle manopole color giallino di bachelite.

Beh, sono di bachelite anche le manopole che Settimius Tonks cerca di girare ogni volta che si appresta alla sua radio, uno strumento fatto su misura, e quindi costoso. E’ la sola passione oltre agli affari che gli riconoscono tutti.

Settimius Tonks è il padre-padrone di una famiglia benestante, che tiranneggia con violenza autoritaria. Tutti lo odiano per come ha ridotto i figli Guy e Arthur a degli smidollati, incapaci di prendere decisioni autonome sul loro futuro senza che il loro padre-padrone esprima il suo definitivo punto di vista; per come ha fatto della figlia, Phipps, un’altra vittima; e per come ha ridotto ad una larva, la moglie Isabel. Non manca persino il suo segretario privato, Hinslop, in questa teoria di vittime, giacchè il suo padrone gode a più non posso a umiliarlo, sicuro del fatto che il sottoposto non proverà a licenziarsi in quanto vedovo con due figli che da lui interamente dipendono. Insomma una casa padronale in cui la pace non regna,  a meno che qualcuno a turno non venga schiacciato e accetti di non ribellarsi. Persino il maggiordomo Chase, l’ultimo di una serie di domestici puntualmente licenziatisi, dopo solo due mesi, medita di licenziarsi, credendo completamente pazzo il suo principale.

E’ chiaro che in un ambiente del genere possa anche venire a qualcuno il pensierino dell’omicidio. Ma tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare, recita il proverbio.: infatti nessuno dei vari soggetti di quella casa sembra esserne capace.

La sera del 24 dicembre accade un altro putiferio: viene umiliato ancora una volta Hinslop, e subito dopo tra lui e la figlia del tiranno scocca il momento di riconoscere che ognuno è innamorato dell’altro: non si tratta di due persone affascinanti, ma proprio mediocri, ma che nella propria mediocrità, nella propria inutilità, si sentono finalmente non mediocri né tantomeno inutili. Ma vengono scoperti e all’ira che colpisce il segretario si aggiunge quella che colpisce la figlia; e poi ovviamente a farne le spese è la madre, che ha permesso che la figlia potesse avere un sentimento siffatto nei confronti di un segretario, di un dipendente di condizione assai modesta.

I due altri figli, Arthur e Guy sono andati via.

Il padre, ritornato nello studio, si chiude per sentire la sua radio.

L’indomani mattina, la mattina di Natale, la cameriera aprendo lo studio, sobbalza quando una voce augura Buon Natale: è quella proveniente dalla radio. Voltandosi vede che il suo padrone è lì che è piegato intendo ad armeggiare alle manopole; si avvicina, poi vede che ha ancora l’abito da sera e poi…capisce che è morto. In men che non si dica il trambusto attrae Chase che vedendo l’espressione orribile del padrone, capisce che è morto, e non certo di morte naturale. Fa chiamare il medico di casa, il dottor Meadow, il quale davanti al maggiordomo ammette che Settimius sembra essere morto per una scarica elettrica: ha infatti il pollice e indice e medio della mano destra anneriti e bruciacchiati. E davanti ai figli, che temono un’inchiesta e lo scandalo, afferma di non potersi esimere dal chiamare la polizia: e a chi vuoi che diano la patata bollente se non all’Ispettore Capo del CID Roderick Alleyn? Il quale si presenta assieme al suo braccio destro, l’Ispettore Fox, e a degli agenti. E si mette all’opera.

965430Scopre ben presto quale tana di odio sia quella casa, e quanto i figli, la moglie, il segretario e persino i domestici odiassero il vecchio e ne desiderassero in cuor loro la morte certa. Visto che i moventi abbondano, e che anche il suo fido aiutante sente, come lui, puzza di bruciato (una radio, testata per non causare scosse, è poco probabile che ne abbia generata una capace di uccidere e poi abbia continuato a funzionare), comincia a volerci vedere chiaro, dopo aver parlato col dottore e aver capito che lui, senza darvi eccessivo peso, ha capito benissimo che il morto è deceduto per una scarica elettrica causata dalla radio. Anche se non si riesce a capire come possa essere accaduto: infatti, ammesso che vi fosse stata una scossa, essa non sarebbe bastata da sola ad uccidere, ed anzi avrebbe causato solo un certo pizzicore.

Smontata la radio, Alleyn, la cui vista e perspicacia sono proverbiali nel mondo del mystery, si accorge che i pomoli del bastone della tenda sono estremamente simili a quelli di bachelite, tanto da potersi confondere, anche se sono di metallo. Sfilati, vi trova all’interno dei residui di carta assorbente, che trova anche intorno ai perni su cui le manopole di bachelite sono avvitate; inoltre, quasi nascosti dalle stesse manopole, sono stati praticati nel legno dei minuscoli fori senza che si capisca a cosa potessero servire. A quel punto un’idea peregrina si fa largo nella mente dei poliziotti: e se attraverso quei fori non fossero stati fatti passare dei fili elettrici che avessero messo in contatto le manopole di metallo con l’interruttore posto dietro la radio? Cioè cominciano a sospettare che qualcuno abbia sabotato la radio col fine di ucciderne il proprietario.

Dopo aver trovato nel quadro comandi, una valvola sostituita in un contatto che porta segni evidenti di un corto circuito; dopo aver saputo che ad una certa ora della sera prima la radio aveva cessato di funzionare e le stufette improvvisamente si erano spente, ma poi si era rimessa in funzione e così anche le stufette; e soprattutto dopo che il maggiordomo ha rivelato una cosa di fondamentale importanza, un gesto che compiva il padrone di casa, anche allo scopo di esasperare il suo segretario (ma che lo aveva reso molto più sensibile ad una scossa mortale), capisce come abbia fatto l’ingegnoso assassino ad uccidere, e dopo aver passato in rassegna i vari alibi, e aver capito che anche l’assassino oltre agli altri conosceva quel particolare, ne provoca la confessione, facendo leva sul rimorso e sulla sua “bontà d’animo” non potendo sopportare che un altro essere innocente venga impiccato al suo posto.

Il racconto finisce quindi con una nota assai malinconica che contrasta con la gioia del Natale, anche se nella notte precedente di Natale, non è detto che Babbo Natale non abbia portato il suo regalo in quella casa: la morte del tirannico despota. Tuttavia anche qui, come in altri casi, l’omicida non è un malvagio che uccide per il gusto di farlo o perché spinto da furore, avidità, interesse, odio personale, ma è un “buono” che ricorre all’omicidio per salvare il proprio e l’altrui amore. E’ il genere di assassino che talvolta i vari detectives di carta proteggono dandogli modo di scappare, che si tratti di Poirot, o Sherringham o anche Alleyn. Perché Alleyn permette che fugga all’impiccagione…uccidendosi col cianuro: anche quella è una fuga, o no?

Il racconto non si vorrebbe che finisse! E’ questa la sensazione che ho avuto: una splendida prova di finezza, gusto e una scrittura evocativa, dialoghi brillanti e la capacità di condensare magicamente in trenta pagine una storia che altrove lo sarebbe stata in trecento.  Io amo Ngaio Marsh. E per di più questa è un’opera della fine degli anni trenta, il massimo del fulgore della scrittrice neozelandese.

Roderick Alleyn, che è figlio di una aristocratica (infatti sarebbe Sir in effetti e tale sarà quando arriverà al grado di Commissario, cioè baronetto) riceverà il titolo non per ceto ma anche per prestazioni lavorative, e già questo lo rende al lettore un personaggio simpatico: non è certamente il detective snob alla Sherringham, né tantomeno un lord tipo il Wimsey della Sayers, ma è più vicino  alla borghesia cittadina, e come il Poirot della Christie o il Sergente Beef di Leo Bruce o il John Appleby di innes anche lui divenuto Sir col tempo per meriti di lavoro, coniuga nella stessa figura dell’investigatore anche quella del poliziotto (Poirot è un ex poliziotto belga). Ma se Poirot talora è antipatico in quel suo saper tutto, e nelle sue manie, Alleyn è garbato, signorile nei modi, così diverso dai rozzi poliziotti, ma affabile, educato e rispettoso come ogni lord che si rispetti ( e lui lo è anche se ha fatto di tutto per non vivere di rendita).

Lo stile è scorrevole e sontuoso, e la lettura è una piacevole, molto piacevole esperienza.

Perché la Marsh sapeva scrivere, senza mai tracimare, andare oltre. Che fosse racconto o romanzo, l’opera è come se fosse un quadro, perfetto nelle  sue dimensioni. E quindi bisognerebbe che si possedesse un senso artistico sviluppato.

Del resto, come diceva la stessa Marsh, You must be able to write. You must have a sense of form, of pattern, of design. You must have a respect for and a mastery over words.

La grandezza non si improvvisa, e tantomeno ci si può improvvisare nello scrivere.

Pietro De Palma

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Carter Dickson: Persone o cose ignote (Persons or Things Unknown, 1938) in Delitti di Natale, trad. Dario Pratesi, I Bassotti, Polillo, 2004

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DelittiA 13 anni fa risale quella che io reputo una delle migliori raccolte di racconti in assoluto, proposte da Polillo: Delitti di Natale. Fu tale il successo di questa raccolta (7 edizioni) , che qualche anno dopo fu proposto un sequel dal titolo “Altri Delitti di Natale” che ebbe anche un discreto successo (3 edizioni).  E’ una riprova – se mai ce ne fosse bisogno – del fatto che  quando qualcuno ha le capacità e ha la voglia supportata dalla passione nel proporre qualcosa di valido, la fortuna e il supporto di chi riconosce le fatiche e anche gli investimenti, non mancano.

In questa raccolta furono raccolti molti celebri racconti: di questi, via analizzerò alcuni, sia in questo blog, sia nell’altro che ho aperto da poco.

In primis, parleremo di un racconto del meraviglioso John Dickson Carr, firmato con lo pseudonimo Carter Dickson: Persons or Things Unknown, 1938.

La genesi editoriale è piuttosto travagliata.

Dickson-QueerLa raccolta originale in cui è attualmente compreso The Department of Queer Complaints, originalmente comprendeva sette racconti:

The New Invisible Man
Footprint in the Sky
The Crime in Nobody’s Room
Hot Money
Death in the Dressing Room
The Silver Curtain
Error at Daybreak
in quanto altri due racconti, che originalmente avrebbero dovuto farne parte, The Empty Flat e  William Wilson’s Racket, furono espunti nell’edizione del 1941, riapparendo in un’altra collezione carriana The Man Who Explained Miracles del  1963.

4ce166759d9a0aa5b3c296fb80762837Oltre però ai sette racconti originali, della raccolta facevano parte anche quattro racconti di vario genere:

The Other Hangman
New Murders for Old
Persons or Things Unknown
Blind Man’s Hood

Quando nel 1990 uscì ne Il Giallo Mondadori l’antologia “Dipartimento Casi Bizzarri”, si apprestarono per essa i nove racconti originali del Colonello March, riuniti nell’occasione, che avevano dato il nome alla raccolta originale; tuttavia da essa furono espunti invece i quattro racconti di genere diverso, forse  per caratterizzare il volumetto con una serie ben precisa. Tuttavia, quando si procedette nel 2001 a realizzare il Supergiallo La porta sul delitto, unificando in esso sia la collezione nota sotto il nome “La porta sull’abisso” (The Door to Doom) pubblicata nel 1986 nella serie Altri misteri e andata esaurita (e ricercata dai collezionisti), sia quella Department of Queer Complaints, in quell’occasione si sarebbero dovuti recuperare i quattro racconti prima eliminati, ma invece essi restarono fuori dall’edizione.

Conclusione ?

I quattro racconti, chi voglia leggerli, è costretto a trovarli in quattro edizioni diverse:

Il cappuccio del cieco, traduzione Paola Campioli, Delitti di Natale (brossura), Ed. Riuniti, 1995

Persone o Cose Sconosciute, traduzione Dario Pratesi, Delitti di Natale (brossura), I Bassotti, Polillo, 2004

L’altro giustiziere, traduzione Marcella Dalla Torre, Ellery Queen Inverno Giallo, Mondadori, 1975 o I pericolosi anni trenta, Supergiallo Mondadori, 1997

L’orrore dei Marvell, traduzione Roberto Sonaglia , in: Ellery Qeen Estate Gialla , 1985

Il racconto che esaminiamo oggi fa parte quindi dei quattro racconti eliminati. Perché nel 2001 sia accaduto non lo so: ritengo che non si volesse spendere altri soldi commissionando la traduzione dei quattro racconti restanti,  avendo già le due raccolte approntate (chi mai in Italia sarebbe andato a controllare se nell’uovo ci fosse il pelo?).

E’ un racconto ambientato nel passato, senza personaggio fisso, del filone che attinge ad un falso soprannaturale (ricordiamoci che poi esistono romanzi e racconti di Carr che invece insistono nell’altro filone, quello del soprannaturale: benchè siano sempre gialli, sconfinano nel Fantastico): sono racconti in cui vi sono maledizioni, fantasmi, demoni e quant’altro e che invece poi si risolvono in storie spiegabili razionalmente. Nel nostro caso vi è una entità maligna.

Una grande casa, nei pressi di un bosco, nel Sussex, viene venduta e il nuovo padrone di casa con un amico storico, ed un altro vicecomandante di polizia metropolitana, vi si riuniscono con le rispettive mogli per Natale. In occasione della sera di Natale, il padrone di casa racconta una storia accaduta in quella casa, per cui – secondo alcune testimonianze e cronache risalenti al 1660 –una entità maligna avrebbe ucciso un uomo con tredici pugnalate senza che aggressore né tantomeno l’arma venissero trovati.

In sostanza, tre secoli prima, all’epoca della restaurazione, lo squirt del villaggio aveva promesso la propria figlia, Mary, ad un possidente, divenuto ricco in seguito ad acquisizioni durante l’era di Cromwell, tale Richard Oakley. Quando già i due  stavano per approntare seriamente le cose per sposarsi, era apparso nel villaggio un damerino, Gerard Vanning, ricco e con tanto di futuro titolo, che, avendo messo i propri beni al servizio della Corona affinchè ritornasse al potere, ora che v’era ritornata, aspettava di ottenere i privilegi che gli sarebbero stati dovuti. Pur essendo antipatico a parecchi e persino allo squirt e a sua moglie, figurarsi alla figlia, man mano aveva conquistato terreno nei confronti della ragazza, mentre l’altro stava perdendolo: sentiva il disagio per un divario di classe sociale, cultura e..anche ricchezza. Oakley infatti none era più sicuro, ora che era ritornato al potere il re (Carlo II), di mantenere le sue terre, per cui si sarebbe impoverito.

portaAccadde però un giorno un fatto che avrebbe scombussolato di nuovo le carte in tavola: Oakley in seguito ad una pronuncia dello stato tendente a legalizzare tutto quanto successo fino a quel momento, mantenne le sue proprietà, ridiventando un partito appetibile per la figlia dello Squirt. Così accade che una sera, dopo la cena, mentre lo Squirt e sua moglie si erano appisolati, e Oakley e la fidanzata erano su, nell’ultima stanza in cima alle scale, La Stanzetta delle signore, dove esse si spogliavano, arredata con una credenza, che esponeva una brocca dell’acqua, pochi piatti, un tavolo e poche sedie, arrivasse Vanning, tutto spaventato, il quale ordinò ai servi di armarsi di bastone e seguirlo per le scale: era lì perché intendeva supplicare Oakley, che aveva maturato una fama anche sinistra, per certe sue passeggiate nel bosco di notte, di togliergli la fattura e comandare ad una entità maligna che si era annidata nel suo armadio, di andare via.

Allorquando era salito in camera dove erano i due, improvvisamente la porta si era chiusa, la luce si era spenta, si erano sentiti i rumori di una colluttazione, i rantoli, l’odore del sangue, le urla della ragazza e poii quando finalmente gli occupanti della casa, servitori in testa, avevano sfondato la porta della camera, si erano ritrovati dinanzi ad uno spettacolo agghiacciante: Vanning era appoggiato alla parete, seduto sul pavimento con una espressione terrorizzata, la ragazza aveva segni di sangue sulla gonna, e infine Oakley giaceva per terra in un mare di sangue. Agli occupanti della casa lì per lì era venuto in mente che unico responsabile fosse stato Vanning e lo avrebbero trafitto se qualcuno non avesse rimesso tutto al coroner, non essendosi trovata l’arma del delitto: se fosse stato Vanning, giacchè era stato trovato dentro, ma anche l’arma vi si sarebbe dovuta trovare. E invece nulla.

Con la ragazza svenuta tra le braccia, nonostante gli altri avessero pensato ad altro rimedio, Vanning la portò dabbasso e la rianimò dopo averle versato tra le labbra qualche goccia di brandy.

Per di più, avendo sprangato la porta e non volendo alcuno dei presenti ritornare in quella stanza, si era offerto Vanning, uscendo però da essa correndo via con lo sguardo terrorizzato però. E quindi le ipotesi contro Vanning erano cadute. Per di più la fama sinistra di Oakley, quella figura che alcuni giuravano di aver attraversato il villaggio, avevano addossato al povero Oakley la fama di stregone. Ben presto venne dimenticato e qualche tempo Vanning e Mary si sposarono. Col tempo nessuno avrebbe potuto mettere in forse la bontà di quel matrimonio, perché i due andavano d’accordo e Vanning stesso era diventato baronetto e ricco.

Tuttavia una sera, dopo che si era sbronzato, molti anni dopo il primo assassinio, anch’egli fu ucciso, in sostanza sfasciando una finestra con la sua testa, e facendo così che morisse dissanguato, sgozzato.

Alla fine della storia, sia il poliziotto che il padrone di casa, concordano nella stessa soluzione che spiega quanto accaduto tre secoli prima: chi avesse ucciso Oakley, chi Vanning, e quale arma invisibile sarebbe stata utilizzata nel primo delitto tanto da non essere rinvenuta, pur dovendo essere un lungo coltello con una lama larga due dita e mezzo.

Dico subito che ci troviamo dinanzi ad un altro straordinario racconto di Carr: non è  innanzitutto un whodunnit, ma un howdunnit. Non è whodunnit perché è chiaro chi possa essere stato ad uccidere e perché, in entrambe le occasioni (e una entità maligna è da escludere, nonostante le conclusioni del coroner in occasione della morte di Oakley avessero seguito questa falsa pista). In questo il racconto in questione è molto simile nella struttura, howdunnit e non whodunnit – poche persone sospettabili e quindi in sostanza sicurezza di chi possa essere stato – ad altro racconto, sempre a firma Carter Dickson, La casa in Goblin Wood (1947).  Come in quel caso sussiste però una impossibilità manifesta che tinge la vicenda di un velo soprannaturale: in Goblin Wood era stata la sparizione della vittima, nel nostro caso è la sparizione dell’arma. Ci sono però delle differenze: lì la vicenda presenta una altalenanza di situazioni prima comiche poi altamente drammatiche, qui una conduzione che è dall’inizio alla fine avvolta da una cappa di terrore puro, che si stempera, come nella catarsi alla fine della tragedia, nel finale rivelatore. E’ una maniera di trattare il racconto che Carr conduce in parecchi esempi della sua produzione: lo troviamo tanto per dirne una anche in Hag’s Nook(1933:  un fatto attinente al passato, che attiene a qualcosa di oscuro, viene raccontato nel presente:  qualcosa che ad esso è legato, accadrà ancora.

Per quanto attiene alla soluzione, che è sensazionale, devo purtuttavia ricordare che una tale soluzione  fu usata e adattata a seconda dei luoghi e delle occasioni: infatti, la stessa soluzione, pur presentando differenze minime, viene utilizzata con effetti veramente sorprendenti, anche in un radiodramma successivo, del 1944, The Dragon in the Pool, contenuto nella raccolta THE DEAD SLEEP LIGHTLY (1983), laddove l’arma usata è verosimilmente un pugnale, solo che di pugnali non ve n’è neanch l’ombra.

Non dico qui quale sia l’arma e dove  si sarebbe trovata se si fosse fatto un certo ragionamento(tenuto conto che si setacciò la stanza senza trovare nulla, e che alle due persone al di dentro della stanza, Mary e Vanning, non era  stato trovato addosso alcunchè di compromettente).  Dico solo che anche Carr risponde pienamente a quel detto secondo cui, se vuoi nascondere qualcosa così bene da non farla ritrovare devi saperla nascondere mettendola sotto lo sguardo di chiunque. E gioca sempre ad armi pari col lettore fornendo infatti tutti gli indizi: tra gli altri dice con nonchalance una cosa, che il lettore esamina non nel suo giusto valore, proprio perché Carr abilmente lo dissimula, quando afferma cosa accadde a Mary, la promessa sposa , dopo la morte di Oakley. Se si esaminasse con occhio attento quella sezione, ma la si dovrebbe esaminare almeno con l’occhio di Carr, si troverebbe l’indizio centrale.

Ovviamente il lettore medio non è Carr. E quindi quando viene risolta la questione, ognuno di noi si batte la fronte con la mano e dice: Come ho fatto a non pensarci anch’io?

Perché noi non siamo John Dickson Carr, Il Magnifico.

Pietro De Palma

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